Poesia a ricordo del Senatore di Fiume Riccardo Gigante trucidato a Castua il 3 maggio 1945 da un reparto di partigiani jugoslavi

Nella sera si ode l’eco ormai spento dei proiettili, il tonfo cupo di una granata e poi il silenzio. Il vento porta cenere da Santa Caterina. Il monte e il mare presto torneranno quieti. Le onde del Quarnaro disperdono dubbi di interi anni. La battaglia non ha più forma e non è nostra la vittoria. Scendono guardinghi da Drenova verso la città muta, sgomenta. Arrivano sotto la Torre Civica i partigiani slavi con la stella. Io che studiai la storia e le leggi, gli usi e i costumi, la lingua avita. Io Riccardo Gigante, la cui voce dichiarò forte e decisa la libertà italiana di Fiume solo, sconfitto guardo oltre i vetri delle finestre senza più speranza, né timore la città Olocausta. Come l’Eneo che scorre veloce incontro al mare dovrò presto cadere, ritornare al mistero che ci rende tutti uguali. La notte impallidisce ovunque La fredda morte mi cerca. Battono stivali stranieri le calli della Cittavecchia, solo il ferro fa eco al silenzio, voci nell’ombra si rincorrono. Io che desideravo essere soprattutto uomo di libri, di arte, di poesia, di storia e di civiltà, tra breve giacerò nell’umida e nuda terra. Andrò incontro al mio destino senza cercar la fuga Attenderò fermo nella penombra a chi vuol cancellare Fiume. Armi, divise, corone della nostra Patria da tempo ci hanno abbandonato. Il cerchio degli eventi si sta chiudendo Finalmente scopro la mia sorte, la forma che Dio sapeva dal principio. Nello specchio delle prime luci scorgo il mio volto eterno illuminarsi. Il calpestio dei passi, le ombre dei mitra Un urlo rivolto alle scale L’indice puntato sul mio petto. Vogliono me e altri fiumani. Mi spingono lungo le scale mani ruvide fin dove si apre la strada. Siamo forse una decina, fratelli in un’unica fede che il piombo e l’acciaio delle lame presto dilanieranno. Passano veloci i pochi attimi di vita camminiamo verso il colle di Castua Muti con i volti chini entriamo nella cittadina. Lungo le mura diroccate di una vecchia chiesa ci fermano rauche voci straniere. Rimaniamo fermi, in piedi, silenziosi. Brilla ancora nel cielo qualche rara stella. I nostri occhi fissi sui carnefici in attesa della fine. Un ultimo grido ancora si leva tra di noi a salutare l’Italia! Siamo ancora vivi. Ecco il primo colpo, ne segue un altro e un altro ancora! Ecco il duro piombo a squarciarmi il petto.. Ecco il freddo coltello conficcarsi nella gola. 

Marino Micich 

Fiume, 5 maggio 2018                          Roma febbraio 2018