1941: primavera di tristezza
«Dopo quattro mesi di assedio è caduta Giarabub.»È la lapidaria annotazione affidata al “Diario” dal generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, al termine del colloquio quotidiano con il Re. Era il 21 marzo 1941, triste equinozio di primavera. La guerra non andava affatto bene per le armi italiane. Al rientro dall'Albania, Mussolini era furente. «Il nostro attacco alla Grecia – prese atto il duce – è sostanzialmente fallito, specialmente se si tiene conto delle speranze che in esso erano state riposte. In Africa orientale la situazione precipita. È in corso l'abbandono completo della Somalia.» Neppure un paio di mesi dopo, il 5 maggio, l'imperatore Hailé Selassié fu riportato dagli inglesi ad Addis Abeba. Il 24 aprile il principe Amedeo di Savoia, III duca d'Aosta, si asserragliò sull'Amba Alagi. Dopo un mese di eroica resistenza si arrese ai britannici con l'onore delle armi. Il “Duca di ferro” morì prigioniero in un ospedale di Nairobi il 3 marzo 1942. Volle essere sepolto tra i suoi soldati. Nel volgere di pochi mesi l'intera Africa Orientale Italiana andò completamente perduta.
La guerra nell'Africa settentrionale
Il 28 giugno 1940 Italo Balbo, governatore della Libia, fu abbattuto da mai chiarito “fuoco amico” nel cielo di Tobruk. Mussolini lo sostituì con Rodolfo Graziani, che non vi aveva lasciato buon ricordo nella fase conclusiva della riconquista, e gli ordinò di muovere contro gli inglesi in Egitto. Winston Churchill consigliò ad Archibald Wavell di non accettare battaglia e di acquartierarsi a Marsa Matruh in attesa di tempi più favorevoli. Questi vennero sulla fine dell'anno. Il 7-8 dicembre 1940 inglesi e “imperiali” (precisamente australiani) mossero all'offensiva in Cirenaica. Avanzarono a valanga. La sera del 10 il comando del battaglione “Coldstream” informò che era «impossibile contare i prigionieri a causa del loro elevato numero», ma che c'erano «circa cinque acri di ufficiali e duecento acri di truppa». Wavell era ormai così sicuro della vittoria che dirottò via mare un'intera divisione verso l'Eritrea per l'assalto finale agli italiani. Come poi annotò Churchill, sia Graziani sia Mussolini e la sua cerchia si mostrarono del tutto impari ad affrontare gli eventi. L'11 dicembre il duce dovette costatare che in Libia in soli due giorni erano state polverizzate due divisioni. A commento dei telegrammi catastrofici di Graziani, che lamentava di essere stato messo nelle condizioni di fare «la guerra della pulce contro l’elefante» e annunciava di volersi arroccare addirittura a Tripoli, Mussolini confidò a Ciano: «Ecco un altro uomo con il quale non posso arrabbiarmi perché lo disprezzo.» Il 1941, sin dall’inizio, fu costellato di “notizie buie”. L'attacco inglese in Marmarica “squarciò” le difese italiane. Il duce si rassegnò ad abbandonare la Cirenaica. Il 12 gennaio il generale Italo Garibaldi sostituì Graziani, ruvidamente richiamato in patria. Lo stesso giorno, su direttiva di Adolf Hitler, a Tripoli giunse Erwin Rommel, per allestire il comando dell'Afrika Korps. Secondo lo storico Jens Petersen «l’establishment militare [germanico, NdA] diffidava di Rommel ed in parte lo odiava». Invece Churchill ne elogiò le qualità e le ribadì in “La seconda