Premessa: l'imprevisto
Il “complotto” sembrava un ferrovecchio. Invece è più vivo che mai. Fa il paio con le guerre: nessuno le “dichiara” ma tutti le fanno, anche “per difesa” a geometria variabile. È il girotondo dell'età presente. Incapaci di prevedere, prevenire e controllare il corso degli eventi, tutti gridano al “tradimento”. Lo fanno i vinti per motivare la sconfitta. E lo fanno i vincitori, che si spacciano per trionfatori a tempo indeterminato per essere prevalsi in un paio di turni elettorali ma sanno di avere i piedi di argilla. Perciò temono d'inciampare in qualche insidiosa trappola tesa da alleati malfidi o, peggio, dall'interno stesso del “cerchio magico”. Chi ha meno del 30% del potenziale 60% degli elettori finge di non essere quel che è. Recita, ma in realtà conta poco più del 15 % effettivo degli italiani con diritto di voto. Rappresenta una minoranza esigua. La Democrazia cristiana, un miracolo del dopoguerra, si sentì al sicuro sino a quando superò la soglia del 40% dei voti validi, mentre alle urne andava oltre l'80% degli aventi diritto. Poi iniziò a piegare le ginocchia. Il partito oggi prevalente è lontanissimo da quella solidità. Sicché bene si comprende l'ansia da prestazione di chi governa, consapevole di essere in stato di emergenza permanente. In tempi passati (ma che per alcuni non passano mai) i principali indiziati di complotto erano i massoni: un Ordine iniziatico che a volte riempie le cronache ma sfugge alla conoscenza. Sicché quando se ne parla ognuno si tiene sulle sue. Chi la ritiene una società segreta continua a demonizzarla con argomenti bislacchi. Chi la considera parte eminente della società rimane inascoltato. Alcuni recenti volumi scuotono pregiudizi e invitano al dibattito. È il caso di “La Massoneria italiana dalle origini al nuovo millennio” di Giuseppe L. Manenti (Carocci), “Origen de la Masonería en España” di Fernando Gil Gonzales (ed. Almuzara), “Los orígenes religiosos de la masonería: de las catedrales a la fraternidad” di José Antonio Ferrer Benimeli e, sul lato opposto, dell'acuta ricerca di Matthew D.J. Scanlan su “La Libera Muratoria e il mistero dell’«Accettazione», 1630-1823. Una pecca fatale”, in corso di pubblicazione in “L'Ipotenusa” diretta da Dario Seglie, presidente del CeSMAP, e “Il Rito Scozzese Antico e Accettato” di Alfio B. Manoli (ed. Giuseppe Laterza). Ne scriveremo ampiamente. Osserviamo ora che, se i complotti sono quotidianamente accampati per spiegare (o giustificare) eventi odierni, bene si comprende che essi siano stati evocati per svelare le ragioni vere o recondite, palesi od occulte, delle grandi svolte storiche. Fu il caso della Rivoluzione Francese.
L'origine massonica della Grande Dichiarazione americana
Gli Stati Uniti d'America furono proclamati dai rappresentanti delle tredici colonie che il 4 luglio 1776 a Filadelfia dichiararono di non riconoscere più la sovranità della Gran Bretagna. La ribellione era iniziata a Boston due anni prima, quando una manciata di coloni, travestiti da pellirosse, uscirono da un locale utilizzato anche come loggia massonica e buttarono a mare il tè di una nave ormeggiata in porto. Tanto bastò a molti storici, come Bernard Fay, per dire che la rivolta fu un complotto massonico: una tesi confortata dal fatto che massoni erano George Washington e quasi tutti i firmatari della Grande Dichiarazione di Filadelfia. Però lo erano anche molti generali e ufficiali inglesi che per sette anni tentarono di reprimere nel sangue la rivolta delle colonie. La partita si chiuse quando dalla Francia (che non aveva affatto rinunciato a Montréal e alla Terra degli Uroni) arrivò un corpo di spedizione in aiuto dei ribelli. Esso venne preceduto dal massone Gilbert Motier, marchese di La Fayette, in stretti rapporti con il “fratello” Benjamin Franklin, accolto a Parigi nella famosa loggia “Les Neuf Soeurs”, nella quale era stato iniziato Voltaire. Nominato maggior-generale dal Congresso americano ed acclamato eroe dei due mondi, La Fayette si affiliò anche alla “Saint-Jean d'Ecosse au Contrat Social”, una loggia conservatrice a differenza dell'omonima, ma molto diversa, “Contrat Social”.
