”Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria.”
Una quarantina di anni fa un bravo regista cinematografico, cui lo Stato Maggiore Esercito commissionava la produzione di film di carattere militare, realizzò una interessantissima pellicola, cui dette il nome “L’Arma Meravigliosa”. Già questo regista si era distinto per avere realizzato, in occasione del Centenario delle Truppe Alpine “L’Alpin l’è sempre quel” e non pochi pensarono che “L’Arma Meravigliosa” fosse un tributo alla Fanteria, la regina delle battaglie, come veniva chiamata con qualche enfasi.
La visione del film fu invece una sorpresa. Tutto si sviluppava, dal legionario di Giulio Cesare fino al soldato combattente sulla Linea Gotica per esaltare il valore dell’uomo, dell’individuo, del soldato. L’Arma Meravigliosa non era la Fanteria, era l’UOMO, l’uomo con i suoi problemi, i suoi affanni, le sue speranze e le sue paure, l’uomo che sa che deve combattere, che ha un dovere da compiere fino in fondo, che deve sfruttare le sue più profonde energie. Gli Eserciti che possono contare su soldati di tale fatta e di tale grandezza morale e spirituale sono Eserciti forti, forse non sempre vincitori, ma rispettati ed ammirati.
Questo fu lo spirito che spinse al termine della Grande Guerra (evidentemente non ancora chiamata Primo Conflitto Mondiale) a valorizzare e ad esaltare il Soldato, oscura pedina sul campo di battaglia, ma artefice indiscusso del successo e della vittoria finale. Soldati, a migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia impiegati nelle più disparate attività sul campo di battaglia, ognuno con la consapevolezza di poter morire in ogni momento e pronti all’estremo sacrificio. Nelle lettere spedite dal fronte si poteva leggere, assieme all’amore per la famiglia ed alle preoccupazioni per la scarsità di notizie, anche l’orgoglio di poter fare qualcosa di importante, di determinante per la propria Patria.
Quanti nostri soldati lasciarono la vita sul terreno o negli ospedali in quegli anni? Le statistiche dicono oltre seicentomila, forse il dato è esagerato o forse no, ma non è il numero che conta. Ognuno di loro ha fatto il sacrificio estremo e di questo ognuno di noi deve esser loro grato.
Fu il Generale Giulio Douhet, internazionalmente famoso per le sue teorie sull’importanza strategica dell’aviazione, che propose nel 1920 un riconoscimento sacro e solenne ai nostri Caduti, rendendo onore alla salma di un soldato senza nome che rappresentasse tutti i Caduti. La proposta venne presentita alla Camera attraverso un disegno di legge nel 1921.
Approvata la legge, il Ministero della Guerra diede incarico ad una commissione che esplorò attentamente tutti i luoghi nei quali si era combattuto, dal Carso agli Altipiani, dalle foci del Piave al Montello e l’opera fu condotta in modo che fra i resti raccolti ve ne potessero essere anche di reparti da sbarco della Marina.
Fu scelta una salma di un soldato sconosciuto per ognuna delle seguenti zone: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa. Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, tratto da Castagnevizza al mare.
Le undici salme, di cui solo una sarebbe stata tumulata al Vittoriano a Roma, furono trasportate nella basilica di Aquileia nell’ottobre 1921 e ne venne selezionata una da inumare solennemente al Vittoriano.
L’indicazione della salma fu fatta da una donna di Trieste, Maria Bergamas, il cui figlio Antonio, arruolato all’inizio del conflitto nell’Esercito austriaco, aveva disertato per unirsi alle truppe italiane ed era caduto, senza che il suo corpo potesse essere identificato.
La bara indicata da Maria Bergamas fu collocata sull’affusto di un cannone e deposta su un carro ferroviario appositamente disegnato, mentre le altre dieci bare vennero sepolte nel cimitero di guerra di Aquileia.
Il feretro venne trasportato a Roma sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-F
Giunta a Roma, la salma venne tumulata al Vittoriano il 4 novembre 1921, in una solenne cerimonia alla presenza del Re, delle autorità dello stato italiano, di tutte le bandiere di guerra, di tutte le associazioni Combattentistiche e d’Arma, di una folla straboccante. La cerimonia religiosa fu officiata da Mons. Angelo Bartolomasi, un sacerdote di Pianezza all’epoca Vescovo di Trieste, e l’acqua benedetta era quella del fiume Timavo, il fiume carsico che sbocca nel mare vicino a Monfalcone e su cui per parecchio tempo era attestato il fronte italiano.
Sul sacello è riportata la scritta in latino “Ignoto Militi” e simbolicamente è sotto la protezione della Dea Roma, la cui statua svetta sull’Altare della Patria.
Al Milite Ignoto venne concessa la medaglia d’oro con la seguente motivazione: ”Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria.”
Il cerchio si chiude. Il Milite Ignoto è un UOMO e l’UOMO è l’Arma Meravigliosa di cui ogni Esercito ha bisogno e deve esserne fiero. Grazie a questi uomini, simbolicamente rappresentati dal Milite Ignoto, l’Italia ha concluso il suo processo di unificazione nazionale.
Giorgio BLAIS