Una crisi senza soluzioni?
La Nòttola di Minerva si leva al tramonto. Volteggia al buio su un mondo ormai libero da passioni e agonismi: le rovine del tempo. Il suo volo può ispirare la riflessione sulla crisi politica in corso in Italia, la più grave dal dopoguerra perché per la prima volta non se ne intravvede la via di uscita, a parte l'ennesimo ritorno alle urne (come in Spagna) o un governo “tecnico”, cioè il crepuscolo della “politica”. Lasciate da parte le chiacchiere oggi imperversanti su fascismo e antifascismo, l'analogia tra la crisi sistemica odierna e la lunga storia d'Italia rimanda al 1919-1922 quando la “maledetta proporzionale” (la definizione è di Giovanni Giolitti) generò alla Camera due corposi partiti (il Partito socialista e il Partito popolare) e una pleiade di gruppi costituzionali incapaci di sintesi e corrivi ad anteporre i propri interessi a quelli del Paese. Ai margini rimanevano i repubblicani irriducibili e frange estremistiche, parte intruppate nel PSI (dal quale nel gennaio 1921 si spiccò il Partito comunista d'Italia, sezione nostrana dalla Terza internazionale) parte nel “fascismo rosso”, speculare a quello social-massimalista. Con un piede nel “sistema” e uno nell'illegalità, gli estremisti di opposto colore infettarono la vita pubblica. Finanziariamente spossato dalla partecipazione alla Grande Guerra, il Paese precipitò in una degenerazione che richiedeva responsabilità, dedizione e quel “senso dello Stato” tanto difficile da definire quanto facile da comprendere quando chi governa se ne mostra e ne risulta privo.
Il partito liberale nacque vecchio e morì bambino
Tra le prove che l'Uccello di Minerva spicca il volo quando ormai sopraggiungono le tenebre v'è la storia paradossale del partito liberale in Italia. Esso nacque in un congresso a Bologna l'8-10 ottobre 1922, dieci giorni prima della leggendaria “marcia su Roma”, quando il liberalismo in Italia era avviato al crepuscolo. A promuoverlo furono Alberto Giovannini, deputato, eletto segretario, Luigi Albertini, direttore e comproprietario del “Corriere della Sera”, Nino Valeri (iniziato massone in un'officina della Gran Loggia d'Italia con Gabriellino d'Annunzio) e il genovese Emilio Borzino, issato alla presidenza del partito. All'assise bolognese si affacciarono anche Antonio Salandra e Giovanni Giolitti, parlamentari di lungo corso, ministri ed ex presidenti del Consiglio, l'uno molto distante dall'altro: democratici liberali e liberali-democratici contrapposti. Giolitti si iscrisse al gruppo parlamentare “liberal-democratico”, poi semplicemente “democratico”. Finì con la scissione dell'atomo: la fine dei liberali.
Negli stessi giorni il Partito socialista si spaccò per l'ennesima volta: Filippo Turati e Giacomo Matteotti slittarono “a destra”, mentre gli altri continuavano a volere la “rivoluzione”, pur avendo alla loro sinistra Gramsci, Bordiga, Togliatti e Tasca, cioè la già citata Terza Internazionale di Lenin. Quando nel 1931 si spense a Parigi, ove era espatriato da sei anni, Turati fu irriso da Togliatti come strumento succubo della borghesia. All'epoca i comunisti bollavano i riformisti come social-fascisti. Solo anni dopo Stalin promosse i fronti popolari per contrastare l'ascesa dei nazional-socialisti di Hitler e le destre, dall'Italia di Mussolini, all'Ungheria di Horthy, alla Spagna di Franco. Morto durante il rapimento di cui fu vittima il 10 giugno 1924 (come ha documentato Enrico Tiozzo nel 2° volume della sua biografia, “Il Delitto”, ed. Bastogi), Matteotti divenne l'icona dell'antifascismo democratico, che però ebbe il torto di astenersi dai lavori della Camera e così regalò l'Aula al governo che, piaccia o meno, rappresentava lo Stato (non per caso l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche pochi mesi prima della tragica fine del socialista di Fratta Polesine aveva aperto l'ambasciata a Roma senza invitare i socialisti).
