Il grande “Pizzino di Stato”
«Chi troppo in alto va cade sovente precipitevolissimevolmente» osservò il commediografo Andrea Casatti in il “Governo di Malmantile” (1734). Ricalcava la visione gioiosa di Ludovico Ariosto che spostò i suoi Eroi dalla Terra al Cielo affinché, svolazzando negli spazi siderei, mandassero messaggi efficaci ai terragni, sempre un po' duri di comprendonio. Come oggi. Nei primi tre anni del governo Mussolini (ottobre1922-novembre 1925) in Italia si confrontarono due “potenze”. Da un canto il duce del fascismo, dipinto come “il Truce” per le pose minaci che spesso assumeva nei discorsi pubblici. Dall’altro canto le comunità massoniche: il Grande Oriente d'Italia, che risaliva al 1 gennaio 1862, dalle venature anticattoliche e repubblicane, e la Serenissima Gran Loggia d'Italia, incardinata nel 1910 dal Supremo consiglio del Rito scozzese antico e accettato capitanato dal pastore evangelico Saverio Fera. Apparentemente meno pugnace, la seconda, grazie alla strategia del suo terzo “conducator”, Raoul Palermi, si era insinuata in posizioni eminenti all'interno del nascente regime per controllarlo e orientarlo. Sommate, le due Comunità contavano almeno 50.000 affiliati, molti dei quali ben presenti nello Stato e nella società. All'epoca le porte di molte Officine massoniche erano girevoli. Si entrava e si usciva (o se ne veniva cacciati) nel volgere di pochi mesi. Assunta la “carica” a fine ottobre 1922, Mussolini sempre più constatava che il suo potere era una “macchina imperfetta” (formula di Guido Melis), popolata di pre- e di a-fascisti e non immune di antifascisti. Bisognava espellerne i riottosi e i riluttanti per fare dei pubblici dipendenti, con o senza tessera del PNF, una schiera di automi pronti a credere, obbedire e combattere, pronti a sfilare “avanti al Duce e avanti al Re”. Perciò i massoni, uomini del dubbio, andavano eliminati. Di quelle due “potenze” non poteva rimarne che una. I massoni erano ovunque. Ma Mussolini, come presidente del Consiglio, aveva tutto. Almeno temporaneamente. Per vincere, però, non gli poteva bastare il manganello. Doveva usare lo Stato. Le leggi. Seppe farlo. Il primo a crollare precipitevolissimevolmente fu proprio il Tempio di Hiram, sinonimo di Massoneria. Per chiudere la partita, nove giorni dopo il discorso del 3 gennaio 1925, il 12 seguente, un lunedì, Benito Mussolini, presidente del consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri, presentò alla Camera il disegno di legge (Ddl) sulla «Regolarizzazione dell'attività delle associazioni, enti ed istituti e dell'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle province, dai comuni e dalle istituzioni pubbliche di beneficenza». Fu il più grande “Pizzino di Stato” mai congegnato in Italia da un capo di governo per eliminare chi faceva da nerbo e da collante delle opposizioni più pericolose: non i cattolici del partito popolare, succubi della Chiesa nell'anno del Giubileo, né i comunisti, tenuti al guinzaglio dall'Unione sovietica, che aveva aperto un'ambasciata a Roma nell'anno dell'“affare Matteotti” senza manco invitarli. Da colpire senza remissione erano liberali di varia osservanza, democratici sociali, repubblicani, socialisti e soprattutto loro, i “Figli della Vedova”, liberi pensatori riottosi a qualunque disciplina coatta.
