Una persona insignificante? Passata la tempesta s'odono augelli far festa? Sì. Sono loro. Da un canto con la voce roca qualche pavone richiama su di sé l'attenzione mentre fa la ruota. Dall'altro imperversano le cornacchie. Tutti insieme prendono a pretesto la morte di Vittorio Emanuele di Savoia per rinfocolare antiche polemiche contro i soliti bersagli. Il primo è stato lui, il «principe rimasto senza trono», l’«ultimo "non re” d’Italia», «l’uomo che non voleva diventare re», «il principe che divenne affarista inseguito da inchieste e polemiche». Sono alcuni titoli delle pagine di quotidiani che ne hanno riepilogato le vicende giudiziarie, dilungandosi nei dettagli di cronaca per ricordare infine in due righe che da indagini e processi andò assolto, se non per un reato marginale, quale l'aver portato un'arma fuori della sua dimora. Dunque niente di nuovo sotto il sole. Un giornale ha sintetizzato «Indietro Savoia», prendendo a prestito il titolo di un libro di molto tempo addietro, infarcito di pregiudizi e non privo di qualche svista. Quali, in sintesi, i principali addebiti mossi a Vittorio Emanuele di Savoia? Innanzitutto essere stato un “personaggio insignificante” e quindi immeritevole di tributi pubblici. Ma allora, perché scriverne tanto, sprecando carta, un bene sempre più prezioso? Poi di essere una figura incompatibile con Torino, “capitale della Resistenza e città dai forti sentimenti repubblicani”. Senza nulla togliere al capoluogo piemontese, le cui fortune dipesero proprio dalla decisione di Emanuele Filiberto di trasferirvi da Chambéry la capitale del ducato di Savoia nel 1563, va ricordato che la lotta di liberazione nazionale iniziò la sera stessa dell'annuncio della resa (8 settembre 1943) a Roma, a Bari e in tante altre città d'Italia ove il Regio Esercito combatté da subito i tedeschi: non solo perché la direttiva ricevuta era cessare le ostilità contro le forze angloamericane e reagire agli attacchi «da qualsiasi “altra parte” provenissero», ma anche e soprattutto perché i militari, legati dal giuramento di fedeltà al re, avevano compreso che i “veri” nemici erano gli ex alleati, i quali da tempo avevano fatto irruzione in Italia con atteggiamento palesemente aggressivo.
Massone: “uomo nero”? Come Garibaldi. Passando dal generale al particolare, in questi giorni la maggior parte delle rievocazioni non ha mancato di menzionare l'“uomo nero”: Vittorio Emanuele, figlio e nipote degli ultimi due re d’Italia, fu massone. E allora? Massoni furono pure moltissimi politici, scrittori (bastino Giosue Carducci, Francesco De Sanctis, Giovanni Pascoli e Salvatore Quasimodo) e ben cinque presidenti del Consiglio dei ministri dopo la proclamazione del regno d'Italia: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli, Sandrino Fortis e Luigi Luzzatti, ebreo. Solo un famigerato spretato tra il 1920 e il 1945 fece dell’appartenenza alla massoneria una sorta di capo d'accusa nei confronti della Nuova Italia e della sua dirigenza. Che si sappia, il maggiore statista dell'epoca, Camillo Cavour, non fu iniziato in loggia, ma lo era stato suo padre, Michele, come la generalità dei maggiorenti politico-culturali e militari di età franco-napoleonica, a cominciare dal sommo costituzionalista Giandomenico Romagnosi. Lo stesso Giuseppe Garibaldi, massone dal 1844, orgoglioso di indossare la divisa di generale dell'Armata del regno di Sardegna nel 1859, nel 1862 venne proclamato “primo massone d'Italia” e rivestì tutti i gradi eminenti delle diverse comunità liberomuratorie italiane, inclusi il supremo consiglio del Rito scozzese antico accettato e il rito di Memphis-Misraim. Lo ricorda Luca G. Manenti nella sua “Storia della Massoneria italiana”, appena pubblicata (ed. Carocci). Senza scomodare quello che a molti può sembrare il passato remoto, va ricordato, ancora, che la Costituzione vigente venne elaborata dalla Commissione dei Settantacinque, presieduta da Meuccio Ruini, iniziato nel 1901 nella loggia “Rienzi” di Roma. Assumere a “colpa” l'appartenenza alla Libera Muratoria, di cui fecero parte statisti eminenti di qua e di là dell'Atlantico, come Winston Churchill e George Washington, significa tornare a dipingere il Risorgimento e l'unificazione nazionale quali frutti di un complotto massonico ispirato da “arrières loges”, “logge coperte” popolate da satanisti incalliti. Insomma, vuol dire ripetere le corbellerie ispirate da clericali fanatici che non perdonarono mai a “Monsù Savoia” di aver annesso le Legazioni dell'Emilia-Romagna e, via via, l’intero Stato pontificio: cammino obbligato per realizzare il sogno che generazioni di patrioti pagarono con condanne al supplizio, al carcere duro, all'esilio e che, quando venne l'ora, fecero quadrato attorno all'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”, condivisa anche da molti ecclesiastici. Sono fiabe, codeste, care a Pio IX, che bollò le logge quali “sinagoghe di Satana”. Continuano a circolare in certi ambienti, ma sono confutate dalla storiografia e ormai screditate.
