75° del Referendum del '46.
Le Due Italie: Costituente e Referendum
Il 2-3 giugno 1946 circa 25 milioni di cittadini si recarono a 35.000 seggi per scegliere tra monarchia e repubblica ed eleggere 555 componenti dell'Assemblea Costituente. Gli aventi diritto al voto erano 28 milioni. Tre milioni, cioè più del 10%, non poterono votare. Un milione e mezzo erano ancora prigionieri di guerra o “dispersi” (l'Unione sovietica li restituì col contagocce), privati del diritto di voto per motivi politici o abitanti nella provincia di Bolzano e nella XII Circoscrizione (Venezia Giulia), escluse dal voto perché la loro sorte era incerta. A un altro milione e mezzo non fu consegnato il certificato elettorale. La legge assegnò alla Corte Suprema di Cassazione il compito di annunciare l'esito del voto, non di “proclamare” il vincitore. Il suo presidente, Giuseppe Pagano, magistrato di specchiata rettitudine, alle ore 18 del 10 giugno 1946 prese atto che i risultati non erano definitivi. Mancavano quelli di un centinaio di seggi. Il vantaggio della repubblica sulla monarchia era di quasi due milioni di preferenze e quindi appariva incolmabile, però bisognava attendere l'esito definitivo. Pertanto rinviò a un'adunanza successiva e chiese che fosse accertato “il numero complessivo degli elettori votanti e quello dei voti nulli”, sino a quel momento non conteggiati.
Per comprendere la portata della richiesta occorre ripercorrere sinteticamente l'operato degli Uffici elettorali circoscrizionali e di quello Centrale dal 3 al 9 giugno e nei giorni tra l'11 e il 18. Il computo dei voti, l'esame dei ricorsi e la ratifica delle operazioni di voto ebbero un corso separato rispetto agli eventi propriamente politici che si snodarono dalla chiusura dei seggi, durante gli scrutini e il controllo dei loro esiti da parte dell'Ufficio Elettorale Centrale e la pubblicazione dei risultati dell'Assemblea Costituente. Gli elettori votarono due diverse schede. Dalle urne uscirono due Italie differenti: da una parte, alla Costituente, vinsero nettamente i partiti dichiaratamente o prevalentemente repubblicani; dall'altra, al referendum, il vantaggio della Repubblica fu modesto, a lungo contestato ed è ancora discutibile. Però l'Italia era una sola e la Costituente doveva “tagliare l'abito” su un corpo definito e definitivo: la Repubblica. Il Paese visse giorni di tensione, che dal 13 si attenuò e non dette più luogo a scontri. Mostrò la sua maturità democratica, grazie ai milioni di cittadini monarchici che si adeguarono al Proclama di Umberto II. Il Re li aveva sciolti dal giuramento di fedeltà alla Corona ma non alla Patria di cui, come suo padre Vittorio Emanuele III, era stato e sarebbe rimasto strenuo difensore sino alla morte. Il suo motto era “Italia innanzi tutto”.
Grande frode?
Tra marzo e aprile il ministro dell'Interno Giuseppe Romita, come Pertini e Nenni più monarcofago che repubblicano, aveva diramato istruzioni minuziose su tempi e modi della comunicazione dei risultati. I prefetti, che ne dipendevano, ogni quattro ore dovevano comunicare a Roma l'affluenza alle urne e gli esiti degli scrutini, indicando via via i voti ottenuti dalla repubblica e dalla monarchia: solo quelli. La somma complessiva dei dati parziali ebbe un andamento altalenante, secondo la rapidità dello spoglio delle schede. Contro ogni previsione, la monarchia parve a lungo vincente. Nella notte fra il 4 e il 5 la repubblica passò in testa. Le edizioni mattutine di alcuni quotidiani anticiparono il suo vantaggio: due milioni di voti. Poche ore dopo Romita lo confermò in un'affollata conferenza stampa.
