Un massone a Trieste nel difficile dopoguerra
È passato sotto silenzio l'ottantesimo anniversario della circolare n. 1 il 10 luglio 1944 diramata dal Comitato di Gran Maestranza del Grande Oriente d'Italia (GOI) con le insegne del Rito scozzese antico e accettato. Eppure non è una data qualunque. Annunciava il ritorno dell'Italia nel circuito della Massoneria Universale, presente in Roma con ufficiali anglo-americani di grado eminente, orgogliosi della “catena di unione” che li univa al re di Gran Bretagna e al presidente degli Stati Uniti d'America, Franklin D. Roosevelt. A essi si rivolsero i massoni italiani per ottenere il rientro a Palazzo Giustiniani, loro sede storica sino al forzato autoscioglimento del novembre 1925, quando dovettero allontanarsene sotto pressione del regime di partito unico capitanato dal massonofobo Benito Mussolini. Quattro anni dopo, il 20 marzo 1949, fu iniziato in loggia il trentacinquenne triestino Manlio Cecovini. All'epoca il confine orientale dell'Italia era ancora disputato. Tra quanti si batterono per il pieno ritorno di Trieste all'Italia vi fu proprio lui, “Cehovin” sino all'italianizzazione dei cognomi nel 1927. Anche per lui Massoneria significava Occidente: le libertà negate, combattute e ferocemente represse al di là della “cortina di ferro”. Nato a Trieste il 25 gennaio 1914, “suddito” di Francesco Giuseppe d'Asburgo sino alla vittoria del 4 novembre 1918, dal padre, ingegnere, Manlio venne indirizzato agli studi giuridici. Si laureò a Bologna nel 1936. Sportivo (armi bianche, nuoto, atletica...), di vocazione scrittore, nel 1940 fu con la “Julia” in Grecia. Ne scrisse in “Ponte Perati” (Vallecchi,1966; Longanesi, 1973). Sconosciuto ai più, nel 1978 Cecovini fu intervistato in televisione da Enzo Biagi che, forse riecheggiando i turgori antimassonici di quando elogiava il poi crollato regime, tra il saccente e l'impertinente gli domandò a bruciapelo quanti “braccianti” vi fossero nel Grande Oriente d'Italia. Come rispondere a un quesito così futile? Bisognava trasmettere al pubblico un’informazione corretta, non tanto e non solo sul GOI ma sulla massoneria universale nella quale esso si riconosceva, e cercare di far comprendere origini e caratteri dell'iniziazione e le difficoltà incontrate dall'Ordine liberomuratòrio in Italia anche dopo il dominio del Partito nazionale fascista (PNF), che aveva fatto dell'antimassonismo il suo sempre scalpitante cavallo di battaglia. Come suocostume, Cecovini rispose con pacatezza: una virtù che nei “media” non paga.
E il ravennate Giordano Gamberini
Sovrano gran commendatore della giurisdizione italiana del Rito scozzese antico e accettato, al suo fianco Cecovini aveva il gran maestro del GOI, Lino Salvini (rievocato in un convegno i cui Atti sono pubblicati da Pontecorboli, a cura di Massimo Nardini, in attesa di una biografia nel centenario della sua nascita), e il suo predecessore, Giordano Gamberini (1915-2003). Già vescovo della chiesa gnostica, iniziato nella loggia clandestina “Umanità e Progresso” di Milano, maestro massone dal 22 febbraio 1943, regolarizzato nella “Dante Alighieri” di Ravenna, Gamberini era stato protagonista della grande “svolta” del GOI, suggellata nel 1972 dal riconoscimento da parte della Gran Loggia Unita d'Inghilterra (GLUI), da molti considerata depositaria di regolarità e legittimità. Per comprenderne la profondità basta leggere il suo intervento all'innalzamento delle colonne della R∴L∴ “Aurelio Saffi” di Forlì il 5 maggio 1945. Impugnato il maglietto quale delegato regionale del GOI per l'Emilia e in veste di segretario del Consiglio dei 33∴, di cui era componente, recato il saluto della sua loggia l'allora giovane Gamberini passò in rassegna le vicende del ventennio precedente. Ricordò che nel 1921 la città di Forlì aveva scoperto il monumento di Aurelio Saffi in un clima festoso, con la presenza del gran maestro Domizio Torrigiani e del “fratello” Arcangelo Ghisleri. Nessuno tra i partecipanti immaginava che appena quattro anni dopo la loggia sarebbe stata costretta a sciogliersi sotto la minaccia incalzante dello squadrismo. Gamberini ricordò che i massoni locali avevano interrotto i lavori regolari, ma alcuni avevano continuato la Grande Opera in collegamento con fratelli «sparsi in Italia e all'estero e portando un alto contributo nella lotta contro il dominio di una fazione politica liberticida». Concluse augurando