guerra mondiale”: «Un avversario assai audace e abile e, se posso dirlo al di sopra delle stragi della guerra, un grande generale». Meritava rispetto anche perché, «pur essendo un leale soldato tedesco, finì con l'odiare Hitler e tutta la sua opera e partecipò alla cospirazione del 1944 per salvare la Germania tentando di togliere di mezzo il fanatico tiranno. Per questo sacrificò la vita». A fine gennaio del 1941 Vittorio Emanuele III confidò a Puntoni: «Nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco; pochi o nessuno sono quelli che osano prendere decisioni nette e assumersi gravi responsabilità.» Gli ricordò che nel 1922 si era rassegnato a chiamare al governo “questa gente”, cioè Mussolini e i nazional-fascisti, perché «tutti gli altri, chi in un modo, chi in un altro» lo avevano abbandonato. Per 48 ore egli in persona aveva dovuto «dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata [di Roma, il pluridecorato Emanuele Pugliese, NdA] perché gli italiani non si ammazzassero fra loro». Ora, a suo giudizio, Mussolini non era più in grado «di raddrizzare la situazione» perché «ormai soffocato e avviluppato dai tentacoli del partito». Il re vedeva lontano. Meno di un mese dopo giunse a Roma la notizia della resa di Giarabub, annotata da Puntoni nel “Diario” e magistralmente evocata dal generale Antonio Zerrillo e del capitano Massimo Cappone nel volume “Dalle Langhe a Giarabub: un medico, un cappellano, soldati nel deserto africano durante la seconda guerra mondiale” (2024). Benché noti, richiamiamo sinteticamente i quattro mesi di lotta spasmodica. Dalla storia antica e gloriosa, Giarabub era dominio italiano dal 1926, con la rettifica del confine tra l'Egitto e la Cirenaica. Nella sua moschea riposava la salma del fondatore dei Senussi, una “setta” rigorista dell'islam con la quale si era confrontato Giovanni Giolitti, che nel 1920 ne aveva invitato a Roma gli esponenti per avviare la pacificazione della Cirenaica all'indomani della Grande Guerra. L'oasi era nota per la prestigiosa scuola coranica. Nel giugno 1940 era sede di una guarnigione fortificata. L'oasi di Giarabub, un bacino di 25 chilometri di lunghezza e 6 di larghezza, sparso di acquitrini e paludi, incassato da 6 a 15 metri sotto il livello del mare, non manca di laghetti, ma salati, né di fontanili, ma di acqua salmastra. A parte il vasto e lussureggiante palmeto, irrorato da un ruscello spontaneo e con l'acqua estratta da pozzi, aveva orti che producevano il necessario per le poche centinaia di abitanti della “zavia”, ma del tutto insufficienti per gli oltre duemila militari del presidio. Allestito al di fuori della città, questo contava circa 1350 nazionali e 750 soldati libici agli ordini del maggiore Salvatore Castagna, un valoroso ufficiale, decorato durante la Grande Guerra, ma dalla carriera rallentata perché celibe. La “piazza” disponeva di un discreto parco di cannoni di diversi modelli e di 56 mitragliatrici da campo. Aveva anche una considerevole scorta di munizioni. Però, privo di risorse autonome, per l'alimentazione il presidio doveva essere rifornito dai centri affacciati sulla costa, ai quali era collegato da una faticosa pista di 226 chilometri attraverso il deserto infuocato e abbacinante.
L'assedio di Giarabub...