Un “letterato” ministro dell'Interno:Federzoni
Proprio l'assassinio di Matteotti fermò per qualche mese la deriva del Paese, sospeso tra ripristino della legalità e vittoria del “Trucio”, come Benito Mussolini era detto da Alberto Giannini nella rivista satirica “Il Becco Giallo” (ristampata dal geniale Oreste Del Buono). Dinnanzi all’immediata cattura degli squadristi responsabili della morte di Matteotti (Amerigo Dùmini, Augusto Malacria...) e alle loro palesi connivenze con la cupola del fascismo (Giovanni Marinelli, Cesarino Rossi...), senza bisogno di farselo dire pubblicamente da Vittorio Emanuele III (la cui biografia rimane da scrivere), Mussolini varò subito il più importante rimpasto di governo dal suo avvento. Il 17 giugno cedette il ministero dell'Interno, posizione nevralgica, a Luigi Federzoni, già titolare delle Colonie. Il 1° luglio l'Istruzione passò dal filosofo Giovanni Gentile al liberale e cattolico Alessandro Casati. Lo stesso giorno Gino Sarrocchi sostituì Gabriello Carnazza ai Lavori Pubblici. Alla Guerra e alla Marina rimasero Antonino Di Giorgio e Paolo Thaon di Revel, “uomini del Re”, mai teneri nei confronti dell'incipiente regime, come il massone Aldo Oviglio alla Giustizia.
Il cambio più significativo fu appunto l'avvento di Federzoni (Bologna, 27 settembre 1878- Roma, 24 gennaio 1967). Il suo nome oggi suona quasi senza eco. Eppure egli fu tra i massimi protagonisti della storia d'Italia. Figlio di un amico e cultore di Giosue Carducci, saggista, poligrafo e collaboratore del “Giornale d'Italia”, nel 1910 Federzoni fu tra i fondatori dell'Associazione nazionalista italiana con Enrico Corradini, Roberto Forges Davanzati, Francesco Coppola e altri eredi del pensiero di Alfredo Oriani. Promotore de “L'Idea Nazionale”, nel 1913 eletto deputato nel prestigioso collegio Roma I, fautore dell'interventismo nel 1914-1915, volontario in guerra e decorato al valore, rieletto alla Camera nel 1919 e 1921, oratore facondo e acuto, nel febbraio 1923 egli propiziò la fusione nel Partito fascista dell'Associazione nazionalista, sorretta dalle Camicie azzurre, monarchiche, che tante volte si erano scontrate con quelle Nere. Quale pegno, il Gran Consiglio del fascismo (consesso ancora privato, ma certo influente) poco prima aveva proclamato l'incompatibilità tra fasci e logge massoniche. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 5 marzo seguente, Federzoni costituì una garanzia per i monarchici all'interno del governo e nel partito, alla cui vicesegreteria fu nominato Maraviglia.
La forma è sostanza: l'Aula
Come può essere classificato mezzo secolo dopo la sua morte? Il suo nome non compare nel “Dizionario del liberalismo italiano” (ed. Rubbettino), che del resto non ricorda neppure quello di Borzino, presidente del PLI. Nondimeno Federzoni fu un protagonista del liberalismo in Italia. Il Risorgimento italiano (1792-1860 circa) fu animato da società segrete (carbonari, massoni, Giovine Italia...) ma non ebbe “partiti”. Era impensabile in tempi di repressioni, condanne durissime e patiboli per chi chiedeva costituzioni, libertà di culto, di pensiero, di stampa… Neppure all'estero vi erano veri e propri “partiti” come poi sorsero tra Otto e Novecento; neanche in Gran Bretagna (più celebrata che davvero conosciuta), ove la contrapposizione tra conservatori e liberali aveva molteplici sfumature. La sua peculiarità era connessa alla forma dell'Aula che tutti vedono ma non tutti conoscono e pochi si fermano a osservare.
I “modelli” del “Parlamento” nel tempo sono stati tre: il Senato di Roma, l'inglese e quello della Costituente francese, imitato per entrambi i rami del Parlamento italiano. Per quanto si sa, i “patres” dell'antica Roma sedevano in file ordinate su gradini come in aula universitaria. In Gran Bretagna i deputati sono distribuiti in due settori che si confrontano, con un fondale che sa di “Oriente”. Al centro vi è un tavolino per il deposito degli atti. Originariamente fu questa la foggia della Camera allestita a Palazzo Carignano, diversa da quella, celebratissima della Camera “subalpina”. Quest'ultima ebbe forma semicircolare, meno accentuata dell'attuale a Montecitorio ma sufficiente per propiziare la caratteristica del nascente liberalismo italiano: il trasformismo, che nacque dalla coniugazione delle idee ma fu anche facilitato dal luogo fisico nel quale crebbe, come accade per tutti i corpi viventi.
