LA VIA ITALIANA VERSO L'IMPERO COLONIALE

L'Africa? Un buco nero

    Che cosa pensava dell'Africa e dei suoi popoli la generalità degli abitanti dell'Italia a metà Ottocento? Per i più il Continente Nero e la sua popolazione erano terre e genti del tutto sconosciute. L'“Africa” era tutt'uno con i “negri”: un mondo lontano, che non meritava speciale considerazione. Nelle Lezioni di filosofia della storia Giorgio Guglielmo Federico Hegel era stato netto: nell’«Africa interiore», di cui egli non aveva alcuna cognizione scientifica, «la coscienza» non era ancora giunta «alla contemplazione di qualcosa di saldamente oggettivo». Secondo lui, per i negri era «cosa lecita e ovunque diffusa l'uso di mangiare carne umana». «Il divorare uomini quadra, in linea di principio, con l'essenza dell’africanità», tutt'uno con dispotismo, schiavismo, fanatismo, crudeltà e sfrenatezza. In conclusione, «chi vuol conoscere manifestazioni spaventose della natura umana, può trovarle in Africa», un continente «ancora alle soglie della storia del mondo».    Forti di quei pregiudizi, nelle conquiste coloniali, a cominciare dall'Algeria, gli europei si sentirono quindi autorizzati a impiegare metodi ritenuti ripugnanti nei loro conflitti diretti, spesso altrettanto crudeli. In Italia riviste di cultura si fecero tramite di informazioni superficiali su Africa e africani anche dopo l'apertura del Canale di Suez. Negli anni immediatamente seguenti l'annessione del Mezzogiorno giornalisti e memorialisti ebbero altre priorità: narrare tempi e modi della repressione del grande brigantaggio, punteggiata da episodi di ferocia barbarica. 

Nuova luce da un libro

    Un nuovo libro di Alessandro Mella, “Leoni senza frontiere. Eroi e combattenti italiani al tempo di Crispi e Giolitti. Dalle sabbie infuocate d'Africa alla lontana Cina, 1885-1914” (Ed. Marvia, 2024), getta nuova luce sulla politica coloniale dell'Italia dopo l'acquisizione della baia di Assab (1882) e lo sbarco a Massaua della spedizione comandata dal generale Tancredi Saletta (1885).    Il volume comprende tre sezioni. Il primo è un florilegio di biografie, accompagnate da sintetiche considerazioni storiche e storiografiche, narrate con perfetto inquadramento del biografato nel suo contesto territoriale, familiare e sociale, preliminare al suo percorso specifico, e concluse con considerazioni morali e, quando opportuno, con le motivazioni delle decorazioni ricevute per la valorosa condotta. Sono “Bozzetti” che richiamano i repertori biografici ottocenteschi di Mariano d'Ayala e di Atto Vannucci e, più addietro nel tempo, alle “vite dei santi”. I “Leoni” passati in rassegna da Mella sono infatti “devoti” di una doppia fede: quella originaria, verso la formazione cristiana, più precisazione cattolica, pressoché unica nell'Italia di metà-fine Ottocento; e quella alla Patria, insegnata nella scuola elementare di Gabrio Casati, Michele Coppino, Francesco De Sanctis, Ferdinando Martini..., e con altrettanto fervore nelle caserme, affollate con la coscrizione e la leva di massa bene descritta da Oreste Bovio nella "Storia dell'Esercito Italiano”In quella Scuola avvenne il prodigio alchemico della fusione tra la prima e la seconda anima della Nuova Italia, sicché la doppia fede non generò una doppia lealtà, né, meno ancora, “doppiezza”.    In una seconda parte, divisa in due sezioni, l'opera condensa interessanti profili di italiani combattenti Oltremare e, arricchita da apparato iconografico, presenta una rassegna delle medaglie commemorative coniate a ricordo della partecipazione alle campagne d'Africa, Tripolitania e Cirenaica, Cina e altre ancora. Vittorio Emanuele III, va ricordato, ampliò le decorazioni con l'istituzione dell'Ordine al merito coloniale, destinato a onorare non solo i militari ma anche i civili che si spesero e si distinsero nell'affermazione della “missione” dell'Italia per la sua affermazione negli spazi extraeuropei, a suo tempo vaticinata da Giuseppe Mazzini.    Infine, l'Opera è completata da apparato documentario e da ricca bibliografia.    Con la misura sommessa che gli è abituale, Mella conduce il lettore alla riflessione storica attraverso i profili di figure apparentemente minori e minime: medici, sacerdoti, artigiani, “piccoli borghesi”, figli di militari o essi stessi già da tempo in servizio, che, per obbligo o per scelta, presero parte alle spedizioni italiane dal Mar Rosso alla Somalia e alla Cina, ove all'inizio del Novecento il governo di Roma riuscì a ottenere la concessione di Tien-Tsin. Lì fu rapidamente edificata una casermetta per otto carabinieri: segnacolo della Patria lontana.    Indirettamente Mella propone al lettore molti temi di vasta portata. Ne riassumiamo, riprendendo spunti da un vecchio libro del 1980 dalla sorte bizzarra, tutto composto in bozze ma rimasto per metà inedito perché così si vuol colà ove si puote: gli editori.   