ogni massonica prosperità dopo la ripresa dei lavori, mai più interrotti malgrado nuove avversità e persecuzioni. Tutto è documentato da Alberto Urizio Kovereck nel volume giubilare “R.A. Saffi, Oriente di Forlì”, pubblicato nel 2020 per le edizioni Risguardi su iniziativa dell'Associazione Culturale Aurelio Saffi. Gamberini firmò per primo il Registro delle presenze all'innalzamento delle Colonne, seguito dai sette fratelli partecipanti alla tenuta. Successivamente dedicò speciali cure alla vita della loggia, come attesta il regolamento di Officina, da lui controfirmato quale relatore. Superfluo evidenziare i suoi reiterati richiami al rigore nei lavori rituali. Era l'alba di un'età novella, ancora lontani da una ricostruzione critica. A distanza di oltre tre lustri dai saggi pubblicati al riguardo nel volume collettaneo La Massoneria (Einaudi, 2005) e cinque anni dopo l'ampio profilo di Domenico Maiocco scritto da Antonino Zarcone in Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato (Roma, ed. Annales, 2015), lo scenario delle istituzioni massoniche italiane dal 1944 rimane in gran parte da indagare. Anche alcuni tra i volumi collettanei recenti si sono fermati sulla soglia dell'unità nazionale o alla Grande Guerra. È il caso di All'Oriente d'Italia. Le fondamenta segrete del rapporto fra Stato e Massoneria, a cura di Massimo Rizzardini e Andrea Vento (Rubbettino), e della Storia del Grande Oriente d'Italia, coordinato da Emanuela Locci (Westphalia Press). In termini forzatamente sintetici ne ha scritto Luca G. Manenti nel pregevole saggio “La massoneria italiana dalle origini al nuovo millennio” (ed. Carocci, 2024).
La ricostruzione del Tempio.
Va osservato che nel lungo dopoguerra (per Napoli esso finì nell'ottobre 1943, per Roma solo dal giugno 1944, per l'Italia settentrionale nel maggio 1945 e oltre, se si tien conto delle drammatiche ripercussioni dell'occupazione straniera e dell'applicazione del trattato di pace del 10 febbraio 1947) la Massoneria in Italia si rifece in massima parte all'epoca ante-fascista. Quali credenziali verso l'esterno furono ostentati i richiami al Risorgimento e a eroi eponimi della tradizione liberomuratòria di fine Ottocento, quali Giosue Carducci ed Ernesto Nathan, gran maestro e sindaco di Roma nell'età giolittiana, e soprattutto a Giuseppe Mazzini, mai massone e tuttavia rivendicato quale depositario di ideali e valori propri della Libera Muratoria. Lasciando ai margini la caleidoscopica pletora di organizzazioni sedicenti massoniche di quegli anni (ne scrisse acidamente l'Enciclopedia cattolica sulla scorta di “carte” che in vario modo dalle logge raggiungevano le sacristie), va ricordato che dinnanzi al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 il GOI non si pronunciò esplicitamente per l’una o l’altra forma di Stato anche se pubblicò solo documenti a sostegno della repubblica. Come accenna Giuseppe Pardini nel saggio Obbedienze disobbedienti (ed. Le Lettere) sulla diaspora della massoneria italiana nel 1943-1949, anche il GOI, come la quasi totalità delle altre organizzazioni massoniche, mostrava le ferite subite nel ventennio ma non proponeva prospettive veramente innovative per la Ricostruzione italo-europea. Questa fu invece presidiata da alcuni massoni italo-americani convinti che il cambio di regime e di forma istituzionale avrebbe “redento” l'Italia dalla tabe millenaria, il dominio della chiesa cattolica, e avrebbe generato l'Età Novella. Al riguardo va approfondita la “staffetta” tra Umberto Cipollone e il suo conterraneo Frank Gigliotti, che operò quale plenipotenziario liberomuratòrio anche nei contatti personali con il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, per scongiurare nuove persecuzioni da parte della maggioranza cristallizzata alla Costituente con l'approvazione dell'articolo 7 della Carta e con il divieto di “associazioni segrete”: una formula declinabile da parte dei governi e delle sue emanazioni (le forze dell'ordine), tenute a eseguire le volizioni dell'esecutivo. Però la speranza di “evangelizzare” gli italiani ebbe sorte meno felice persino di quella toccata a chi aveva preteso di fascistizzarli. Lo aveva intuito Mussolini quando, nel congresso fondativo del PNF (Roma, 7-10 novembre 1921) dichiarò che i romani “non vogliono essere scocciati”. Come erano rimasti impermeabili al Vangelo, così lo sarebbero stati verso nuove predicazioni.