Quel liberalismo ebbe molteplici protagonisti e altrettanti volti, più e meno noti. Va detto che la dirigenza unitaria e postunitaria fu di primaria grandezza. Essa sfidò l'Europa. Di sette diversi staterelli ormai stenti e succubi dei loro dominatori (gli Asburgo, i Borbone, il papa-re), essa fece uno Stato che dal 1867 sedette nella Conferenza delle potenze europee e mezzo secolo dopo registrò un progresso civile, economico e sociale apprezzato da tutti gli osservatori stranieri. Basti rileggere “Italy-today” di Thomas Okay.
Il passo imperiale di Luigi Federzoni
Certo vi furono dall'inizio due-tre Italie. La prima non voleva fare il passo più lungo della gamba (i conservatori). Un'altra allungava la gamba a costo di farsela ferire (Garibaldi). Infine quella che puntava a orizzonti infiniti. L'equilibrio fu raggiunto con Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921: lo statista che unì ideali e pragmatismo. Ma proprio a lui si contrappose il nazionalismo di Enrico Corradini e di Luigi Federzoni. I nazionalisti erano un altro volto dell'Italia liberale, sulla scia della Sinistra storica di Agostino Depretis e, ancor più, di Francesco Crispi. d'Annunzio non scrisse le “Odi Navali” in omaggio Mussolini. Espresse i turgori dell'Italia che aspirava al Mar Rosso, all'Oceano Indiano, all'“Impero” quando al governo si alternavano Rudinì, Giolitti, Crispi e Pelloux, mentre il socialista Antonio Labriola predicava l'espansione coloniale quale volano per il progresso economico e l'avvento dell'industria senza la quale il “proletariato” non sarebbe mai nato. Marx dixit.
Nel torbido clima dell'estate 1924 fu dunque Federzoni a farsi carico di rimettere un po' d'ordine tra Stato, Governo, partiti e movimenti in un'Europa in subbuglio, tra colpi di stato qui e là tentati e regimi autoritari (come quello di Miguel Primo de Rivera in Spagna). Finissimo letterato prestato alla politica (fu anche il caso dei filosofi Benedetto Croce e Gentile), Federzoni resse l'Interno sino a quando l'attentato a Mussolini, attribuito ad Anteo Zamboni, proprio nella sua Bologna scatenò l'inferno: pena di morte, la “seconda ondata”... Nel novembre 1926 il “duce” riprese l'Interno e relegò Federzoni alle Colonie. Senatore dal 1929, presidente del Senato sino al 1939, quando venne sostituito col più “devoto” Giacomo Suardo, al vertice delle principali istituzioni culturali (dalla “Nuova Antologia” all'Accademia d'Italia) nel luglio 1943 Federzoni fu con Dino Grandi e Giuseppe Bottai autore dell'ordine del giorno che chiese al Re di riprendere i poteri statutari e mise fine al regime. Braccato, riparò nell'ambasciata del Portogallo presso la Santa Sede. Lì scrisse il “Diario” ora pubblicato a cura di Erminia Ciccozzi dall'editore Pontecorboli (Firenze) con ampio saggio introduttivo di Aldo G. Ricci. L'originale del “Diario inedito, 1943-1944”, dopo lunghe traversie, è stato donato da Francesco Sommaruga all'Archivio Centrale dello Stato.
L'opera di Federzoni ministro dell'Interno è sintetizzata dall'invettiva che contro di lui venne lanciata dal ras di Cremona, Roberto Farinacci, mentre l'ex gerarca era imputato con Galeazzo Ciano e altri per “alto tradimento” e condannato a morte dal tribunale di Verona. Secondo la Repubblica sociale aveva perseguito la “tendenza normalizzatrice”, represso l'estremismo e mostrato “condiscendenza costante verso i partiti antifascisti”. Purtroppo per lui, egli venne destituito da senatore (come innumerevoli altri patres) e condannato all'ergastolo proprio dagli antifascisti al potere. Dopo un breve soggiorno, sempre in clandestinità, nel Pontificio collegio ucraino al Gianicolo, nel maggio del 1946, vigilia del referendum, riuscì a riparare in Brasile, donde nel 1948 passò in Portogallo ove insegnò nelle Università di Coimbra e di Lisbona. Torno in Italia nel 1949 in forma riservatissima e poi dal 1951.
