Re rigorosamente costituzionale, nell'ottobre 1922 Vittorio Emanuele III sollecitò ripetutamente il presidente del Consiglio dei ministri Luigi Facta a convocare le Camere per “parlamentarizzare” la crisi politica in corso. Facta riluttò. Tramò per dar vita a un suo terzo ministero comprendente Mussolini e qualche fascista in posizioni marginali. Non aveva capito la gravità della crisi. Contro il volere del Re “dimenticò” Giolitti nel lontano Piemonte, a Cavour. Ma i più imputano proprio a Vittorio Emanuele III l'avvento del governo Mussolini. Allo stesso modo dovremmo addebitare a Sergio Mattarella tutti i pasticci dei “partiti”odierni e un eventuale frutto tossico del 25 settembre?
Rivoluzione fascista? Mai stata.
C'è del vero nella formula “Maestà, vi porto l'Italia di Vittorio Veneto” attribuita a Benito Mussolini quando il 30 ottobre 1922 presentò a Vittorio Emanuele III l'elenco dei ministri. Avuto l'assenso, in via rapida (telefono, telegrafo) Mussolini li convocò al Quirinale per il giuramento di rito alle dieci dell'indomani. Fu il primo a rispettare il protocollo. Salutò senza rancore Luigi Facta, che aveva improvvidamente proposto la proclamazione dello stato d'assedio, l'impiego delle armi contro gli squadristi e l'arresto dei loro dirigenti (Mussolini compreso?), e si recò al Ministero dell'Interno (il cui titolare, Paolino Taddei non si fece trovare) e a quello degli Esteri, tenuti per sé, con la presidenza del Consiglio. Quando inviò ai presidenti delle Camere la composizione del governo, il sottosegretario alla Presidenza Giacomo Acerbo, massone di grado 30° della Gran Loggia d'Italia, evidenziò i meriti patriottici diretti e indiretti dei nuovi ministri. Rappresentavano l'Italia che arrivava dallo sforzo bellico che portò da Caporetto a Vittorio Veneto.
Senza cedere alla diffusa inclinazione di narrare la storia del “ventennio” mussoliniano come una linea continua, quasi che tutti i suoi “momenti”siano stati inesorabilmente concatenati o dettati dal Fato, a distanza di un secolo dalla crisi dell'ottobre 1922 e dalla sua soluzione va ricordato ciò che effettivamente avvenne e ciò che non avvenne affatto, ma entrò nella leggenda e ancora oggi imperversa nella saggistica. Occorre innanzitutto sfatare il mito, alimentato da Emilio Gentile e altri, secondo cui dal 28 ottobre fu “subito il regime”, frutto della “rivoluzione”. Il primo a moderare le parole fu proprio Mussolini. Nel discorso di insediamento alla Camera dei deputati il 16 novembre 1922 accennò fugacemente alla “rivoluzione delle camicie nere” voluta dal popolo per restaurare l'autorità dello Stato. Nella replica rivendicò il sostegno del proletariato e distinse tra la borghesia parassitica e quella produttiva, che anche Lenin stava ricostruendo nell'Unione sovietica. Al Senato il 27 novembre ribadì che “tutte queste terminologie di destra, di sinistra, di conservatori, di aristocrazia o democrazia sono vacue terminologie scolastiche” e invocò la formula mazziniana “Dio e Popolo”. Sarebbe stato arduo spacciare per Rivoluzione un «governo di coalizione (…) per raccogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare». Riallacciandosi al discorso del 16 novembre 1922, anche in quello, ben più significativo, del 3 gennaio 1925, nel quale respinse l'addebito di aver fatto aggredire Matteotti e sfidò l'opposizione a denunciarlo al Senato costituito in Alta Corte di giustizia (art. 47 dello Statuto), Mussolini non accennò minimamente a Rivoluzione.