L'8 giugno, con i mezzi più rapidi, aerei inclusi, cominciarono ad affluire alla Corte Suprema di Cassazione sacchi e plichi non sempre ben sigillati “contenenti atti e documenti relativi al referendum sulla forma istituzionale”. La Corte, però, non ebbe affatto tempo e modo di esaminarli: era alle prese con i primi ricorsi contro la validità della consultazione, non per “cavilli” (come riduttivamente asserisce Antonio Carioti nella “Lettura” del “Corriere della Sera”) ma per motivi legali, cioè formali e sostanziali. La prima obiezione riguardò l'esclusione dal voto della XII Circoscrizione e della provincia di Bolzano. Secondo i ricorrenti (Edgardo Sogno, già comandante della formazione partigiana “Franchi” e poi Medaglia d'Oro al Valor Militare, ed Enzo Selvaggi per il Partito democratico italiano) la comunicazione dei risultati del referendum andava sospesa sino a quando non fossero stati consultati anche i loro elettori. La Corte sentenziò che quella esclusione e la sua sanatoria spettavano al potere politico, nel cui merito essa non aveva titolo di interferire. Respinse molti ricorsi perché esulavano dalle sue competenze, compresi quelli di cittadini che protestavano perché, arrivati ai seggi, scoprirono che qualcuno aveva già votato al loro posto, o perché non erano riusciti a ottenere il certificato elettorale dagli uffici competenti, oppure perché i seggi erano stati chiusi anzitempo o per i più svariati motivi affioranti dalla documentazione conservata nel fondo “Corte Suprema di Cassazione” all'Archivio Centrale dello Stato. Quelle carte rivelano centinaia e centinaia di brogli e una moltitudine di pasticci. Non ne emerge in alcun modo, tuttavia, la “grande frode” spesso imputata al ministro dell'Interno, Romita, accusato di aver gettato sulla bilancia della storia due milioni di schede artefatte a sostegno della repubblica o di aver segretamente manipolato le statistiche demografiche ed elettorali circoscrizione per circoscrizione. Operazioni di quella portata avrebbero richiesto la connivenza di una molteplicità di dirigenti apicali dello Stato, di chissà quanti presidenti dei 35.000 seggi e di buona parte dei quasi 300.000 scrutatori, molti dei quali erano monarchici. Un “segreto” noto a migliaia di persone lascia decine di migliaia di tracce. La vittoria della repubblica non fu decisa ai seggi ma in sede politica, cioè dalla delibera del governo, e giudiziaria, per la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione che ribadì il suo vantaggio per due milioni di voti anziché per soli 200.000 o 300.000, come di fatto era.
Per capire quando e come venne superato il dualismo dell'Italia emerso dalle urne occorre ripercorrere pazientemente il corso degli eventi. In vista della seduta del 10 giugno, quando il “segretario di udienza” doveva comunicare alla Corte gli esiti della consultazione, gli scritturali si affrettarono a “tirare le somme”. Nella concitazione afferrarono moduli prestampati e intitolarono a penna le caselle. La carta era preziosa; le operazioni di controllo ne avevano consumata in gran quantità; bisognava far fuoco con la legna rimasta. Al posto di “Numero dei votanti” e di “Voti attribuiti” vergarono due vistose lettere maiuscole “R” e “M” e aggiunsero a matita i dati pervenuti, circoscrizione per circoscrizione, poi li calcarono a inchiostro. Da quelle tabelle risulta che il numero delle sezioni dagli esiti mancanti era nettamente superiore a quello reso noto.