E pure “piduista” Già. Passi allora per il “massone”. Ma, ripetono alcuni opinionisti, Vittorio Emanuele di Savoia aderì persino alla loggia “Propaganda massonica” n. 2, nota sbrigativamente come “P2”. E questo basterebbe da solo a farne un mostro. Sennonché, quella loggia faceva parte della comunità massonica del Grande Oriente d'Italia, con un regolamento che limitava il diritto di visita da parte di “fratelli” massoni di altre logge. Nulla di diverso rispetto a quello in vigore nella Gran Loggia d'Inghilterra e altrove, a tutela della serenità dell'appartenenza. Non per caso la “P2” compare nella lista delle “officine” delle comunità all'epoca in rapporti fraterni con Londra: riconoscimento conseguito dopo anni di impegno da parte di grandi maestri quali Giordano Gamberini e Lino Salvini, che si valsero anche di Gelli. Ma quella loggia non fu una congrega di elementi pericolosi? Poiché occorre “stare decisis”, va ricordato che l'imputazione di cospirazione armata ai danni della Repubblica non prese mai consistenza. Inoltre, nel 1994 la Corte d'Assise di Roma assolse in via definitiva i “piduisti” dall'accusa, del tutto fantasiosa, di cospirazione politica. I suoi adepti erano uomini d'ordine, in buona parte giunti ai vertici della carriera nello Stato e nelle professioni e quindi inclini a “conservare” e a stabilizzare il Paese in una stagione di turbolenze come provavano gli scioperi “selvaggi”, lo scontro tra fazioni ideologiche, e, dopo attentati ancor oggi al centro di indagini, l'inizio degli “anni di piombo”. La leggendaria “P2” era talmente poco tenebrosa che il suo maestro venerabile (spesso erroneamente menzionato come “gran maestro”) inviava circolari ai suoi affiliati per posta ordinaria, con il mittente in bella vista. Per conferma, basti sfogliare gli Atti della Commissione parlamentare d'inchiesta e leggere le lettere che Gelli scriveva al “fratello” generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa indirizzandogliele alla Caserma Bergia di Piazza Carlina a Torino. Non c'era niente da nascondere. I progetti della loggia non contenevano nulla di sovversivo né di eversivo, tant’è che vennero fatti pervenire anche al presidente della Repubblica. Gli addebiti rinfocolati a carico di Vittorio Emanuele di Savoia tra la notizia della sua morte e la sepoltura risultano insomma irrilevanti. Quanto alla sua personalità, al suo “carattere”, le valutazioni sono discordanti, come sempre accade. Dipendono dai ricordi personali. Non solo. Spesso chi ne scrive non esprime giudizi frutto di cognizione diretta, ma riporta narrazioni di seconda o terza mano: sedimentate ma non per questo attendibili. Alcuni lo ricordano arrogante, altri affabile. Siffatti giudizi, nel loro complesso, sono poco significativi e non consentono di “sentenziare” sull’interessato né, tanto meno, sui suoi predecessori e sull’intera dinastia sabauda, come molti pretendono invece di fare.
