LA SCHIAVITÙ NELLE COLONIE. IL CASO DELL'ITALIA

Interessante excursus storico circa il percorso che portò all'abolizione della schiavitù da parte dell'Italia coloniale. A cura di Alberto Alpozzi.


L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) è un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa dal 1919, anno della sua fondazione, di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani internazionalmente riconosciuti.


Padre Leandro, Trinitario, Prefetto Aposstolico del Benadir, fra gli schiavi da lui riscattati a Brava. Dal Congresso Antischiavista italiano, Roma 1907 
L’Italia era tra le nove nazioni che fondarono l’OIL. Queste nazioni riconobbero che “le condizioni di lavoro esistenti erano causa d’ingiustizia, disagi e privazioni tali da mettere in pericolo la pace e l’armonia nel mondo”. Convinzione principale era che l’economia globalizzata richiedesse regole chiare e condivise tra le nazioni tali poter assicurare che lo sviluppo economico andasse di pari passo con il progresso e la giustizia sociale.  
L’avvento del fascismo in Italia non mutò i rapporti con l’OIL, mentre “quelli con l’Unione Sovietica, al contrario, furono sempre apertamente ostili. Fin dalla sua fondazione, molti dei sostenitori dell’OIL considerarono il suo impegno in favore della cooperazione di classe come la migliore soluzione alla minaccia della rivoluzione bolscevica”1.  
Tutti gli Stati membri, affascinati in un certo qual modo dall’organizzazione corporativista del mondo del lavoro fascista, tennero sempre in considerazione il governo Mussolini. “Lungi dall’essere emarginata, l’Italia godeva di ampio riconoscimento, tanto che, nel 1933, un delegato del governo italiano fu eletto Presidente della Conferenza”2

L’Italia fascista aderì pienamente a tutti i progetti normativi dell’OIL e “fu tra i paesi a ratificare il maggior numero di Convenzioni (21), seconda solo al Belgio”. Mentre l’Unione Sovietica, divenuta membro dell’OIL solo in un secondo momento, non cooperò mai con l’organizzazione. “In effetti, negli anni ’30, l’Unione Sovietica partecipò solo raramente alle sessioni della Conferenza e del Consiglio di amministrazione e non ratificò alcuna Convenzione dell’OIL, né diede seguito ad alcuna Raccomandazione”3.


1893, Benadir – Galla Abdallah, primo schiavo liberato in Somalia


Mentre l’Italia, con la Compagnia Filonardi, aveva già abolito la schiavitù in Somalia sin dal 1893 quando la regione si chiamava ancora Benadir, la Società delle Nazioni avviò per la prima volta nel 1924, i preparativi per una Convenzione contro la schiavitù che verrà approvata poi nel 1926. 

L’Italia fascista, già nel 1924 recepì tali norme. Ne è prova una lettera scritta il 12 Marzo 1924 dal capo dei Galgial Bersane, Scek Agi Assan Bersane indirizzata al Residente italiano di Mahaddei: “Non veniamo da lei a nessun costo poiché lei ha rotto il patto che c’era tra noi. Tutti i nostri schiavi sono fuggiti e passati dalla sua parte e lei ha dato l’ordine di liberarli. Quest’azione non ci rende felici. Secondo la nostra legge, noi possiamo mettere i nostri schiavi in prigione e sottoporli a lavoro forzato…”4. La lettera è confermata da Mohamed Issa Trunji5 che così la commenta: “lo stile e la sostanza della lettera sono in totale contrasto con il carattere della lotta nazionalista e anti-colonialista attribuita a questo religioso negli anni ’70 dal regime militare somalo. Lo Sheikh sembrava più preoccupato per la perdita dei suoi schiavi che per altre considerazioni. Rivendicava il diritto di sfruttare e disumanizzare altri esseri umani nati liberi come lui in nome della religione”6

Fu quindi affidato all’OIL il compito di redigere un’analisi sulle possibili misure da adottare affinché si prevenisse che il lavoro forzato o obbligatorio portasse a condizioni analoghe a quelle della schiavitù. 

L’Italia, e si badi bene che si tratta di una nazione senza tradizioni schiaviste, fece subito sue le direttive in materia di sfruttamento del lavoro nelle colonie. Infatti è del 14 Giugno 1926 una circolare del de Vecchi, governatore della Somalia, indirizzata a Residente di Merca il 14 Giugno 1926: “Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, […] come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, […] avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto.