La svolta incompresa: le sanguinose “giornate rivoluzionarie”
La Grande Rivoluzione ebbe un inizio del tutto inaspettato anche da quanti ritenevano che il governo fosse ormai impari al suo compito. Il 5 maggio 1789 si radunarono in Parigi gli Stati Generali, che non venivano convocati dal 1614. La loro laboriosissima elezione aveva richiesto quasi nove mesi. Il Terzo Stato (la borghesia) contò 578 deputati contro i 561 di nobiltà e clero. L'insediamento avvenne con la liturgia arcaica. Dopo un mese di trattative inconcludenti sulle modalità di voto (per “testa” o per “stato”), la tensione precipitò. Rappresentanti del basso clero si unirono a quelli della borghesia. Il 17 maggio il Terzo Stato con apporti di ecclesiastici e di qualche nobile si proclamò Assemblea Nazionale. Il 20 nella Sala della Pallacorda questa giurò di non sciogliersi sino a quando non avesse deliberato la Costituzione. Dopo comprensibili esitazioni, Luigi XVI dette il suo assenso, ma l'11 luglio, sotto pressione di correnti reazionarie, licenziò il ministro delle Finanze, Necker, e lo sostituì con il barone de Breteuil. Contrario alle riforme aleggianti in seno all'Assemblea, questi fece affluire truppe attorno a Parigi e al Castello di Versailles, residenza reale. In risposta, il 14 luglio una folla di facinorosi (artigiani, bottegai, salariati, parecchie donne) si armò con i fucili in deposito all'Hotel des Invalides e assalì la Bastiglia, prigione di Stato, uccise il governatore e alcuni militari di guarnigione e liberò i detenuti. In un clima si esaltazione venne improvvisata una milizia cittadina, poi Guardia nazionale, al comando di La Fayette. Il 17 Luigi XVI richiamò Necker. Ai colori della città di Parigi, rosso e blu, si aggiunse il bianco della Casa di Borbone. La Francia ebbe il tricolore, da quel momento emblema della Rivoluzione. Gli storici classificano la sequenza di eventi del giugno-luglio 1789 come “giornate”: un termine “neutro” per indicare che il loro corso non aveva una linea definita, non rispondeva a una strategia politica preordinata. La Rivoluzione procedeva a segmenti. Tutto era possibile. Lo si vide anche dai lavori dell'Assemblea nazionale costituente che il 4 agosto decretò l'abolizione dei privilegi feudali, in massima parte decaduti da tempo. Fu cancellata la decima a beneficio del clero. L'abolizione dei privilegi ecclesiastici venne caldeggiata dal vescovo di Autun, il gaudente Maurice Talleyrand di Périgord, futuro ministro degli Esteri di Napoleone e di Luigi XVIII. Parigi era dominata da un'eccitazione più mistica che politica, da un fervore di rigenerazione. Il 26 agosto l'Assemblea proclamò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino che andò molto oltre la Grande Dichiarazione americana del 4 luglio 1776. In quello stesso 1789 il Congresso federale, riunito a New York, il 30 aprile elesse George Washington primo presidente degli USA.
Gli emigrati...