Alla ricerca dell'“altra sponda”...

La “politica coloniale” era estranea agli Stati preunitari, “Piemonte” compreso, accorpati nel regno d'Italia fra l'aprile 1859 e la primavera 1860. Del tutto fuori orizzonte per quelli direttamente o indirettamente dominati dagli Asburgo d'Austria, lo fu anche per lo Stato pontificio, che invero, e da secoli, aveva il suo “modus” di guardare al di là dei confini di un'Europa che, con la scristianizzazione e la secolarizzazione dilagante, per la Chiesa di Roma si stava facendo sempre più stretta. Continuò a operare con l’evangelizzazione degli “infedeli” (all'epoca convertire era ritenuto un dovere) e i suoi “strumenti”: i missionari che nell'Ottocento assunsero nuove forme organizzative (basti pensare ai padri della Consolata), proprio in funzione dei tempi nuovi. Pio IX, che aveva cognizione personale dell'America meridionale, e Leone XIII, al quale si debbono molte importanti encicliche esplicitamente indirizzate all'“Oriente”, precorsero l'azione coloniale dei governi d'Europa.    Dal 1861 il regno unitario non tardò ad ampliare gli orizzonti. Vi concorsero interessi economici e organizzazioni scientifiche, convergenti nella ricerca di approdi specificamente italiani.    L'espansione dell'Italia Oltremare non risultò felicissima. Negli “Appunti di viaggio sull'Affrica italiana” Sidney Sonnino, già affermato per l'inchiesta condotta in Sicilia con Leopoldo Franchetti e futuro presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, scrisse che l'Eritrea poteva/doveva essere la soluzione anche della questione meridionale, senza illusorie ipotesi di fraternizzazione con i nativi. Bisognava anzi «tenere sotto ferreo controllo le truppe indigene ed evitare di affidare alte funzioni di comando agli indigeni». A suo avviso sarebbero occorse «parecchie generazioni di dominio nostro prima che si possa seriamente e assolutamente appoggiarci sull’indigeno». Del pari occorreva precorrere la colonizzazione con rilevazioni climatologiche, geologiche e idrografiche per individuare le aree valorizzabili a costi compatibili con le risorse di un Paese che al suo interno mancava di infrastrutture e di servizi pubblici essenziali e non poteva allestirne Oltremare se non sottraendo risorse al progresso interno. Finire per doversi battere contro insorgenze di indigeni senza scongiurare le tensioni all'interno del regno (i fasci siciliani del 1892-1894 ne furono segnale e banco di prova per il governo Crispi, negli stessi anni impegnato nella prima “guerra d'Africa”) avrebbe sommato due errori dal costo imprevedibile e probabilmente insopportabile.   

...ma senza un vero progetto...