Italia e Nodi di Savoia È invero fatuo e meschino prendere a pretesto la vita degli epigoni per sminuire il ruolo storico di Casa Savoia, artefice dell’unificazione nazionale a metà Ottocento e tassello fondamentale della politica europea di quei decenni. A parte i legami dinastici con la generalità delle Case regnanti in Europa, va infatti ricordato che Maria Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, sposò Carlo Gerolamo Bonaparte per suggellare l'alleanza politico-militare tra il regno di Sardegna e l'impero dei francesi: premessa della guerra del 1859 e delle imprese che seguirono, tra cospirazioni, assemblee, richiesta di annessione. Spada e diplomazia con il supporto di “servizi” e di associazioni forzatamente segrete. Sua sorella Maria Pia sposò il re del Portogallo. Il principe Amedeo, I Duca di Aosta, fratello minore di Umberto principe di Piemonte, e sposato con Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna, nel 1870 assunse la corona di Spagna. Lisbona e Madrid avevano profonde relazioni con l'America “latina”, dal Messico alla Terra del Fuoco e con quel che rimaneva degli imperi coloniali risalenti all'età dei grandi navigatori. Nata quale Stato unitario il 14 marzo 1861, l'Italia venne riconosciuta con avara lentezza dalla comunità internazionale: un percorso che richiese sette anni e fu coronato con la conferenza di Londra nel 1867, punto di arrivo della diplomazia orchestrata da Emilio Visconti Venosta e da Vittorio Emanuele II che si impegnò personalmente anche con il conferimento di Collari della Santissima Annunziata a personalità di estrazione non aristocratica, benemerite della Corona e dell'Italia, e a figure eminenti non cattoliche: evangelici, luterani, ortodossi, islamici… via via sino al Siam e al Giappone. Era l'“Italia in cammino” di cui poi scrisse Gioacchino Volpe. Perciò stupisce che, sempre prendendo a pretesto la dipartita di Vittorio Emanuele di Savoia, qualche “storico” anche subalpino si sia spinto ad asserire una sorta di incompatibilità congenita tra Casa Savoia e la Terza Italia. E chi altri mai avrebbe potuto condurla in porto? Un Asburgo? Un Borbone? Un Bonaparte? O Luciano Murat, che proprio Napoleone III, suo congiunto, tenne sotto ferreo controllo, tanto da sbarrargli la strada all'ascesa a gran maestro del Grande Oriente di Francia, da lui “commissariato” e al quale impose un maresciallo dell'Impero di sua fiducia, mai iniziato in loggia. Questi sono i fatti e con essi la storia deve fare i conti se non vuole scadere a chiacchiera. Qualcuno ha osservato, infine, che nel corso degli anni Vittorio Emanuele di Savoia mancò di senso della disciplina, retaggio secolare della dinastia sabauda. Se ne può prendere atto. Ma non gliene si può fare un addebito. Non fu lui a decidere di non avere un Governatore, come lo avevano avuto invece suo padre Umberto II e i sovrani precedenti. Qiuando lasciò il Portgolgallo per la Svizzera, la Regina portò con sé il decenne Vittorio Emanuele, che non ebbe formazione militare e politico-istituzionale. Il “mestiere di Re” è tra i più complessi e ardui che immaginar si possa. Comporta di formarsi a divenire capo dello Stato, non su voto di un’assemblea ma su mandato della Storia: fusione di peculiarità personali e Tradizione della Casa, una “missione” metastorica che anche Vittorio Emanuele III sentì e visse come “sacra”. Per cogliere la straordinaria ricchezza della formazione che Umberto II avrebbe potuto assicurare al figlio giova il memoriale del generale Carlo Graziani, suo segretario particolare, “Da Cascais alle Piramidi. 1947-48” (ed. Luni).
I conti con Vittorio Emanuele III In questi giorni Vittorio Emanuele III è stato evocato a sproposito con le solite imputazioni: una sorta di “consegna” dell'Italia a Mussolini nel 1922; le leggi anti-ebraiche del 1938 e la cosiddetta “fuga di Pescara” del 9 settembre 1943. Proprio perché si tratta di ritornelli ripetuti sino alla noia, è giocoforza ripetere ancora una volta in estrema sintesi quanto effettivamente accadde. Il 29 ottobre 1922 il re affidò la formazione del governo a Benito Mussolini perché i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari costituzionali nella notte del 27-28 precedente chiesero l'ingresso dei fascisti nel governo e, assente da Roma Giolitti e scartato Salandra, non vi erano alternative. Vittorio Emanuele III dette uno sbocco parlamentare alla crisi politica in atto, come si conveniva a un monarca costituzionale. A metà novembre il nuovo governo, con tre soli ministri fascisti, ottenne la fiducia dalla larghissima maggioranza dal Parlamento. In Senato, di nomina regia e vitalizia, si contavano due soli “patres” iscritti al PNF. La Camera dei deputati era stata eletta a suffragio universale nel 1921: era dunque espressione dei cittadini. Il re non si condusse da despota ma da sovrano ligio alla legge fondamentale: lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Sardegna il 4 marzo 1848. Lo Statuto