Da luglio una parte della nobiltà, fiutato il pericolo, lasciò la Francia. In Parigi e ancor più nelle campagne, ove l'emigrazione degli aristocratici fu vistosa, dilagò la Grande Paura che i nobili volessero tornare alla testa di eserciti stranieri. Da quel momento protagonista della Rivoluzione divenne il Complotto, un soggetto non del tutto nuovo ma che da allora assunse fattezze nuove. Quasi un secolo e mezzo prima Parigi era stata teatro della lotta tra la corte del re e la Fronda. Alle spalle vi erano decenni guerre di religione, cioè tra cattolici e ugonotti: una somma di intrighi, di delitti e di stermini, come quello perpetrato nella Notte di San Bartolomeo. Ora, però, il “complotto” coinvolse le masse. Il 12 luglio 1790 l'Assemblea nazionale deliberò la Costituzione civile del clero, che stabilì l'elettività di parroci e vescovi, tenuti al giuramento di fedeltà alla Costituzione. Mentre una parte del clero giurò, l'altra rifiutò e divenne automaticamente sospetta come quinta colonna di un sovrano straniero, quale il pontefice venne dipinto da giornali sempre più accesamente anticlericali. Nel 1791 Pio VII condannò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino e la Costituzione civile del clero e incoraggiò i preti refrattari al giuramento a non piegarsi, a differenza di quanto avevano fatti gli ecclesiastici “sermentés”, cioè “giurati”. I preti divennero bersaglio dei rivoluzionari estremi. Lo si vide nel 1792-1794 quando a migliaia i refrattari furono arrestati e spesso ghigliottinati con processo sommario o per effetto della “legge sui sospetti” che autorizzò esecuzioni senza processi. Non pochi vennero linciati. Fu la sorte riservata alla principessa di Lamballe, Maria Luisa di Savoia, che venne fatta a pezzi dalla folla. La sua testa, spiccata dal corpo, venne portata in trionfo sotto le finestre di Maria Antonietta, che si diceva avesse con lei, illustre esponente della massoneria femminile, rapporti non solo intellettuali.
...e il clero refrattario, contro la Massoneria. L'abate Lefranc
Nelle settimane delle sanguinose “giornate” dell'estate 1789 si diffuse la diceria che nei Palazzi Reali fosse stato visto circolare l'“Uomo Rosso”, segnacolo della rivoluzione incalzante. Dal 1791 prese corpo la convinzione che la rivoluzione rispondesse a un disegno unitario e avesse un regista, tanto occulto quanto onnipresente: la Massoneria. Lo spiegò l'abate Jacques-François Lefranc in “Le voile levé pour les curieux ou le secret de la Révolution révélé à l'aide de la Maçonnerie”, pubblicato lo stesso anno a Londra e tradotto in Italia nel 1792. Il nesso tra Rivoluzione e massoneria era già stato affacciato da Antoine Ferrand in “Les conspirateurs démasqués” e nell'anonimo “Lo svegliatojo dei Re o saggio dei falsi principj degli attuali democratici circa la rivoluzione della Francia”. Però Lefranc impostò per primo un’interpretazione sistematica del “complotto”. In nove capitoli passò in rassegna l'origine e l'organizzazione della “setta” dei liberi muratori, il debito politico-culturale dell'Assemblea nazionale verso la massoneria e l'obiettivo liberomuratòrio di annientare il cristianesimo (“écraser l’infame”, come diceva Voltaire), sostituirlo con la “religione naturale”, sovvertire la gerarchia della chiesa cattolica per rovesciare infine i troni dopo aver abbattuto gli altari. Lefranc indicò in Marie-Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet, e in Luigi Filippo di Borbone, duca di Orléans, entrambi massoni, gli ispiratori e i registi della rivoluzione. Non prevedeva che entrambi sarebbero finiti ghigliottinati, travolti dai giacobini. Secondo l'abate i massoni avevano radici nei deisti, negli increduli, nei “philosophes”, ovvero negli Illuministi, e persino, più addietro nel tempo, nei seguaci dei Socino (antitrinitari) e negli anabattisti, propugnatori dell'ugualitarismo radicale. Per Lefranc, però, il binomio massoneria/rivoluzione non era il Male o il Mostro dell'Apocalisse ma semplicemente il punto di arrivo di un processo storico: un “fatto” da affrontare e da combattere sul piano dell'opinione pubblica, denunciandone la doppiezza culturale e politica, senza però indulgere alla demonizzazione. Occorreva far conoscere la vera identità della massoneria: il naturalismo. Il 2 settembre 1792 Lefranc fu assassinato con altri 180 religiosi in una delle giornate più drammatiche e cupe della rivoluzione, nel passaggio dalla monarchia costituzionale alla repubblica nata nel sangue anche di quella feroce strage. Tra gli altri con lui venne ucciso Jean-Marie Gallot, sicuramente iniziato alla massoneria e proclamato beato da Pio XII.