Il Presidente Pagano: rispettare la legge
Però la fase più affannata della verifica dei risultati elettorali iniziò quando ormai per la monarchia la partita era persa, dopo la proclamazione della Repubblica da parte del consiglio dei ministri (alle 0.15 di giovedì 13 giugno) e dopo la partenza di Umberto II da Ciampino (alle 16 e 10 dello stesso giorno). Tuttavia bisognava soddisfare la legittima richiesta del presidente Pagano: dare conto analiticamente di schede bianche, nulle, annullate e non assegnate. Nel frattempo uno stuolo di scribi doveva verificare la legittimità di circa 20.000 ricorsi contro gli esiti messi a verbale dai presidenti di seggio.Le due operazioni si svolsero parallelamente in un clima di concitazione crescente del personale addetto perché andavano inderogabilmente chiuse prima delle 18 di martedì 18 giugno, ultimo giorno consentito dal Dll istitutivo del referendum e per placare l'agitazione serpeggiante nel Paese. In Consiglio dei ministri venne persino calcolato quanti minuti i funzionari avessero a disposizione per passare al setaccio ricorsi e proteste. Poiché il personale dell'Ufficio elettorale centrale palesemente non bastava, il ministro di Grazia e Giustizia, Togliatti, mandò rinforzi fidati. Il “Visto”, la risposta sintetica (“respinto”) e l'applicazione del bollo della Corte (quello di Stato aveva ancora le insegne della Corona) azzerò alla svelta migliaia di contestazioni.
Contemporaneamente, sulla base di verifiche manifestamente incomplete, come emerge dal brogliaccio conservato all'Archivio Centrale dello Stato, i risultati parziali furono “avviati alle macchine calcolatrici”, con data, ora e firma di chi consegnava i moduli compilati e con giorno, ora e firma di chi riceveva in cambio le “strisciate”. Esse recano spunte e, in calce, somme a matita, non sempre esatte. Il computo avvenne senza alcun ordine (per esempio secondo la numerazione delle Circoscrizioni e quindi in sequenza territoriale) ma per singole province, via via che ne veniva completata a verifica. Si svolse fra il 14 e il 16 di giugno.
Che cosa si intende per “votante”?
Nel frattempo la Corte Suprema si accinse ad affrontare la questione più spinosa: rispondere ai giuristi che chiedevano di calcolare il quorum per stabilire la vittoria dell'una o altra forma di Stato sulla base del numero dei voti espressi, anziché, come era avvenuto il 10 giugno e nella comunicazione giornalistica, sulla scorta dei soli voti validi. Se quei giuristi avessero ricevuto ragione, il computo avrebbe dovuto tener conto delle schede bianche, nulle, contestate e non assegnate, annotate nei verbali di seggio ma fino a quel momento ignorate. Il vantaggio della repubblica sarebbe così risultato molto meno vistoso: da due milioni si sarebbe ridotto a circa 300.000 voti, cioè dieci per ciascuna delle oltre 35.000 sezioni elettorali. A quel punto era lecito chiedere il controllo delle schede. Però, scaltro e preveggente, in una seduta del Consiglio dei ministri prima ancora del 10 giugno Palmiro Togliatti sibilò che il controllo era impossibile perché “forse” erano già state distrutte. Scuotendo il capo, Riccardo Lombardi, del partito d'azione, una volta paventò che la proclamazione rischiava di essere confutata proprio dal computo finale dei voti.