Una legge che non dice ma fa: annienta la libertà
Qual era il bersaglio di quel Ddl? Per capirlo, ne vanno lette le norme. Il primo articolo prevedeva: «Le associazioni, enti ed istituti costituiti ed operanti nel Regno e nelle Colonie sono obbligati a comunicare all'autorità di pubblica sicurezza l'atto costitutivo, lo statuto e i regolamenti interni, l'elenco nominativo delle cariche sociali e dei soci, ed ogni altra notizia intorno alla loro organizzazione ed attività tutte le volte che ne vengon richiesti dalla autorità predetta per ragioni di ordine o di sicurezza pubblica.» Quanti avevano funzioni direttive o di rappresentanza dovevano adempiere alla richiesta entro due giorni dalla notifica, sotto pena di arresto non inferiore a tre mesi e di un’ammenda da due a seimila lire (lo stipendio annuo di un impiegato di concetto). I responsabili di notizie false o incomplete sarebbero stati puniti con la reclusione non inferiore a un anno, oltre a una multa da cinque a trentamila lire e all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. L'articolo 2 prescriveva: «I funzionari, impiegati, ed agenti civili e militari di ogni ordine e grado dello Stato, ed i funzionari, impiegati ed agenti delle province e dei comuni, o di istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle province e dei comuni, che appartengano anche in qualità di semplice socio, ad associazioni, enti ed istituti costituti del Regno o fuori ed operanti anche solo in parte in modo clandestino od occulto o i cui soci sono vincolati dal segreto, sono destituiti o rimossi dal grado o dall'impiego o comunque licenziati.» Il Ddl stringeva il cerchio, separando il grano (il grosso del pubblico impiego) dal loglio (i massoni). Tutti i predetti erano «tenuti a dichiarare se appartennero o appartengano, anche in qualità di semplici soci ad associazioni enti ed istituti di qualunque specie costituiti od operanti nel Regno o fuori, al ministro in caso di dipendenti dello Stato e al prefetto della provincia in tutti gli altri casi, qualora ne siano specificatamente richiesti». Quanti non ottemperavano entro due giorni dalla notificazione venivano sospesi dallo stipendio per almeno quindici giorni e non più di tre mesi. In caso di notizie false o incomplete «la pena è della sospensione dallo stipendio non inferiore a sei mesi». Pochi anni dopo la Grande Guerra colpire i lavoratori nelle tasche era l'arma più efficace. Condannava non solo al ludibrio nell'opinione pubblica ma alla fame: la vittima si ritrovava esule in patria, senza alternativa professionale, reietto ai margini della società, con la famiglia che, a mensa scarna, domandava quali vantaggi procurassero i grembiulini massonici. Nel Ddl Mussolini non menzionò in alcun modo la Massoneria. Eppure alla Camera come nei giornali fu subito detto e scritto che il suo bersaglio precipuo era appunto la Libera Muratoria, più precisamente il Grande Oriente d'Italia. Ma lo era davvero o fungeva solo da pretesto per mettere sotto controllo ogni e qualunque associazione passata, presente e futura? In discussione, insomma, era la fratellanza massonica o la libertà dei cittadini? Contrariamente a quanto molti immaginano, Mussolini non intervenne alla Camera a sostegno della proposta di legge. Essa fu “presentata” con il corredo di una Relazione, e affidata immediatamente all'esame di una commissione di quindici parlamentari, presieduta da Giovanni Gentile e comprendente storici quali Gioacchino Volpe e Francesco Ercole, futuro ministro dell'Educazione nazionale. Il 12 gennaio la Camera non era più presieduta dal nazionalfascista Alfredo Rocco, giurista di talento, come riconobbe in un saggio giovanile lo storico e massone Paolino Ungari, dedicatario della Biblioteca del Grande Oriente d'Italia. Il 6, tre giorni dopo il discorso del 3 gennaio, Rocco era stato nominato ministro di Grazia e Giustizia, nel rimpasto di governo che riguardò anche i dicasteri della Pubblica Istruzione (Alessandro Casati fu sostituito da Pietro Fedele alla Pubblica Istruzione e Gino Sarrocchi da Giovanni Giuriati ai Lavori pubblici). A presiedere l'Aula, provvisoriamente priva di presidente, quel fatidico lunedì fu Luigi Gasparotto, interventista, “democratico”, tendenzialmente repubblicano, dai più considerato molto vicino alla Massoneria, non privo di amicizie in ambito fascista, e futuro ministro della Difesa nel governo presieduto da Alcide De Gasperi. A lui si deve l'adozione provvisoria del Canto Nazionale come inno provvisorio della Repubblica (ottobre 1946). L'Aula accolse il Ddl Mussolini con “vivi applausi e commenti”. Nessuna obiezione. Dopo di che, come tanti altri, esso iniziò la navigazione e la calendarizzazione, sino a quando venne discusso in Aula tra il 16 e il 19 maggio seguente.