Il termine divenne comune con la legge 11 dicembre 1928, n. 2693 (pessimamente scritta, poco letta ma molto citata anche da “storici” che gli attribuiscono poteri che non aveva), istitutiva del Gran Consiglio del fascismo quale «organo supremo che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell'ottobre1922», dotato di «funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge» (mai esercitate) e richiesto di «parere su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del Governo».La Rivoluzione divenne formula canonica con i cinque volumi della “Storia della Rivoluzione fascista” di Giorgio Alberto Chiurco (Vallecchi, 1929) e con la Mostra del Decennale della Rivoluzione fascista (1932) nel 1928 sommessamente proposta da Edoardo Dino Alfieri come semplice “esposizione storico-documentaria del fascismo”.
Il governo varato da Mussolini il 31 ottobre 1922 non coronò affatto una “Rivoluzione” ma una “insurrezione” (subito sedata) e non si sostanziò nell'avvento di un nuovo regime. Nel 1944 proprio il Duce malinconicamente scrisse: «Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il fascismo non fece nell'ottobre 1922 una rivoluzione. C'era una monarchia prima e una monarchia rimase dopo.» Né ci fu la mitizzata “diarchia”. Il 25 luglio fu il re a revocare Mussolini e a sostituirlo con Badoglio.
Ciò che non avvenne
La crisi dell'ottobre 1922 fu extraparlamentare non per iniziativa di Mussolini ma per la pochezza dei partiti non fascisti, sia antistatutari (comunisti, socialisti, repubblicani), sia “costituzionali”, nazionalisti inclusi, ancora lontani da fondersi nel Partito nazionale fascista, come fecero a metà febbraio 1923 quando rinunciarono alla propria identità in cambio della dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge massoniche da parte del Gran Consiglio.
A fine luglio 1922 i veti incrociati (don Sturzo contro Giolitti, a sua volta tarpato da altri notabili dell'area liberal-democratica, i socialisti contro tutti e soprattutto contro se stessi) sfociarono nella formazione del secondo governo presieduto da Luigi Facta. A differenza di quanto scrive Mimmo Franzinelli in L'insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma (Mondadori, 2022, p. 59), il nuovo ministero non fu affatto «ancor più debole del precedente» e addirittura «subalterno ai fascisti». Infatti ne fecero parte Paolino Taddei all'Interno, Marcello Soleri alla Guerra e Giulio Alessio alla Giustizia: tre ministri chiave, decisi ad affermare l'autorità dello Stato contro l'illegalità. Il 4 agosto Taddei impartì ai prefetti direttive chiarissime: «per impedire consumazione gravi reati contro persone e proprietà, contro poteri pubblici e per impedire o sciogliere concentramenti armati con scopi evidentemente delittuosi», dopo aver «esperito invano ogni altro mezzo», la forza pubblica doveva fare uso delle armi. Identiche misure vennero ripetute per settimane.
Migliaia di volumi, saggi e articoli hanno insistito sul livello quantitativo e qualitativo del conflitto tra squadristi e “sinistre”, sulle “trame” intessute per dare una soluzione parlamentare alla crisi e sulla sua conclusione: la decisione del governo di proclamare lo stato d'assedio, la sua comunicazione ufficiale senza l'indispensabile firma del re (28 ottobre) e, dopo un giorno di vane consultazioni condotte in prima persona da Vittorio Emanuele III, il conferimento dell'incarico a Mussolini (29 ottobre), senza la pressione delle camicie nere bloccate lontane da Roma ove entrarono solo per la sfilata del 31 ottobre, a governo insediato, per esserne subito allontanate con i treni allestiti alla Stazione Termini il 31 ottobre-1 novembre. Dal 2 novembre Roma fu totalmente tranquilla, come l'Italia intera. Non un cenno di opposizione, né scioperi. Il 4, dopo l'omaggio di Rito all'Altare della Patria, il Re partì per San Rossore e il governo si mise all'opera secondo le direttive dettate da Mussolini il 31 ottobre.