imponeva al re di emanare le leggi approvate dalle Camere. Fu il caso del dicembre 1938, quando il parlamento, quasi alla vigilia di Natale, approvò le famigerate leggi razziali. A differenza del capo di Stato attuale, il re non poteva né respingerle né promulgarle “con riserva”. Alcuni dicono che per impedirne la emanazione avrebbe dovuto abdicare. Se lo avesse fatto, avrebbe messo il figlio Umberto nella sua identica posizione. Se a sua volta questi avesse abdicato, la corona sarebbe passata a suo figlio, Vittorio Emanuele, principe di Napoli. Poiché questi aveva appena un anno e se tutti i principi del sangue avessero rinunciato ad accollarsi la responsabilità deposta dal re, per Statuto le Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un Reggente. Chi mai? Con ogni evidenza sarebbe stato Mussolini. Erano le stesse Camere che avevano appena approvato quelle leggi. Perciò Vittorio Emanuele III prese su di sé il peso della Storia, il “brut fardèl” della Corona come aveva sussurrato morente Vittorio Emanuele II al figlio Umberto . Solo a quel modo avrebbe potuto (come avvenne) arginarne le conseguenze con norme apposite, volte alla “discriminazione” dalla sua efficacia. La mattina del 9 settembre Vittorio Emanuele, i Reali, il capo del govenro Badoglio e il loro seguito lasciarono Roma, indifendibile dal preponderate assalto germanico, per raggiungere via Pescara/Ortona le Puglie, non raggiunte da anglo-americani ed ove i tedeschi venivano cacciati . L'auto del sovrano viaggiò con lo stendardo del Capo dello Stato bene in vista. Chi fugge lo fa di nascosto. Trasferendosi all'interno del territorio nazionale, il re salvò la continuità dello Stato. Dopo essere stato lui, nessun altro, a liquidare il regime mussoliniano e ad avviare i contatti per la resa, il 13 ottobre dichiarò guerra alla Germania. L'Italia fu cobelligerante a fianco delle Nazioni Unite e scampò la sorte toccata ai tedeschi, rimasti divisi per 45 anni, in parte sotto uno dei peggiori regimi comunisti d'Europa.
Il giudizio della Storia Poiché anelito supremo di Vittorio Emanuele III, agnostico, era “il nome”, cioè il ricordo che di sé avrebbe lasciato nella storia, il sovrano si affidò alla comprensione dei contemporanei (a cominciare dai cardinali elevati a “cugini del Re”, come Eugenio Pacelli, asceso un anno dopo alla Cattedra di San Pietro come Pio XII) e dei posteri, chiamati a conoscere i fatti per giudicare chi ne era stato protagonista. Proprio la morte di Vittorio Emanuele di Savoia è motivo di riflessione molto al di sopra delle increspature della quotidianità. Va infine ricordato, per completezza, che nel 1970, con le nozze contratte con Marina Ricolfi Doria senza previo assenso del Padre, egli rinunciò consapevolmente allo status di principe ereditario, perdendo il rango e il titolo e riducendosi a “cittadino privato”, come Umberto II gli aveva dettagliatamente anticipato nella lettera scrittagli il 25 gennaio 1960 a seguito delle notizie di stampa relative alle sue probabili nozze con Dominique Claudel. Umberto fu chiarissimo. Se si fosse sposato senza l’autorizzazione del capo della Real Casa, tutti i diritti dinastici spettantigli sarebbero passati immediatamente al nipote Amedeo, Duca d'Aosta. Il 18 luglio 1963, a fronte di un'intervista rilasciata da Vittorio Emanuele su sue imminenti nozze con Marina Ricolfi Doria, il re rinviò il figlio a quella stessa lettera. Era tutto quel che doveva dirgli. Quale 44° capo famiglia dopo 29 generazioni Umberto II non poteva modificare le leggi della Casa, precisate nel 1780-1882 da Vittorio Amedeo III, re di Sardegna (le si legge nell'insostituibile “Annuario della Nobiltà Italiana” diretto da Andrea Borella). Il figlio decise di procedere per la propria strada. Lo rivendicò trent'anni dopo in “Lampi di luce” (ed. Rizzoli), asserendo anche che in Italia la monarchia era ormai improponibile. Ma allora perché continuare a conferire ordini dinastici? Mezzo secolo dopo egli ritenne infine di abolire la successione al trono di maschio in maschio: l'immutabile “legge salica” in vigore da mille anni nella Casa sabauda. Grandi passi, “sed extra viam”... Queste ultime vicende ai più forse interessano meno. Sono però ineludibili sia per quanti si dicono monarchici sia per quanti studiano la storia della monarchia che ha condotto all'unificazione d'Italia.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Palazzo di Città di Racconigi, 19 settembre 1993. Scoprimento del busto bronzeo di Umberto II. Dal balcone sventola il Triclore Sabaudo, ammainato dalla torre del Quirinale il 13 giugno 1946, alla partenza di Umberto II da Roma per il Portogallo. Essa venne affidata da Vittorio Emanuele di Savoia ad Aldo A. Mola, che tenne il discorso commemorativo, ed a Gianni Seja, andati in “missione” a Vesenaz. Nel pomeriggio, a Torre San Giorgio venne intitolata la prima piazza in Italia a Umberto II “Re d'Italia”, malgrado il parere contrario di una deputazione storica.