    I succosi profili biografici proposti da Mella confermano quanto già era chiaro agli osservatori più acuti e disincantati. Il giovane regno d'Italia imboccò la via della colonizzazione nel Mar Rosso senza un progetto politico maturo e, per di più, senza la valutazione dell'oneroso impegno militare sul quale fondarlo, qualunque esso fosse. L'espansione risultò frutto di improvvisazione, di pulsioni contraddittorie, altalenanti tra entusiasmi e frustrazioni. Mentre alcuni proponevano e praticavano cinicamente la sottrazione delle terre più fertili agli indigeni, spinti verso lande inospitali, e così condannati alla fame e all'inimicizia verso i “bianchi”, altri vagheggiavano un'immaginaria armonia tra colonizzatori e colonizzati. Non mancarono certo esperimenti di coesistenza tra stirpi e religioni diverse. Ne fu modello notevole il villaggio allestito dal maggiore Pietro Toselli in prossimità di fortificazioni di fortuna nei pressi di Sagaineti, sulla via verso Asmara, in una plaga che sperava sorridesse in futuro per coltura di cereali e pascoli. Ne scrisse egli stesso: «Si ebbe in breve un piccolo centro di vita: e questa sin da principio prese a svolgersi con opportune e rispettate norme di ordine e di pulizia, alimentando subito un certo benessere, dapprima ignoto a questa gente, tantoché arabi ed abissini, ossia musulmani e cristiani copti, nemici secolari, presentano oggi colà un esempio di tolleranza reciproca, convivendo in perfetta armonia, tranquilli e soddisfatti e disposti a migliorarsi gradatamente.» Il villaggio, allestito «con capanne allineate e disposte a vie regolari, ben distanti fra loro perché godano di aria e di luce», fu arricchito con una chiesetta e con una moschea ove i militari e le famiglie al loro seguito potessero praticare i culti atavici nel reciproco rispetto. Toselli chiese e ottenne che il villaggio avesse nome “Nuova Peveragno” a evocazione del suo cuneese borgo nativo. Fu un’illusione destinata a durare una sola stagione e, sappiamo, anni luce lontana dai metodi praticati decenni dopo da Pietro Badoglio e da Rodolfo Graziani tanto in Cirenaica quanto in Etiopia. Toselli fece parte dei militari animati dalle migliori intenzioni e pronti a sacrificare la vita per l'Italia, come il suo comprovinciale Giuseppe Galliano, nativo di Vicoforte (poi dedicatario di una commossa ode di Giovanni Pascoli), che resistette nell'indifendibile fortino di Macallé e quando ne poté uscire fece involontariamente da battipista al nemico. 

...e con penuria di mezzi e di “idee”