Lontana dal fronte di guerra, con l'avanzata degli “imperiali” lungo la costa della Cirenaica Giarabub non fu investita dall'offensiva, ma rimase isolata. Benché irrilevante sotto il profilo strategico, il suo presidio costituiva una presenza insopportabile per i britannici, decisi a liberare il loro fianco sinistro da una insidia, anche se lontana. Per eliminarla, come bene documentano Zerrillo e Cappone, il comando britannico lanciò un reggimento di cavalleria motorizzata della 6^ divisione australiana, forte di carri leggeri e di artiglieria. Impossibile via terra per la ritirata degli italiani dalla Cirenaica, il rifornimento del presidio continuò per via aerea sino a quando il 9 gennaio 1941 gli inglesi misero fuori uso a cannonate la pista di atterraggio, estrema possibilità di soccorrere la guarnigione, asserragliata in una “piazza” dal perimetro di circa quattro chilometri, protetta da reticolato e, a tratti, da campi minati, da una corona di posti di vigilanza e di sbarramento, da fossi anticarro, trincee e postazioni per puntate all'esterno e rifugio di emergenza per le pattuglie inviate in esplorazione. Il maggiore Castagna aveva approntato tutto il necessario per la difesa, ma non poteva provvedere all'alimentazione. L'8 febbraio Graziani lo autorizzò a regolarsi di propria iniziativa. Appena promosso a tenente colonnello, Castagna prese tutte le responsabilità sulle sue spalle. Il 25 febbraio egli comunicò: «Ho una sola giornata di viveri. È doloroso dopo tanti sacrifici doversi arrendere per fame.» Gli inglesi invitarono alla resa: «Difensori di Giarabub: i vostri capi probabilmente non vi hanno detto che abbiamo occupato l'intera Cirenaica, catturando 115.000 prigionieri ed ingenti quantità di materiali. Le nostre truppe marciano ora su Tripoli. Ogni vostro sforzo è quindi inutile ed anche la via di ritirata è preclusa. Arrendetevi: noi vi tratteremo bene.» Il comandante sapeva che i “fatti” erano proprio quelli, ma ritenne che non bisognava cedere “neppure un metro”: non per fatua cocciutaggine e sprezzo del pericolo, ma per senso del dovere, condiviso da tutti gli uomini del presidio, compresa una sessantina di libici che decisero di rimanervi. Sapevano di far parte di una “grande guerra”. Le sorti del conflitto dipendevano dalla abnegazione di ogni singolo uomo. Il 16 e 17 marzo gli “imperiali” costrinsero gli assediati a retrocedere dai posti di sbarramento. Nessuno si illuse quando il 17 l'ultimo aviolancio di gallette e scatolette fu accompagnato da un messaggio di Erwin Rommel: «Saluto i valorosi difensori di Giarabub ed esprimo la mia ammirazione. Continuate a fare il vostro dovere. Fra pochissime settimane saremo da voi.» Il comandante dell'Afrika Korps prometteva di raggiungerli «per via terrestre». Il piano scattò ad aprile ed inizialmente lungo la costa ebbe successo straordinario. A quel punto, però, la guarnigione di Giarabub era stata travolta.
… e la sua caduta
Gli assediati sentirono arrivare la fine. Da quasi due mesi erano allo stremo. Eppure tennero i nervi saldi. Il 19 respinsero un reparto nemico, ma il 20 gli imperiali attaccarono a ventaglio tutti i capisaldi. Grazie alla netta superiorità dell'artiglieria, con gittata superiore all'italiana, scompaginarono le estreme difese. La battaglia culminò con scontri ravvicinati e “corpo a corpo”. Anche il comandante Castagna venne ferito mentre combatteva alla testa di un nucleo di libici. Sulla sera la lotta terminò. I sopravvissuti, catturati uno a uno, ebbero l'onore delle armi. Finirono prigionieri in Sud Africa, India, Australia. Il bilancio delle perdite indica il loro valore: contro i 400 italiani morti o feriti, tra i quali sette ufficiali, gli australiani lamentarono 17 morti e 77 feriti: una disparità notevole, perché, secondo la dottrina, solitamente gli assalitori