Augustin Barruel: Satana all'origine della Rivoluzione
Contrariamente a quanto solitamente si dice, Lefranc fu un antecedente del gesuita Augustin Barruel ma non ne fu il precursore, se per tale si intende il “suggeritore”. Le differenze tra i due sono radicali e incolmabili. Curiosamente Lefranc non è neppure citato nella corposa raccolta di saggi di Gian Mario Cazzaniga “La catena d'unione. Contributi per una storia della massoneria” (Pisa, Ets, 2015). Eppure venne tradotto e diffuso molto prima che Barruel iniziasse a scrivere i cinque volumi del suo celebre trattato “Mémoires pour servir à l'histoire du Jacobinisme” (Amburgo, 1796-1803). Anche Barruel rifiutò il giuramento richiesto dalla costituzione civile del clero e incitò gli ecclesiastici a opporsi al regime rivoluzionario. Consapevole di essere a rischio della vita, si trasferì clandestinamente a Londra ove venne accolto con benevolenza e continuò la sua missione di oppositore strenuo nei confronti dei “philosophes” da lui fronteggiati per anni con opuscoli, saggi e la direzione del “Journal Ecclesiastique” dal 1788 al 1792. Nel 1793 Barruel pubblicò l'“Histoire du clergé pendant la Révolution française”: due volumi rigorosamente documentati e subito tradotti. Negli anni seguenti meditò sul processo rivoluzionario. Non si lasciò incantare dalla vicendevole sanguinosa eliminazione tra capisetta, con la condanna a morte di Danton, Robespierre e Saint-Just, né dalla reazione del Termidoro e dall'avvento del Direttorio. Questo era certo “moderato” rispetto ai giacobini che si erano fatti strada annientando i girondini. Barruel indagò sul “segreto” della Rivoluzione quando questa sembrava volgere al termine. La sua opera, perciò, rischiava di risultare anacronistica, superata dal corso degli eventi che ormai vedevano Vienna trattare con generali francesi come il trentenne Napoleone Buonaparte, vincitore della Campagna d'Italia. Da gesuita poliglotta, forte di lunga esperienza di viaggi e soggiorni in diversi Paesi, Barruel chiese lumi a molti studiosi, che lesse attentamente. Ma poi scrisse di testa sua. A differenza dell'abate Lefranc, il gesuita Barruel dichiarò di essere stato iniziato alla massoneria e di averne conosciuto dall'interno i primi “misteri”, sino al grado di Maestro. Affermò che molti tra i massoni erano persone tanto rette e stimabili quanto ingenue e credulone. Gli sarebbe stato difficile scrivere diversamente nella Gran Bretagna del massone Edmund Burke, avversario strenuo della “rivoluzione” non solo francese ma della sua pretensione “rigeneratrice”: un Paese nel quale l'aristocrazia da un secolo era al vertice di logge popolate di ecclesiastici, patrizi, borghesi altolocati. Barruel stigmatizzò i “philosophes” e tutte le congreghe che avevano spianato loro la strada, acciottolata di superficialità e di confusione tra gioco e responsabilità. Aveva assistito al declino delle Istituzioni, a cominciare dal Papato che aveva sciolto la Compagnia di Gesù per compiacere i poteri temporali, a cominciare dai Borbone, poi travolti dalla rivoluzione e condannati a pagare con la loro testa. Alle spalle vi era la Massoneria. Ma quale? Barruel è il vero ideatore del “complotto”. Tuttora imbarazza anche studiosi del complottismo che dal complotto arrivano e ne sono