Il “cambio” avvenne così rapidamente e ordinatamente che ancor oggi le narrazioni ne cercano la genesi nella miriade di scontri tra opposte fazioni e riservano poche lacunose e imprecise righe alle ore centrali: dalla sera del venerdì 27 alla mattina della domenica 29 ottobre. Lo conferma il citato libro di Franzinelli: 304 pagine di testo e 30 di note, con molte utili citazioni di carte conservate all'Archivio Centrale dello Stato. L'autore insiste sulle spedizioni compiute dalle squadre fasciste contro i “rossi” sin dal 1920, spesso – egli asserisce – con la connivenza di forza pubblica e militari, notoriamente vilipesi dalle sinistre.Vengono chiamati in causa Giolitti, il suo successore Ivanoe Bononi e i due governi Facta, complici diretti e indiretti dell'onda reazionaria culminata con l'incarico a Mussolini. Eppure anche Franzinelli deve convenire che nei giorni fatidici le “squadre” vennero fermate dal piano di difesa di Roma predisposto e attuato dal comandante della Divisione militare di Roma, Emanuele Pugliese, che ne scrisse nel documentato volume Io difendo l'Esercito (Napoli, Rispoli, 1946: meritevole di riedizione critica).
Mentre lascia sotto traccia i nodi istituzionali della crisi e della loro soluzione, Franzinelli si concede qualche svista. Secondo lui Vittorio Emanuele III aveva «una visione politico-esistenziale arida, senza slanci né ideali» e soffriva «la presenza di personaggi più di lui energici: dalla regina madre (Margherita di Savoia N.d.A., da tempo appartata a Bordighera) al duca d'Aosta, notori filofascisti» (p. 150). Peccato però che per lui il duca d'Aosta sia Amedeo di Savoia (all'epoca ventiquattrenne) anziché suo padre, Emanuele Filiberto, cugino primo e coetaneo del re, mai cospiratore contro la Corona.
Franzinelli evoca il ruolo svolto da Ernesto Civelli per procacciare finanziamenti quale intendente generale della marcia su Roma con Gaetano Postiglione, ma non ricorda che alle 7 e mezzo mattutine del 28 ottobre fu lui ad assicurare al re che la spina dorsale delle “camicie nere” (comandate da Cesare Maria De Vecchi e da Emilio De Bono) era monarchica, come del resto si vide alla “sfilata (non “marcia”) con i generali Luigi Capello, Gustavo Fara e Sante Ceccherini, d'intesa con i maggiorenti nazionalisti e le “camicie azzurre”. Aggiunge, per inciso, che Civelli era massone. Quanto basta per evocare, accanto al duca d'Aosta, l'altro misterioso protagonista occulto della svolta. Franzinelli ci insiste. Ma con affermazioni imbarazzanti. «Al Grande Oriente d'Italia (con sede a Piazza del Gesù) aderiscono – tra gli altri – Giacomo Acerbo, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Sante Ceccherini, Costanzo Ciano, Dino Perrone Compagni, Cesare Rossi, Edmondo Rossoni. Il gran maestro Raoul Palermi ha contatti diretti con Mussolini...». Ma i fatti sono ben altri. Palermi era sovrano gran commendatore della Serenissima Gran Loggia d'Italia, da Franzinelli confusa con il Grande Oriente, cioè con quello che poche righe dopo definisce «l'altra obbedienza massonica (quella di Palazzo Giustiniani)...». Sappiamo che la massoneria è un ginepraio. Ma delle due l'una. In un libro di storia se ne scrive se la si conosce oppure si evita. Franzinelli si concede altre licenze poetiche. Scrive che i “manifestanti” sfilanti il 31 ottobre 1922 da Piazza del Popolo, «giunti a Piazza Venezia, si tolgono elmetti e fez, sostano dinanzi all'altare della Patria, per riverire il Milite Ignoto (inumato a Roma due anni prima, nell'evento che segnò il passaggio dal biennio rosso al biennio nero». Però la Tumulazione del Milite Ignoto, la manifestazione più imponente nella storia d'Italia dal 1861 a oggi, avvenne il 4 novembre 1921, cioè un anno prima, non due. Segnò la riscossa della Corona contro tutti gli estremismi.