subiscono perdite maggiori rispetto agli assaliti, se questi, però, sono dotati di armi migliori e si battono da posizioni dominanti. Fu l'opposto di quanto avvenne a Giarabub nei giorni decisivi. La fine non fu dettata dalla mancanza di valore o di fortuna ma dalla disparità dei mezzi. Quelli degli “imperiali” erano oggettivamente superiori. Dall'avvento delle artiglierie di lunga gittata, della motorizzazione, dei carri armati, dell'aviazione e della comunicazione radio anziché su filo o con messaggi scritti, obbligatoriamente consegnati a mano (come ancora in uso nel 1914-1918), la guerra divenne una lotta fra sistemi di produzione e organizzazione logistica: malgrado la retorica, quelli italiani erano inconfrontabili con quelli dell’impero britannico. La mancanza di un piano strategico generale e la dispersione delle armate su troppi fronti secondari fecero il resto. Come hanno osservato tutti gli storici obiettivi e lo ripete Oreste Bovio nella “Storia dell'Esercito italiano” (US-SME), la resistenza delle Forze Armate a tre anni di guerra (giugno 1940-settembre 1943) ha del miracoloso. La caduta di Giarabub entrò subito nella leggenda. A dare voce alla sua epopea furono Ferrante De Torres, Simeoni e Ruccione, già autori di “Camerata Richard” e, nel 1942, un film di vasto successo con la partecipazione di attori celebri e il giovane Alberto Sordi. Ma perché proprio Giarabub? Nella seconda Guerra Mondiale i militari italiani dettero prove di valore in misura inversamente proporzionale alle risorse belliche messe a loro disposizione. Il Comando Supremo e gli stati maggiori delle tre armi ne erano consapevoli. Specialmente quello dell'Esercito. Il 1° giugno 1940 il Capo di stato maggiore generale, Maresciallo Pietro Badoglio, scrisse a Mussolini che bisognava guadagnare ancora tutto il mese prima di intervenire «senza fare la figura dei corvi». L'offensiva era impossibile, perché l'esercito difettava gravemente di munizioni da fuoco e da bocca. Infatti alla dichiarazione di guerra la direttiva del Comando Supremo fu: “osservazione” e risposta al fuoco solo se assaliti (Mario Montanari, “L'Esercito italiano alla vigilia della 2^ Guerra mondiale”, Roma, Ufficio storico dello SME, 1982). I difensori di Giarabub avevano mostrato che “l'antico valor” negli “italici cor” non era “ancor morto”. Molte battaglie affrontate da militari italiani nella seconda guerra mondiale entrarono nella memoria per l'alto numero dei caduti e per i canti che ne nacquero. “Il ponte di Perati” (che riecheggia un nenia della Grande Guerra) ricorda il sacrificio degli alpini della “Julia” nella campagna di Grecia. Il suo abbrivo è lugubre: “Sul ponte di Perati bandiera nera…”. La ritirata di Russia non ha ispirato canzoni di pari intensità. Eppure tra le prove di valore assoluto delle armi italiane nella seconda guerra mondiale due vennero date proprio su quel fronte, così remoto dalla Madrepatria. Il 24 agosto 1942 a Isbuchenskij 700 cavalieri del “Savoia Cavalleria”, del “Lancieri di Novara” e delle “Voloire” sfondarono la sacca nella quale stavano per essere chiusi dall'Armata Rossa. Parimenti eroica fu l'impresa compiuta il 26 gennaio 1943 a Nikolaevka dagli Alpini, che l'hanno assunta a giorno memoriale. Le due “cariche” di Isbuchenskij e di Nikolaevka entrarono tra gli episodi gloriosi dell'esercito nella seconda guerra mondiale, ma rimasero una realtà diversa dai lunghi mesi della resistenza opposta al nemico da “quelli di Giarabub”. Perciò questa meritava la rievocazione proposta da Antonio Zerrillo e Massimo Cappone, sulla traccia dell'opera di Salvatore Castagna che nel 1967 pubblicò “La difesa di Giarabub”, imprescindibile per quanti sono tornati a scriverne, sino a “Giarabub. 1941. Un'oasi, una battaglia, una leggenda” di Pierluigi Romeo di Colloredo Mels (2021).