Il Duce dixit...
Mussolini dunque accompagnò il Ddl con una Relazione, che è farina del suo sacco. Per dire quel che pensava della Massoneria non aveva bisogno di suggerimenti. Lo aveva scritto, detto e persino urlato in tante occasioni. Poiché il motto antico “ex ore tuo te judico” è sempre valido, cent'anni dopo giova rileggerne qualche passo. Il presidente del Consiglio e duce del fascismo esordì affermando che a tutti era nota «la parte che, nel moto del risorgimento italiano, ebbero le società e le sette segrete». Lo avevano affermato politici, storici e patrioti insigni. Tra i molti, Giosue Carducci aveva polemicamente confutato il motto secondo il quale per fare l'Italia bisognava disfare le sette. Iniziato massone in una loggia “selvaggia”, poi regolarizzato maestro in un'Officina bolognese formata esclusivamente di militari e docenti universitari, demolita dal gran maestro Ludovico Frapolli (una delle sua tante enormità), nel 1886 Carducci accolse l'invito del gran maestro Adriano Lemmi di far parte della “Propaganda massonica”, niente affatto occulta, e anzi “vetrina” di una Massoneria che fra il 1876 e il 1911 dette all'Italia cinque presidenti del governo: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli, Alessandro Fortis e Luigi Luzzatti. Nel 1895 da presidente del Consiglio, presente il Re, Crispi “scoprì” il monumento di Garibaldi sul Gianicolo a Roma, onusto di simboli massonici, e proclamò festa nazionale il Venti Settembre di concerto con Umberto I che aveva dichiarato la Città Eterna “conquista intangibile”. Quell'Italia era stata e rimaneva “scomunicata” e perciò compatta, chiusa a testuggine su se stessa come “legione sacra”. Mussolini, ex allievo del Convitto di Forlimpopoli diretto da Valfredo Carducci, fratello minore di Giosue, da antico ateo di complemento non poteva buttare alle ortiche l’“Inno a Satana”, Mario Rapisardi, Lorenzo Stecchetti (tutti “poeti” oggi dimenticati ma all'epoca dominanti, alla pari di Pascoli, massone a sua volta). Però si riteneva in diritto di sentenziare che il giudizio su società e sette segrete ormai “apparteneva alla storia”, come si dice dei morti. Sappiamo come tanti “storici” a noleggio cambino pennino e colore dell'inchiostro secondo il vento che tira. Ma nella breve Relazione sul Ddl Mussolini sintetizzò senza tentennamenti i motivi della condanna totale della Massoneria. Utili «in tempo di servitù, come mezzo di lotta del popolo inerme contro lo straniero e di Governi clienti dello straniero», «tali società», anziché sparire dopo l'avvento delle libertà statutarie, divennero ricettacolo di intriganti, di malcontenti e di delusi. «Ora – egli aggiunse – qualsiasi specie di società occulta, anche se in ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alle leggi. […] Si pone, in altri termini, fuori della legge e non può appellarsi ad essa per esserne difeso. […] Le società che obbligano i propri adepti al silenzio, anche a costo di mentire, contribuiscono a corrompere e a falsare il carattere degli italiani, per sua natura disposto a franchezza e sincerità. La consuetudine della menzogna, della