Aggiungiamo un' ultima citazione da Franzinelli: «Per comprendere come il duce giochi sul tempo gli avversari, basti notare che scegliendo il 28 ottobre per l'azione risolutiva, anticipa e spiazza gli statisti liberali che puntano sulla grande manifestazione del 7 novembre per celebrare il terzo anniversario della Vittoria e lanciare d'Annunzio come alternativa a Mussolini». A parte che il 4 (non 7) novembre 1922 era il quarto (non terzo) anniversario del'armistizio, il tentativo di contrapporre il Vate al Duce fu un'idea bislacca di Facta, non degli “statisti liberali”, meno che meno di Giolitti, la «vecchia volpe di cinque combinazioni ministeriali» che, scrive Franzinelli «convinto che il re lo convocherà per l'investitura governativa, il 28 ottobre si pone in viaggio, ma fuori tempo massimo. Lasciata Dronero per Torino (dove ha prenotato il direttissimo per la capitale), apprende dal prefetto della mobilitazione fascista e delle conseguenti interruzioni ferroviarie; valuta un itinerario via mare, ma l'accelerazione politica rende patetiche le premure del vegliardo, collocato di un colpo tra le anticaglie di un sistema in frantumi».
Però, come noto (lo si legge in “Giolitti, il senso dello Stato”, RusconiLibri) la sera tra il 27 e il 28 ottobre Giolitti, un po' raffreddato, era nella sua casa a Cavour a festeggiare l'80° compleanno, a sfogliare le “Memorie della mia vita” e da lì non si mosse affatto. A Roma andò solo per la seduta della Camera del 16 novembre, quando votò a favore del governo Mussolini, come Vittorio Emanuele Orlando e tutti i “costituzionali”. L'alternativa era il caos. Sei anni dopo, il 16 marzo 1928, a schiena dritta Giolitti respinse la riforma della legge elettorale che conferì al Gran Consiglio del fascismo la scelta dei 400 deputati da votare o respingere in blocco per la futura Camera. La storia è storia. Documenti. Non fantasie.
Il “golpe” di Luigi Facta
I punti fondamentali della crisi dell'ottobre 1922 sono semplici e chiari. Il secondo governo Facta tenne dieci sedute nel mese di agosto, sette a settembre e nove a ottobre. Nell'ultima, venerdì 27 ottobre, deliberò le dimissioni, come recita il verbale (senza ora d'inizio e di fine seduta!). Si mise quindi nella condizione di rimanere in carica solo per l'ordinaria amministrazione: dalla quale era esclusa la proclamazione dello stato d'assedio, che comporta l'adozione del codice penale di guerra. Con le dimissioni Facta restrinse il campo d'azione del Re, tenuto a trovare la soluzione entro lunedì 30, prima della riapertura delle borse per scongiurare ripercussioni sulla vacillante condizione finanziaria dell'Italia.
Dopo un giorno di febbrili consultazioni (documentate anche dal Diario della Casa Militare del sovrano), sentiti i rappresentanti dei partiti costituzionali, degli interessi vitali del Paese e annusata l'altra riva del Tevere, Vittorio Emanuele III affidò l'incarico a Mussolini che formò un esecutivo comprendente nazionalisti, popolari, democratici, demosociali e il giolittiano Rossi di Montelera all'Industria, nel quale sino all'ultimo tentò di inserire socialisti come Gino Baldesi.