Il Generale Zerrillo, il capitano Cappone e il giudizio di Churchill
Già autore di importanti saggi e promotore delle rievocazioni del medico Ferruccio Della Valle ad Alba e di don Giovanni Blengio a Levice, per anni il generale Antonio Zerrillo, in collaborazione con il capitano Massimo Cappone, ha cercato ogni possibile traccia degli “uomini di Giarabub”. Per individuarli ha mobilitato gli uffici anagrafe dei comuni più remoti e, lo ripete egli stesso, le stazioni dei carabinieri, fonte indispensabile per ottenere informazioni altrimenti inarrivabili. Ecco, dunque, il suo metodo: ricerca dei documenti, rintraccio dei “testimoni” o dei loro eredi e visita, diretta o indiretta, dei luoghi teatro delle vicende narrate. I frutti del lungo lavoro sono consegnati al lettore con stile narrativo accattivante, fluido, arricchito da icasticità delle immagini e precisione dei termini tecnici quando si addentra nell'esame di reparti e di armi. L'indagine sugli “australiani” che presero parte all'assedio di Giarabub è un “caso di scuola”, meritevole di essere proposto quale modello di indagine archivistica e rispetto delle fonti. Uno straordinario apparato iconografico in bianco/nero e a colori e l'indice dei nomi arricchiscono il volume. Zerrillo non nasconde che, mentre compiva la ricerca, sentiva martellanti in memoria questo o quel verso della Sagra di Giarabub. Forse il più assillante è il finale: «sono morto per la mia terra, / ma la fine dell'Inghilterra incomincia da Giarabub.» Lo ebbe chiaro Winston Churchill. Il crollo dell'impero coloniale italiano, egli osservò, fece la differenza tra il prima e il dopo nella storia d'Italia dalla sua unità in poi. In particolare, se la guerra nell'Africa settentrionale avesse avuto altro corso e l'asse italo-germanico si fosse impadronito delle colonie africane di francesi e inglesi, le ripercussioni sarebbero state di dimensioni planetarie e di durata imprevedibile. Il mondo non sarebbe quale attualmente è. Lo percepirono gli autori della Sagra di Giarabub, come il regista e gli interpreti del film (1942), al pari dei primi giornalisti che intervistarono i reduci dall'assedio. Fu il caso di Gian Dal Po, pseudonimo di Gianni Brera, la cui facondia apprezzai mentre spartivamo pane e pesci appena scottati su pietra arroventata in una trattoria della sua terra. Tra i molti il generale Zerrillo ha avuto il merito di “scovare” quel suo primo “libretto”, scritto con lo stile del tempo.
La “lezione” di Giarabub,
Il tenente colonnello Castagna, i suoi ufficiali, i suoi uomini sentirono di dover servire fino in fondo la Patria: «…non si cede nemmeno un metro.» Perché la Patria si difende e si salva con tanti gesti quotidiani che, sommati, si risolvono nella salvezza o nella catastrofe. La sua difesa è “sacro dovere” del cittadino, come detta l'art. 52 della Costituzione. Arroccati senza speranza gli “uomini di Giarabub” si sentirono e furono parte della Grande Storia. Il loro fu un caso unico, sotto il profilo militare e psicologico. Merita memoria e meditazione.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Il volume “Dalle Langhe a Giarabub” del capitano Massimo Cappone e del generale Antonio Zerrillo (in fotografia) è stato presentato giovedì 12 dicembre al Teatro “Moretta” di Alba, attiguo al Santuario dei Padri Giuseppini, presente un pubblico folto e partecipe. L'opera è patrocinata dai Comuni di Alba, ove nacque l'ufficiale medico Ferruccio della Valle, Levice, patria del cappellano don Giovanni Blengio, Caltagirone, che dette i natali al comandante Salvatore Castagna, il “Leone di Giarabub” poi asceso a generale, di Morcone e di San Zenone a Po. La realizzazione del sontuoso volume, promosso dall' Associazione Nazionale della Sanità Militare italiana e introdotto dal suo segretario, generale Vincenzo Barretta, è stata approvata e finanziata dal Ministero della Difesa. Aldo A Mola (FOTO DI ANTONIO ZERRILLO)