Quando l'Oriente risultò a Occidente
Dal declino del “centrismo” con il fallimento della riforma della legge elettorale nelle elezioni politiche del 1953, il GOI cominciò a interrogarsi sulla propria collocazione nell'ambito della Massoneria universale, ripartita, come da quasi un secolo nelle tre “famiglie”: la Gran Loggia Unita d'Inghilterra, la catena incardinata sul Grande Oriente di Francia e le Grandi Logge degli USA. Le speranze di tornare a svolgere un ruolo nella vita pubblica erano legate al riconoscimento da parte della massoneria “americana”, sia Grandi Logge sia Supremi consigli delle Giurisdizioni scozzesi USA Nord e Sud. Sarebbe troppo lungo ripercorrere le diverse fasi del cammino percorso. Saltando alle sue conclusioni, fu chiaro che occorreva recidere i rapporti a lungo privilegiati con il Grande Oriente di Francia e imboccare la via del riconoscimento da parte della GLUI, perché non poteva bastare quello di singole Grandi Logge degli USA. A quel punto divenne indispensabile accantonare la “moneta vecchia” e coniare una “moneta nuova”. La prima era il richiamo all'unicità del “caso Italia”, l'identificazione dell'Ordine con l'unificazione nazionale (già confutata da Alessandro Luzio e rivendicata da Giuseppe Leti); la seconda era la scoperta della Tradizione, delle Costituzioni di Anderson, sino a quel momento qualche volta citate ma pressoché ignorate negli statuti e nella prassi di una Comunità che si era orgogliosamente spesa nella politica politicante. Sin dal 1954 il GOI affrontò la sfida al proprio interno, con una sorta di esame di coscienza generazionale. Nella Gran Loggia celebrata in Roma nel 1955 venne decisa la rottura dei rapporti di fratellanza istituzionale con il Grande Oriente di Francia. Per molti Fratelli d'Italia (come i massoni erano detti: nulla a che vedere con il partito politico che ha assunto quel nome) l'evento costituì un trauma, perché i legami massonici italo-francesi risalivano al Settecento. Il “cambio” comportò altre due “coniazioni”. Anzitutto la revisione “sua sponte” del giudizio sulla chiesa cattolica. Questa, ormai, non era più identificabile con Pio XII, né con il Sillabo di Pio IX. Si avvertivano l'imminenza del Concilio Ecumenico Vaticano II e le aperture in corso verso il “mondo moderno”, con tutta la complessità sintetizzata dalla personalità di Paolo VI. Il secondo passaggio fu la riflessione sull’Europa nascente. Questa non poteva risolversi solo nell'avvento di comunità funzionali in alcuni settori produttivi, come il carbone e l'acciaio, e nell'abolizione di cinte daziarie. Doveva fondarsi sulla riscoperta delle proprie “ragioni” identitarie, non riconducibili alle chiese e a ideologie ancora e poi lontane dalla reciproca conciliazione. Sia il GOI sia la Gran Loggia d'Italia (che introdusse l'iniziazione femminile) si posero il problema dei problemi dell'Italia postbellica: uno “statuto” della classe dirigente, ovvero la continuità dello Stato al di là della sua forma istituzionale e dei governi, compositi e precari. L'Italia aveva avuto una gloriosa dirigenza sorta dal Risorgimento e affermata con l'unificazione nazionale. Una miriade di repubblicani si riconobbe nella monarchia per non precipitare all'indietro, nel “governo dei preti”. All'indomani della Grande Guerra il movimento fascista, rimasto ideologicamente confuso anche quando divenne partito, spazzò via la dirigenza politica precedente e si assise al potere. Utilizzò molta parte della burocrazia esistente, ma la vessò con l'obbligo del giuramento di fedeltà al partito (pronunciato con riserva mentale e quindi moralmente irrilevante: lo si vide nel 1943) e accampò un ideario passatista, anti-moderno, paranoico, spinto sino alle leggi razziali del 1938 e alle