dissimulazione e del mistero è una delle più deplorevoli conseguenze delle sette segrete; e forma, purtroppo, triste privilegio italiano quello di insistere, in regime di libertà nazionale e politica, nel perpetuarne gli effetti. […] Tutti i partiti ne sono più o meno inquinati ed avvelenati. La lotta politica in Italia non potrà svolgersi con piena sincerità e genuinità di atteggiamenti e di rapporti sino a che sarà possibile alle sette segrete di insinuarsi in ciascuno sotto mentite spoglie, per asservirne a interessi o a finalità inconfessabili il programma, per deviarne lo spirito, per controllarne o carpine le deliberazioni; per tradirli, infine tutti e ciascuno, fino a che insomma ogni partito potrà temere o sospettare, e troppo spesso non invano, di avere senza saperlo, il nemico nelle proprie file.» Mussolini si atteggiava dunque a difensore dei partiti, proprio mentre progettava di annientarli, come infatti avvenne nel corso del 1925-1926 con le “leggi fascistissime” votate da un parlamento ormai succubo. Lasciò trasparire di essere al corrente dei tanti massoni che erano all'interno del Pnf, della macchina governativa e negli impieghi locali. Il suo fido sottosegretario alla presidenza, Giacomo Acerbo, era massone della Gran Loggia, grado 7° della piramide scozzese prima del 31 ottobre 1922: balzò al grado 30° non appena giunto al potere. Mussolini non voleva cacciarlo, ma costringerlo a recidere i legami con la loggia. Ci riuscì? Il 25 luglio 1943 Acerbo fu tra i più convinti fautori dell’ordine del giorno che mise il duce in minoranza in seno al Gran Consiglio, ove tanti gerarchi (compreso Giuseppe Bottai, della loggia “La Forgia” di Roma, comunità della Gran Loggia d'Italia) ricordavano di essere stati iniziati ai travagli d'officina (e di masticazione): “semel abbas semper abbas”? Nella parte finale della Relazione il duce del fascismo deplorò che «le associazioni operanti in modo clandestino od occulto» si diffondessero tra i pubblici impiegati e persino tra i magistrati e gli ufficiali dell'esercito e della marina. Costituivano pertanto una minaccia alla sicurezza dello Stato perché avevano «bene spesso all'estero i centri di direzione e di influenza». A chi si riferiva? Mussolini non ignorava certo che la Gran Loggia Unita d'Inghilterra era tutt'uno con la Corona della Gran Bretagna e che alla presidenza degli Stati Uniti d'America da George Washington in poi si erano susseguiti massoni, sino a quello in carica mentre gli depositava il Ddl. Lo erano stati anche molti presidenti della Repubblica francese e tanti sovrani e principi dell'Europa settentrionale. Da tempo “in bonis” con padre Pietro Tacchi Venturi, l'ex socialmassimalista anticlericale, ora in marcia verso la Conciliazione, concluse: «Nessuna persecuzione, nessun divieto di alcun genere, nessuna limitazione del diritto di associazione. Solo obbligo, a tutte le associazioni, come avviene nei paesi più civili, di agire palesemente.» Tempo pochi mesi, tutte le associazioni vennero via via poste sotto controllo, vietate o costrette ad aggiungere l'aggettivo “fascista” alla loro denominazione originaria.