Federzoni fu aspramente nemico della massoneria che considerava nociva per l'Italia contemporanea, ma questo non basta a dichiararlo non liberale. Altrettanto si dovrebbe fare di Benedetto Croce o di Luigi Einaudi. Sulla massoneria vi furono e rimangono giudizi e pregiudizi. Proprio a dimostrare la superiorità di alcuni massoni il “Diario inedito, 1943-1944” è uscito con il contributo dell'Istituto intitolato al Gran Maestro Lino Salvini, che ottenne il riconoscimento del Grande Oriente d'Italia da parte della Gran Loggia Unita d'Inghilterra, e si è valso della competenza di un massonologo qual è Guglielmo Adilardi.
Il problema angosciante dell'Italia odierna è la pochezza delle dispute su fascismo e antifascismo e, persino, su unificazione nazionale e “guerra per il Mezzogiorno”, che dà titolo al saggio in cui Carmelo Pinto dà veste vagamente scientifica alle tesi propugnate da noti libelli neoborbonici. Va ricomposta la visione unitaria della storia di questa piccola porzione d'Europa mentre urge far ripartire la Comunità europea (l'“Unione” verrà chissà quando) nell'ambito delle alleanze garanti della sicurezza e della sua integrità territoriale (l'“indipendenza” è acqua passata: ma vale per noi come per tutti i 27-28 componenti dell'Unione Europea).
Monarchici e monarchisti: Federzoni a Umberto II
Perciò è attualissima la lezione impartita in splendida lingua italiana da Luigi Federzoni. A libro “Diario”chiuso al lettore vengono in mente i busti degli italiani illustri al Pincio e i fregi dell'Altare della Patria: rappresentazioni complesse della nostra storia, ove vi è spazio per tutti, senza “damnatio memoriae”, nella consapevolezza che ognuno ha fatto quel che meglio sapeva o gli venne consentito, e ognuno pagò. Una sosta al Pincio merita il monumento levato da Edoardo Calandra a Umberto I, assassinato a Monza da un anarchico estero-diretto. Ai piedi del Re lo scultore subalpino pose il volto della Medusa: l'anarchia, l'odio verso lo Stato. Anche da quell'evento tragico nacque il nazionalismo, che contrassegnò i primi decenni del regno di Vittorio Emanuele III. La sostituzione di Federzoni alla presidenza del Senato coincise con l'inizio della guerra senza frontiere di Mussolini contro la monarchia. Lo ebbe chiaro Federzoni che in una lettera nel primo viaggio segreto in Italia (1949) al “Sire”, Umberto II”, distinse tra monarchia e monarchismo, una piaga, quest'ultima, ancora aperta perché tanti sedicenti monarchici vorrebbero il re a propria immagine e somiglianza.
Umberto Gentiloni Silveri, Pietro Scoppola e altri vent'anni fa si domandarono perché non fosse nato in Italia un “partito conservatore”. Il liberalismo italiano non ebbe mai un partito, né con Cavour né con Giolitti. E poi non fu conservatore, se per tale si intende difensore degli “interessi costituiti”. Fu sempre fautore di profonde riforme, “popolari”. Lì fu la sua forza: progresso civile per consolidare le basi delle Istituzioni. Quello fu anche il liberalismo di Croce (che controvoglia accettò la presidenza del Pli nel dopoguerra) e di Luigi Einaudi. È quanto occorre oggi. Perciò ogni “parte” dovrebbe sacrificare un po' di se stessa e convergere in un “cartello” nell'interesse supremo dell'Italia e dei cittadini. Ma il motto “Italia innanzi tutto” non è dei partiti e dei movimenti. Era di Umberto II che morì esule il 18 marzo 1983. Federzoni fu sino all'ultimo il suo ascoltato consigliere.
Aldo A. Mola