affascinati. Con la differenza che i complottardi di Barruel (o meglio, quelli veri, quelli che fecero la storia) davvero voltarono pagina, mentre aspiranti rivoluzionari di mezzo secolo addietro scrissero proclami, rovistarono e compulsano opuscoli di biblioteche, lontani dalla realtà, dalla Vita. Guerrin Meschini della rivoluzione mancata, organizzati in nuove sette segrete, bande, “brigate” sognarono, uccisero e fallirono. Barruel fece della massoneria un’immensa cattedrale gotica: navate aperte a tutti, cappelle laterali, abside immensa e accogliente, con stili e “ordini” che arrivano da lontano, dalle epoche più disparate. Molto più e meglio di Lefranc egli risalì ai precordi del settarismo: tutte le eresie. Non solo i Sociniani ma i catari, i bogomili, i dualisti gnostici, via via sino a Mani, alla contrapposizione radicale tra la Luce e le Tenebre, tra il Bene e il Male. Lì è la differenza abissale tra lui e tutte le interpretazioni precedenti della Rivoluzione. Questa per lui è Satana. Poiché, però, Satana siede tra i Figli di Dio (come ricorda Giobbe), anche Satana fa parte del Mondo, così come la stessa Rivoluzione. Però, a differenza di altri clerico-papisti, Barruel scrisse che bisognava combattere i “giacobini” (e/o i massoni) ma per estirparne l'errore, non per annientarli fisicamente. Era per la distinzione tra errore ed errante: quando questa venne ricordata da papa Giovanni XXIII parve una scoperta, un'apertura innovatrice. Lo era per chi non aveva mai letto il Vangelo. Ma Barruel ebbe il suo vero personale colpo di genio. In capitoli fondamentali della sua opera tuttora rapinosa spiegò che alle spalle delle logge ordinarie vi sono quelle segrete: le “Arrières loges”, le logge “coperte”, che tramano, ordiscono, mirano lontano e tutto approntano. «In questa rivoluzione – egli scrisse – tutto, persino i suoi più spaventosi crimini, tutto è stato previsto, meditato, combinato, stabilito. Tutto è stato effetto della più profonda perversione, perché tutto è stato approntato e guidato da uomini che, da soli, tenevano il filo delle cospirazioni ordite da molto tempo in società segrete, e che hanno saputo scegliere ed eccitare le mosse date per i complotti.» Non spiegò tuttavia dove fossero le “Arrières Loges”, né da chi fossero composte. Dopo l'avvento di Napoleone primo console, Barruel rientrò in Francia, visse un' esistenza di studi e di libri e completò i “Mémoires”. Poi l'imperatore, che non mancò di perseguitarlo, cadde. Vittima di logge più segrete delle rivoluzionarie? Padre Barruel non lo seppe o non lo scrisse. Morì “dolcemente” (scrisse padre Michel Riquet) il 5 ottobre 1820. Aveva ottant'anni. Napoleone lo seguì il 5 maggio del 1821. Ei fu... Barruel rivive in tanti masssonofobi dei giorni nostri. Travisato però, perché è molto citato ma poco letto. La traduzione integrale dei cinque volumi delle sue “Mémoires” risale a metà dell'Ottocento... Nessuno l'ha riproposta completa e in veste critica. I massonofagi sono troppo ignoranti per occuparsene. Tocca ai Fratelli rimboccarsi le maniche e cingere i grembiulini: per far capire l'inconsistenza di uno dei “complotti” più falsi loro addebitati nel corso della storia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Augustin Barruel (Villeneuve-de-Berg, 1741-Parigi, 1820).