Genale, Somalia. La paga dei lavoratori delle concessioni agricole governative. Foto estratta dal libro “I prigionieri del sole” di Dante Saccani, Eclettica Edizioni


Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; […] Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati”7

Mentre nelle altre colonie “lo svolgimento di tale mandato fu tuttavia contrastato dalle riluttanze delle potenze coloniali a esporre le loro pratiche ad un approfondito esame internazionale”8. Venne costituita una Commissione che “riuniva principalmente amministratori coloniali e rappresentanti degli interessi economici coloniali. Il risultato di questo lavoro fu che, in un modo o in un altro, il lavoro forzato divenne oggetto di quattro Convenzioni e di una serie di Raccomandazioni adottate dall’OIL tra il 1930 e il 1939. Per l’OIL, il lavoro coloniale era una forma particolare di lavoro – indicato come “lavoro indigeno” – a cui sarebbe stato necessario applicare specifiche norme. Per questo motivo, l’Organizzazione sviluppò uno specifico “codice del lavoro indigeno”, diverso dal Codice internazionale del lavoro che comprendeva tutte le convenzioni dell’OIL”9.


Villaggio Duca degli Abruzzi. Il Duca Luigi di Savoia, paga personalmente i lavoratori indigeni del villaggio


Invece, sempre nella Somalia italiana, presso il Villaggio Duca degli Abruzzi, sede della S.A.I.S., la questione della manodopera venne risolta con il sistema della compartecipazione: ognuna delle famiglie riceveva in consegna un podere, bonificato e irrigato dalla Società, per coltivarlo a metà con colture alimentari (granoturco, dura, sesamo e fagioli) destinate al coltivatore, e metà con colture industriali (cotone e sesamo) che spettavano alla Società. Per le colture che invece non si prestavano all’avvicendamento regolare (canna da zucchero e ricino) vi era manodopera pagata a giornata. 

Il Duca degli Abruzzi, artefice di questa opera ciclopica di bonifica, attraverso dighe e canali, sarà ricordato soprattutto, per aver studiato e applicato questo nuovo contratto di lavoro basato sulla compartecipazione, invenzione assoluta per l’Africa. 

Questi contratti, detti di colonia, rispettavano il principio della libertà del lavoro cui l’Italia aveva aderito per il territorio metropolitano e per tutte le proprie colonie ratificando, nel Giugno 1934 la convenzione internazionale del 1930 (n.29)10 per l’abolizione del lavoro forzato. Questo tipo di contratto fu ulteriormente perfezionato fino a renderlo un mezzo veramente efficace per attrarre e stabilizzare. Nel 1935 nella conferenza internazionale sul lavoro di Parigi esso fu definito “strumento apprezzabile di progresso civile sociale ed economico a beneficio dei lavoratori interessati”11. Tale tipo di contratto fu esteso a tutte le aziende agrarie in Somalia sin dal 1929 con D.G. n.7475. Clicca qui per vedere il video della paga dei lavoratori al Villaggio Duca degli Abruzzi.


Il Giornale d’Italia 28 novembre 1934


Il Giornale d’Italia, il 28 novembre 1934 a pag, 2, riportava: “Per la seconda volta il lavoro indigeno delle colonie e dei protettorati viene portato dinanzi alla Conferenza internazionale del lavoro di Ginevra. Discussa nel 1930 nei riguardi del lavoro coatto e oggetto di un impegno internazionale che l’Italia ha prontamente ratificato e applicato, la tutela dei lavoratori di colore costituisce uno degli argomenti all’ordine del giorno della conferenza 1935”12.
E sono – ricordiamoli – del 14 Ottobre 1935 ad Adua, in Etiopia, il bando di soppressione della schiavitù nella regione del Tigrè promulgato da Emilio De Bono, redatto in italiano e amarico e del 12 Aprile 1936 a Macallè, quello emesso da Pietro Badoglio per le regioni del Tigrè, dell’Amhara e del Goggiam.


Successivamente, Pietro Badoglio, che aveva sostituito De Bono come Comandante nella guerra d’Etiopia, nel giorno di Pasqua del 1936 in un discorso rivolto alle popolazioni del Tigrè, dell’Amhara e del Goggiam, affermò che “la schiavitù è avanzo di antica barbarie e dove è la bandiera italiana non vi può essere la schiavitù”13.