Alle radici della massonofobia
L'offensiva “ope legis” contro la Massoneria aveva in Mussolini motivazioni antiche e altre contingenti. Le prime risalivano alla lunga lotta per la conquista del Partito socialista italiano. Nei suoi congressi la “questione massonica” - ha ricordato Marco Novarino - cominciò a essere posta dal 1904. Elusa e rinviata per anni, essa esplose nel 1912 quando al congresso di Reggio Emilia i riformisti, molti dei quali affiliati a logge massoniche o sospettati di tresche liberomuratorie, come Leonida Bissolati, furono espulsi. Mussolini vinse la guerra nell'aprile 1914 quando a larghissima maggioranza al congresso di Ancona fu approvato l'ordine del giorno firmato da lui e da Zibordi che decretò l'espulsione dei massoni dal partito. Gli si contrappose Giacomo Matteotti (recentemente celebrato quale “moderato”) che propose invece l'incompatibilità tra loggia e partito, lasciando a ciascuno libertà di optare per l'una o per l'altro. Pochi si schierarono per la vera libertà o ritennero che la questione andava accantonata. All'epoca, nei primi lustri del Novecento, la Massoneria, in specie il Grande Oriente, era investita dall'offensiva dei nazionalisti, che la denunciavano come ateistica, antimilitarista (sinonimo di anti-patriottica) e asservita a interessi stranieri, soprattuto della Francia. Il loro foglio, “L'Idea Nazionale”, propose a un folto numero di notabili di dire se essa fosse «compatibile con le condizioni della vita pubblica moderna», se «il razionalismo materialistico e l'ideologia umanitaria e internazionalistica, a cui la Massoneria nelle sue manifestazioni si ispira, corrispondessero alle più vive tendenze del pensiero contemporaneo» e se credevano che «l’azione palese e occulta della massoneria nella vita italiana, e particolarmente negli istituti militari, nella magistratura, nella scuola, nelle pubbliche amministrazioni, si risolvesse in un beneficio o un danno per il Paese». L' Inchiesta risultò un plebiscito di “no” contro la Massoneria, proprio mentre sindaco di Roma era Ernesto Nathan, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Particolarmente sferzanti furono i vertici delle forze armate, inclusi Luigi Cadorna e Carlo Porro (futuri Comandante Supremo e vice nella Grande Guerra). A loro si aggiunse Giovanni Gentile, secondo il quale «la Massoneria non deve più essere giudicata, ma combattuta»: una lotta snza quartiere, che non poteva non essere condotta contro di essa, salvo poi «stringere la mano ai massoni». Luigi Einaudi rispose di non aver mai conosciuto nulla di più ridicolo e camorristico della massoneria. Benedetto Croce dichiarò di non aver nulla da aggiungere a quanto già aveva detto dell'infantile umanesimo pacifistico dei massoni, che si pascevano di una sub-cultura «da maestrucoli elementari», ottima per commercianti e bottegai. Un disastro per chi sognava di avere in pugno le “umane sorti e progressive” dell'intera umanità e si vedeva irridere da un Pontefice senza cattedra quale era il “filosofo di Pescasseroli”, come Croce fu detto anche dai preti che non gli perdonarono mai il suo distacco dalla Chiesa. Il 12 gennaio 1925 Mussolini mise all'attivo decenni di polemiche antimassoniche serpeggianti nel Paese, ma lo fece con circospezione e, come detto, senza nemmeno nominare la libera muratoria. Al “lavoro sporco” provvide la fervorosa Commissione che si affrettò a scrivere come e perché i massoni andassero cacciati dallo Stato dai pubblici uffici o costretti a pubbliche abiure. Tra i quindici figurò il filosofo Balbino Giuliano, nazional-fascista di spicco, antico iniziato alla loggia della Valle del Chienti quando era giovane docente all'Università di Camerino. Il segreto nel quale erano conservati i registri degli iniziati favoriva il doppio gioco. Mussolini, però, se non aveva fretta di veder approvata la legge contro la Massoneria voleva passare subito all’incasso dei suoi venturi effetti. Perciò ripresero gli assalti alle logge, come già nella seconda parte del 1924. Gli squadristi saccheggiarono e asportarono (per distruggere o conservare altrove) i verbali di loggia e gli elenchi degli affiliati, fondamentali per ricatti e per prolungare la guerriglia civile negli anni del regime. Non ebbe torto Mussolini a definire “legge fascistissima” quella presentata alla Camera il 12 gennaio 1925. Come si sia arrivati alla sua approvazione, merita un discorso a parte. Qui basti concludere che, vittorioso nella battaglia senza prigionieri contro i massoni, 18 anni dopo anch'egli cadde precipitevolissimevolmente. Una lezione per ogni altro aspirante ai pieni poteri.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA : Una loggia di Firenze devastata dagli squadristi (da Aldo A. Mola, “I massoni nella storia d'Italia, Catalogo della Mostra, Palazzo Carignano, Torino, 1980)