Il procuratore generale della Corte Suprema, Massimo Pilotti, altro magistrato di indiscussi rigore e competenza, approntò la requisitoria: una quarantina di pagine dattiloscritte a spazio doppio, corrette a mano, conservate all'ACS. Prima della adunanza finale la Corte decise. Pilotti affermò che per votante si intende chi va al seggio, ritira la scheda, accede alla cabina, ne esce e la consegna al presidente che la depone nell'urna. Il Consigliere Enrico Colagrosso asserì invece che per votante s'intende solo ed esclusivamente colui che esprime chiaramente la sua volontà rispondendo al quesito referendario scegliendo l'una o l'altra forma. Le schede bianche o nulle o annullate non contavano perché “quod nullum est, nullum producit effectum”. Vaniloquio. Terminata l'esposizione, il Presidente Pagano aprì la votazione, a cominciare dal magistrato più giovane. Undici approvarono il parere di Colagrosso; per ultimo Pagano si schierò con altri cinque a favore del parere del Procuratore Generale. La “sentenza fu un “colpo di stato” contro la lingua italiana, in linea con la decisione del consiglio dei ministri che, violando la legge, cinque giorni prima aveva proclamato la repubblica mentre non era noto il risultato definitivo del referendum. Non rimase che aprire l'adunanza per ascoltare la recita dei voti registrati dagli Uffici elettorali circoscrizionali delle XXXI Circoscrizioni e la loro somma, enunciata infine dal presidente e messa a verbale. La repubblica superava la monarchia di due milioni di preferenze, ma aveva appena 12.700.000 su 28 milioni di aventi diritto: poco più del 45%. Nacque minoritaria. L'indomani, 19 giugno, fu pubblicato il n. 1 della Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (una sua prima bozza era stata approntata da giorni, ma non vide le stampe) che ne annunciò la nascita. A rigor di logica la “festa della repubblica” dovrebbe dunque cadere non il 2 giugno ma il 19: pericolosamente vicino al Solstizio d'Estate e al San Giovanni Battista caro alle logge che avevano concorso a fondare l'unità nazionale all'insegna fatta propria da Giuseppe Garibaldi: “Italia e Vittorio Emanuele”.
Oltre al “come”, il “perché”.
Al di là di ulteriori contestazioni, riserve e critiche in sede giuridica, politica e storiografica, la questione era stata chiusa non solo dalla prevaricazione del governo alle 0.15 del 13 giugno e dalla pronuncia della Corte, ma dalla partenza del Re dall'Italia: un Paese bisognoso di unità, di pace e di ricomposizione della memoria, in vista del Trattato di pace che rettificò il confine italo-francese e amputò traumaticamente quello italo-jugoslavo. In poche ore tutto cambiò.
Raggiunta la famiglia a Cintra, presso Cascais, Umberto II scrisse a Falcone Lucifero di essere rimasto vittima di un “trucco”. Lo documenta Giovanni Semerano in un aureo libretto fresco di stampa. Sentiva profonda nostalgia della Patria e bisogno di comprensione e di com-passione. Non ebbe né l'una né l'altra. A maggioranza dei votanti (non dei suoi componenti) la Costituente approvò la norma transitoria e finale che vietò il rientro e il soggiorno in Italia agli ex re di Savoia, alle loro consorti e ai loro “discendenti” maschi: in tal modo riconobbe la validità della legge salica e delle leggi interne della Casa già regnante, ma confuse diritto civile (“discendenti”) e successione al trono. Il 28 dicembre 1947, tre giorni prima che la Costituzione entrasse in vigore, Vittorio Emanuele III si congedò dalla vita terrena ad Alessandria d'Egitto. Ebbe funerali solenni voluti da re Farouk. Il feretro fu murato nel retroaltare della Chiesa di Santa Caterina. Umberto II morì a Ginevra il 18 marzo 1983. Venne deposto nell'abbazia di Altacomba, in Savoia, accanto agli Avi. Dal dicembre 2017 il “Re Soldato” riposa con la Regina Elena nel Santuario di Vicoforte. Umberto II attende... L'intreccio tra Casa Savoia e storia d'Italia merita di essere conosciuto “sine ira et studio”.
Aldo A. MOLA
DIDASCALIA: Solitudine e com-passione. Papa Giovanni Paolo II accoglie Umberto II, che lasciò alla Santa Sede la Sacra Sindone e i Collari dell'Annunziata all'Altare della Patria. Non portò con sé i Gioielli della Corona. Avutili in custodia Luigi Einaudi annotò: “a chi di dovere”. Un quesito ancor oggi senza risposta. E se lo Stato d'Italia ne facesse almeno “una tantum” l'esposizione?