Di altro avviso fu Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano: il miglior ministro degli Esteri dell'Italia unita, a giudizio di Vittorio Emanuele III, che se ne intendeva. Iniziato massone nel 1893, viaggiatore e vivido osservatore, in “I fini della nostra politica coloniale” egli scrisse a ciglio asciutto: «L’Italia è una nazione democratica, forse fin troppo […] la nostra politica coloniale deve essere democratica o non deve essere; essa deve procurare terra e lavoro ai nostri emigranti poveri, conservando loro una patria.» I democratici italiani dovevano pertanto schierarsi a sostegno del colonialismo invece di ergersi a «paladini delle razze inferiori, che i nostri emigranti dovrebbero in parte sostituire, in parte associare all'opera loro, mercé il legittimo esercizio dell'egemonia di razza, come ora avviene, in un regime equo, pratico e fermo, ignoto prima d'ora agli indigeni e da questi apprezzato ed amato». La politica coloniale non doveva servire a «pochi capitalisti» ingordi, né agli africani stessi, ma all’«interesse immediato dei proletari italiani, il quale si tradurrà poscia in interesse generale di tutta la nazione». La “Magna Italia”, inevitabilmente esosa di sacrifici e dolori, si incastonava nella «storia dell'umanità, anzi di tutta l'evoluzione della vita, di cui la storia dell'umanità non è che una fase». La colonia Eritrea era il «vessillo del laborioso e prolifico popolo italiano, campo propizio all'attuazione di un ideale altissimo». Lo pensava anche l'unico “socialista scientifico” italiano, Antonio Labriola, che il lungimirante Luigi Pianciani aveva proposto venisse accolto tra le colonne della loggia “Rienzi” di Roma.    Quella consapevolezza era condivisa anche da personaggi minori e minimi come quelli evocati da Mella. Ma il governo nell'età da Depretis a Giolitti rimase lontano dal promuovere e attuare una politica coloniale all'altezza delle ambizioni dichiarate e dalla volontà/capacità di disporre i mezzi indispensabili per la sua attuazione. Lo scrisse con amarezza Ferdinando Martini in “L'Affrica italiana. Impressioni e ricordi”, al suo rientro in Italia dopo gli anni vissuti da Governatore civile dell'Eritrea. Nella colonia, egli fece osservare, non mancava solo un vero progetto politico, economico, sociale ma era assente l'istruzione per i nativi. A Massaua vi erano due sole scuole, una di monache francesi, finanziata dall'Italia, che tutto insegnavano tranne che l'italiano; un'altra era diretta da Bonaventura Piscopo, frate francescano e cappellano militare (una figura che piacerebbe certo a Mella), intitolata all'eroico e sfortunato De Cristoforis. In questa, «opera e cura d'un privato», si insegnavano «l’italiano, l'arabo, l'amarico, l'aritmetica, la geografia, la storia d'Italia, la fisica elementare, la telegrafia, il disegno, la musica, la ginnastica, l'arte del pompiere e del marinaio e, per non passare il tempo in ozio, vi si esercitavano gli alunni in parecchi altri mestieri. Manca, a dir vero, la storia della Persia. Non furono forse i persiani i primi abitatori di Massaua? La filosofia del diritto penso l'abbiano tralasciata di proposito e con fino accorgimento, affinché i Gabru e gl'Idris, filosofeggiando, non ci dimandino con quale diritto siamo andati a prendere la roba loro…». Quei ragazzi, assai svegli, dovevano leggere «“Il buon parroco”, “La raccolta delle olive” (anche se non avevano mai visto né preti né olive) e un manualetto di geografia con notizie su Albenga, Montepulciano, Casalmonferrato. […] Ridicolaggini che non metterebbe conto avvertire, se non valessero a provare che noi ci siamo imbarcati nel pelago fortunoso delle colonie, senza preparazione alcuna né morale né materiale». Ministro della Pubblica istruzione nel primo governo presieduto da Giovanni Giolitti (1892-1893) e trent'anni dopo ministro delle colonie in quello di Antonio Salandra, Martini si era battuto alla Camera contro l'inizio della “politica coloniale” su basi più retoriche che “materiali”, ma riteneva che, fatta la scelta e dopo il sangue versato per conferirle consistenza, occorreva onorare i sacrifici compiuti elaborando un progetto attendibile. Altrettanto osservò Stanley dopo la sconfitta subita dall'Italia ad Abba Garima (Adua) il 1° marzo 1896. Il celeberrimo esploratore elencò gli errori compiuti dall'Italia. All'origine di quella «dolorosa sventura» seppur «non decisiva», vi era lo sconsiderato “modus operandi” della somma di ministri e militari: «Appena conquistato un luogo, desideravate un altro posto avanzato e volgeste i vostri sforzi ad occuparlo. Non agivate più come colonizzatori, ma come conquistatori puri e semplici. I vostri mezzi e i vostri soldati non erano più sufficienti per le vostre speranze.»    Nei dodici anni dallo sbarco a Massaua, gli italiani non avevano elaborato un piano credibile e attuabile. La prosecuzione con gli stessi metodi «sarebbe una impresa di anni ed esaurirebbe non le risorse dell'Italia, ma se fosse possibile, quelle della Triplice Alleanza». Poiché gli venne anche domandato se il costò dell'impresa sarebbe stato compensato, sulla base del secolare modello britannico Stanley concluse: «Una brutale conquista militare di una nazione è l'impresa meno remunerativa che io possa immaginare». Perseverare sulla strada dell'occupazione armata comportava spese insopportabili per un Paese gravato da tassazione opprimente e «in triste stato» al suo interno. «Non potete avere l'olio e l’oliva», egli osservò con malcelata ironia. 