Da tempo il Re aveva chiesto a Facta di convocare le Camere per parlamentarizzare la crisi. Rimase inascoltato perché il presidente, un sedulo notabile di provincia con solenni baffi a manubrio, mirava a succedere a se stesso. Il potere piace. Si sentiva incoraggiato. Il 28 ottobre 1922 nel “Corriere della Sera” Luigi Einaudi scrisse: «Desideriamo ardentemente ci sia un partito, e sia quello il fascista, se altri non sa far meglio, il quale usi mezzi adatti per raggiungere lo scopo che è la grandezza materiale e spirituale della Patria.» La lista dei ministri che Mussolini mostrò al giornalista Luigi Ambrosini nel viaggio in vagone letto da Milano verso Roma comprendeva anche Einaudi. Nel cambio forzato a Civitavecchia (ove la ferrovia era interrotta per le misure adottata dal generale Pugliese) con altri salirono in carrozza Silvio Gay, Gaetano Polverelli e un ex sacerdote massonofago che Mussolini, scaramantico, preferiva non incrociare (e noi non nominiamo). Einaudi fu sostituito con Alberto De Stefani. Anziché al socialista Gino Baldesi il ministero del Lavoro e della previdenza sociale venne assegnato all'emiliano Stefano Cavazzoni, del partito popolare, industriale, ufficiale, partecipe della delegazione italiana alla conferenza economica di Genova e alla costituzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro presso la Società delle Nazioni a Ginevra. Nel segno della continuità, dunque, non della “Rivoluzione”.
In sintesi, il 31 ottobre 1922 non contenne in sé il ventennio seguente. Questo fu deciso dai parlamentari eletti il 15 maggio 1921 e dai cittadini che tornarono alle urne il 6 aprile 1924, nel marzo 1929 e via continuando. Il patrimonio politico e morale dell'Italia era il prezzo pagato con l'intervento nella Grande Guerra. Pesante. Ma a rivendicarlo, dall'“Inchiesta su Caporetto” (istituita a guerra in corso) agli inconcludenti sei governi succedutisi dal 1918 al 1922, furono solo un’esigua parte dei “costituzionali” e soprattutto i nazionalisti e i fascisti che capitalizzarono Vittorio Veneto contrapponendosi alla pochezza altrui.
Aldo A. MOLA
box L'Italia di Vittorio Veneto al governo con Mussolini
Il 31 ottobre 1922 il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, massone di grado 30° nella Gran Loggia d'Italia, inviò ai presidenti delle Camere l'elenco dei ministri evidenziandone la partecipazione diretta o indiretta alla Vittoria. Citò nell'ordine Luigi Federzoni (Ministro delle Colonie), volontario in guerra, Medaglia d'Argento al Valor Militare, due croci di guerra; Aldo Oviglio (Giustizia e Affari di Culto), caporale d'onore della Milizia; Alberto De Stefani (Finanze), sottotenente benché riformato, un anno in zona di guerra; Vincenzo Tangorra (Tesoro); Armando Diaz (Guerra), Duca della Vittoria, due ferite, Medaglia d'Argento, Collare della SS. Annunziata; Paolo Thaon di Revel (Marina), Ammiraglio per merito di guerra, Collare della SS.A.; Giovanni Gentile (Pubblica istruzione), classe 1875, non mobilitato; Gabriello Carnazza (Lavori pubblici) non intervenuto ma padre di un caduto in guerra M.A.V.M.; Giuseppe De Capitani d'Arzago (Agricoltura) Croce di Guerra, presidente degli ospedali chirurgici al fronte; Teofilo Rossi di Montelera, (Industria e Commercio), tre medaglie, una con 4 fascette; Stefano Cavazzoni (Lavoro e Previdenza sociale), sottotenente per meriti speciali, creatore dell'Ufficio Stampa e Propaganda presso il Comando del Corpo di Armata di Bologna; Duca Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (Poste e Telegrafi), tenente di artiglieria, croce di guerra; Giovanni Giuriati (Terre Liberate), ferito e mutilato, due M.A.V.M., un nipote morto in guerra M.Oro al V.M.
Altrettanto valeva per i diciotto sottosegretari, tra i quali Aldo Finzi, i combattenti e pluridecorati Alfredo Rocco, Cesare Maria De Vecchi, Costanzo Ciano, Giovanni Gronchi, Silvio Gay, Michele Terzaghi, Dario Lupi e il generale Giulio Douhet, molti dei quali massoni.