rovinose scelte belliche del 1940-1941, inclusa la suicida dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti d'America. Fu una decisione che lascia sbalorditi e fa ritenere che Vittorio Emanuele III l'abbia accolta solo perché, come intuì Salvatore Satta, l'unico modo per aprire gli occhi agli italiani era la sconfitta militare. Dalla seconda guerra mondiale l'Italia registrava un ritardo di classe dirigente. Quella accorpata in Parlamento era in massima parte italo-centrica, euroscettica e diffidente nei confronti degli USA, non come grande potenza ma proprio quale modello “liberale”. Manlio Cecovini all'interno del Rito Scozzese antico e accettato e Gamberini alla gran maestranza del GOI compirono i passi rituali: l'Oriente era a Occidente. Per dare corpo alla dirigenza sarebbero occorsi decenni di rinnovamento dell'istruzione e dell'educazione. Bisognava fare tela col filo esistente: allestire un’organizzazione di élite, facendo appello a chi già era in posizione apicale. Fu la funzione assegnata da Gamberini alla loggia “Propaganda massonica” n. 2. Ne sono ampiamente note e studiate la sua fase ascendente e la catastrofe del 1981. A distanza di tempo occorre invece tornare a interrogarsi sul suo ruolo nel pieno della “guerra fredda”, all'indomani della sanguinosa repressione dell'insurrezione ungherese, in un'Europa divisa in due, mentre iniziavano a crollare gli imperi coloniali e occorreva immaginare e interpretare il futuro. In Italia ancora tardava a sorgere la maggioranza di centro-sinistra, i convegni di “Il Mondo” coinvolgevano sparute minoranze e il Club di Roma era ancora lontano sull'orizzonte. Bisognava compiere il balzo dall'italo-centrismo, al riparo della Nato accettata “obtorto collo” e persino osteggiata da tanta parte del Paese, alla visione matura dei problemi planetari incombenti (accolta all'ONU dal 1955, l'Italia continuava a ignorare la Repubblica popolare cinese a a prediligere Taiwan). Varcare il solco era il compito della Massoneria, quale venne concepita da Gamberini e Cecovini: tornare all'Ordine al proprio interno per concorrere alla regolarità della Comunità internazionale e al passaggio dei “diritti dell’uomo” da enunciazione a pratica quotidiana. Consapevoli della propria condizione storica di minoranza esigua, i liberi muratori italiani accettarono la sfida più ardua. Dopo un numero di saggio, iniziò la pubblicazione mensile della “Rivista massonica”, destinata non alla ristretta cerchia dei massoni effettivamente attivi e quotizzanti (poche migliaia, per ammissione di Salvini e di Giovanni Ghinazzi) ma alle librerie e alle biblioteche, per far conoscere l'Istituzione al “mondo profano”. La Storia, però, non fu benigna. Mezzo secolo dopo, tanti pregiudizi secolari rimangono identici. Anzi, la massoneria è pressoché scomparsa dalla manualistica scolastica e negli scaffali delle librerie i rari volumi sulla sua storia sono confusi con quelli su magia, occultismo e stravaganze varie.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA. Manlio Cecovini (Trieste, 1914-2010), avvocato dello Stato, fondatore nel 1975 per Trieste contro il trattato di Osimo, che cedette alla periclitante Jugoslavia terre innegabilmente italiane, apprezzatissimo sindaco della sua città, eurodeputato per il Partito liberale italiano, sovrano gran commendatore della giurisdizione italiana del Rito scozzese antico e accettato (1977-1986), pubblicò oltre quaranta libri, tra memoria e romanzi. Nel 1987 scrisse “La massoneria triestina”, introduzione alla nuova edizione di “Trieste segreta” di Giulio Gratton (1^ edizione, 1948). Su di lui Luca G. Manenti ha pubblicato saggi nel volume “Da Trieste all'Europa. Manlio Cecovini politico, massone, scrittore” (ed. Rubbettino, 2022).