Giolitti “l'Africano” e il generale Giovanni Ameglio

Anche Giolitti “l'Africano” nel settembre-ottobre 1911 sottovalutò clamorosamente il costo della dichiarazione di sovranità dell'Italia sui “vilayet” di Tripolitania e Cirenaica. La guerra divorò risorse nettamente superiori al previsto. Non era stato messo nel conto che, posti dinnanzi alla scelta fra turchi e “occidentali”, gli arabi avrebbero optato per la solidarietà islamica. La stipula della pace con Istanbul nel 1912 appagò il “concerto delle potenze” (destinato a crollare due anni dopo) ma non pacificò affatto la Libia, ove le forze militari italiane vennero poi ridotte a un esile velo in poche città della costa, in linea con il criterio giustamente imposto (e disatteso) dal Comandante supremo Luigi Cadorna: l'Italia avrebbe ri-conquistato la Libia sul Carso. Ma mentre egli si batteva per logorare e piegare l'impero austro-ungarico, a conferma del proprio disordine strategico il governo inventò infatti una sua guerra nell'Adriatico orientale e ne sottrasse il comando a Cadorna. Era la mossa peggiore. Allarmò gli “alleati”, motivatamente sempre meno amici.    Alla luce del percorso politico sommariamente evocato a cornice dell'opera di Mella se ne apprezza ancor più il titolo: “Leoni senza confini”, uomini eroici, come insiste l'Autore, sbalestrati in spedizioni militari “di conquista”, dalla sorte spesso tragica, quale fu la prima guerra d'Africa, scandita da nomi evocativi di sconfitte: Dogali, Amba Alagi, Adua... Sulle ripercussioni politiche di quest'ultima battaglia, drammatica per gli italiani, ha scritto pagine esemplari il generale Oreste Bovio, decano degli storici militari, in “Pagine di storia” (d. Roberto Chiaramonte, 2023).L'eco di quelle vicende rimase incombente anche sulla impresa di Libia del 1911-1912. Non appena si cominciarono a registrare episodi negativi (come a Sciara-Sciat) prevalsero la prudenza e il risparmio di uomini e risorse, mentre il nazionalismo retorico imperversava nei quotidiani, nelle piazze e in Parlamento. Ignari della complessità internazionale del conflitto italo-turco, ultima prova di vera indipendenza dell'Italia in politica estera, i retori chiedevano vittorie immediate e clamorose e l'umiliazione degli indigeni.    Profondamente diverso si manifestò l'abito culturale di Giovanni Ameglio, il liberatore di Rodi e del Dodecanneso. Militare e alto dignitario massonico, bene informato sui costumi dei libici e rispettoso nei  loro confronti, con la liberazione di Rodi e del Dodecanneso dal secolare giogo turco egli aprì una pagina nuova nella storia dell'espansione italiana,. Agì in perfetta sintonia con Vittorio Emanuele III, re democratico e libero pensatore.    Il nuovo libro di Alessandro Mella è dunque di stimolo a una riflessione generale sulla discontinua storia della Terza Italia e aiuta a comprendere perché nel primo quarto del Novecento, senza percepirne lo sbocco, essa abbia imboccato la via verso un regime al cui confronto Depretis, Crispi, Pelloux, Saracco, Zanardelli, Giolitti, Alessandro Fortis e Luigi Luzzatti figurano, quali furono, uomini del Risorgimento illuminato. Dopo il 1922 in Libia e in Etiopia il regime fascista compì grandi passi, “sed extra viam”. 

Aldo A. Mola

 DIDASCALIA: Alessandro Mella, “Leoni senza confini (1885-1914)”, Marvia Edizioni, settembre 2024. Quarantenne, già autore di numerosi e importanti volumi, tra i quali “Viva l’Imperatore! Viva l'Italia. Le radici del Risorgimento: il sentimento italiano nel ventennio napoleonico” (BastogiLibri), Mella è apprezzato collaboratore dell'“Annuario della Nobiltà Italiana” diretto da Andrea Borella e presidente onorario dell'Associazione di sudi storici Giovanni Giolitti (con sede a Torre San Giorgio, Cn).