Adua,14 Ottobre 1935. Bando di soppressione della schiavitù nella regione del Tigrè


In seno all’OIL le discussioni che portarono all’elaborazione del codice del lavoro indigeno partivano “dall’idea, ampiamente diffusa all’epoca, che le politiche coloniali dovessero educare le popolazioni indigene” e ci si domandava “se l’abolizione del lavoro forzato e dei fenomeni a esso associati avrebbe aiutato o ostacolato lo svolgimento di tale compito educativo. Albert Thomas, che sosteneva il ricorso a misure di ampia portata per l’abolizione del lavoro forzato, credeva che il compito dell’OIL fosse quello di «rompere le catene che legavano ancora gli indigeni per prepararli alla successiva tappa della loro educazione» […] le delegazioni francese, belga, olandese, portoghese e sudafricana furono piuttosto critiche nei confronti della distinzione tra lavoro forzato per scopi pubblici e lavoro forzato per interessi privati, considerando ambedue come accettabili, almeno per un periodo transitorio”14

Tuttavia, le nuove disposizioni lasciarono diverse scappatoie alle potenze coloniali, come il servizio militare obbligatorio o il lavoro forzato come condanna giudiziaria. La Convenzione escludeva, inoltre, qualsiasi lavoro o servizio facente parte dei “normali obblighi civili dei cittadini” e dei “piccoli lavori di interesse collettivo”, furono cioè offerte ulteriori opportunità per fare eccezioni rispetto ad alcune pratiche coercitive profondamente radicate nell’Africa coloniale. 

“Nonostante la loro indiscutibile valenza umanitaria, le Convenzioni dell’OIL sul lavoro indigeno, che trattavano più o meno esplicitamente del lavoro forzato, mostrarono il fatto che l’Africa e le altre aree del mondo coloniale continuavano a essere delle aree in cui si applicavano regole diverse”15, ma come abbiamo visto questo non valeva per ne per l’Italia liberale ne per l’Italia fascista che applicarono sempre tutte le norme e le leggi in materia di lavoro forzato. L’Africa colonizzata dovette attendere la fine della Seconda guerra mondiale e il crollo degli imperi coloniali per vedere un cambiamento nelle politiche sociali e del lavoro.


Alberto ALPOZZI


NOTE
1. Daniel Mau, L’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Cent’anni di politica sociale a livello globale
2. Ibidem
3. Ibidem
4. Il testo integrale della lettera si trova nel libro Dubat – Gli Arditi somali all’alba dell’Impero fascista di Alberto Alpozzi, Eclettica Edizioni, 2019
5. Mohamed Issa Trunji, laurea in Giurisprudenza, dal 1992 al 2006 ha lavorato per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) come “Senior Protection Officer” in Iran, Iraq, Sudan, Etiopia e Zambia
6. Trunji M.I., Somalia: The Untold History 1941-1969, Loohpress, Leicester, UK, 2015
7. De Vecchi di Val Cismon C. M., Orizzonti d’Impero, Mondadori, Milano, 1935
8. Daniel Mau, L’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Cent’anni di politica sociale a livello globale
9. Ibidem
10. La Convenzione n. 29 del 1930 sul lavoro forzato prevedeva l’abolizione di tale lavoro “in tutte le sue forme” e consentiva periodi di transizione solo nei casi in cui il lavoro forzato o obbligatorio venisse svolto per “scopi pubblici”
11. Il problema del lavoro nelle aziende agricole in Somalia, Rivista di agricoltura subtropicale e tro­picale, n. 10-12, Ottobre-Novembre 1954
12. Si ringrazia per questo riferimento Enrico Petrucci
13. Discorso citato il giorno 6 maggio 1936 alla Camera dei Deputati dall’Onorevole Egilberto Martire, in occasione della discussione del disegno di legge sullo stato di previsione delle spese per le Colonie per l’esercizio finanziario 1° luglio 1936-30 giugno 1937
14. Daniel Mau, L’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Cent’anni di politica sociale a livello globale
15. Ibidem


Da https://italiacoloniale.com/2021/03/01/la-schiavitu-nelle-colonie-il-caso-dellitalia/