Importanti riflessioni sull'attuale situazione del sistema scolastico. Editoriale del Giornale del Piemonte, a cura del Prof. Aldo A. Mola.
QUO VADIS ITALIA? SCUOLA VERA PER TUTTI
Scambio alla pari...
In cambio di qualche mascherina certificata, guanti usa e getta e di un “gel”(buono anche per i capelli) prestiamo al prof. avv. Conte Giuseppe, ai “suoi” ministri (come esso usa dire), in specie ad Azzolina Lucia e ai loro multiformi esperti, un Bignami di storia, un atlante d'Italia e una copia di “Pedagogia come scienza filosofica” di Giovanni Gentile (1913). I destinatari dell'omaggio perdoneranno se sono due volumi, usati, con segni a margine. Valutato all'estero massimo filosofo italiano del Novecento, Gentile fu assassinato a Firenze da un partigiano comunista il 15 aprile 1944. Le sue opere a lungo rimasero “all'indice”. Ancora oggi scriverne è “politicamente scorretto”. Però in questi tempi di forzata clandestinità Conte, Azzolina, Colao Vittorio (classe 1961: sulla soglia dei fatidici 60 anni e quindi prossimo a “scadenza”) et alii potrebbero utilmente sfogliare di nascosto quest'opera dalle idee antiche ma sempre attuali: la centralità della Scuola per uno Stato civile. Come nota a pie' di pagina suggeriamo quanto nel 1978 Philippe Ariès scrisse nell' Enciclopedia diretta per Einaudi da Ruggiero Romano: “La scolarizzazione della società risponde ai nuovi bisogni di una nuova famiglia, e se la sua estensione è stata in effetti favorita dai poteri e dai partiti politici, essa è stata resa possibile dalla complicità e dalla collaborazione delle famiglie”. Tragico ma vero. Andiamo per ordine.
Il primato della pedagogia e della didattica: scuola dell'anima”
Un tempo l'Italia vantò un primato nelle scienze dell'educazione. Fu culla dell'Umanesimo e del Rinascimento. In epoche di drammatico degrado ebbe protagonisti ordini religiosi specialmente dediti al recupero e all'istruzione di bambini e adolescenti. Tra i molti, meritano memore gratitudine San Filippo Neri e San Giuseppe Calasanzio (1557-1648), spagnolo d'origine e fondatore delle scuole popolari, breviter Scolopi (ne fu allievo Giosue Carducci, sempre sodale del suo maestro, “Cecco Frate” e di padre Barsanti, inventore del motore a scoppio). La chiesa tridentina era cattolica. Poi seguì la durissima lotta contro l' “Ordine di Loyola”. Ne ha scritto Gianpaolo Romanato nel succoso saggio “Gesuiti, guaranì ed emigranti nelle Riduzioni del Paraguay” (ed. Longo). Dopo l'Illuminismo, che gareggiò con le età precedenti proprio sul terreno delle scienze e delle arti, nell'Occidente euro-americano la Pedagogia visse secoli d'oro. I maggiori filosofi (Hegel, Fichte, Shelling, Krause:due su quattro sicuramente massoni...) posero al centro l'uomo. Si susseguirono pedagogisti celebri a partire, per esempio, dal “fratello” Pestalozzi. L'Ottocento fu il banco di prova dell'educazione, tutt'uno con la moltiplicazione degli Stati nazionali. Quelli già esistenti ribadirono i loro primati. La Francia camminò nel solco di Napoleone I. Nei “collegi” della Gran Bretagna a suon di vergate venne forgiata la dirigenza dell'Impero vittoriano. Gli Stati nuovi nacquero da progetti educativi propri. Fra questi spiccò l'Italia di Antonio Rosmini, Terenzio Mamiani e del lungo treno di politici impegnati a giustificare l'unificazione politica in nome del “Progetto Italia”. I dibattiti parlamentari su scuola, istruzione ed educazione furono sempre di livello eccelso. Michele Coppino, otto volte ministro dell'Istruzione nell'arco di vent'anni e promotore dell'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, interrogò l'Aula sul dilemma angosciante: la Scuola ha il dovere di “istruire” (grammatica, matematica, storia, geografia, potare e innestare gli alberi, igiene...); ma ha anche il diritto di “educare”, di imporre un “abito” al futuro cittadino? Non era un dubbio da poco mentre gli Stati si armavano, si studiavano in cagnesco, si preparavano a scagliarsi gli uni contro gli altri in duello mortale, come poi avvenne nella guerra dei Trent'Anni del 1914-1945, conflitto tra opposte “concezioni del mondo”, razzismo incluso (che non fu un'invenzione di Hitler ma covava da più di un secolo). Gentile a parte, la Nuova Italia non ebbe né “filosofi” né “pedagogisti” di fama universale. Nulla di paragonabile alla nutrita serie degli idealisti tedeschi e di Herbart, dei positivisti francesi (che iniziarono come revisionisti del cristianesimo con Saint-Simon e finirono addobbati da chierichetti in libera uscita, come Bartolomeo Prospero Enfantin). Ebbe però una schiera di persone serie come Gino Capponi, Raffaello Lambruschini e tanti uomini e donne che unirono pensiero e azione: più didattica, meno astruserie, più cura dei bambini quali sono. Nel loro novero spiccò Maria Montessori. Il fulcro del dibattito fu e rimase il rapporto tra il bambino e il futuro cittadino. Il repertorio dei ministri della Pubblica istruzione della Terza Italia indica il livello culturale dei suoi titolari. Si confrontavano con i sistemi educativi degli altri Stati e con l'altra riva del Tevere: gli scrittori della “Civiltà cattolica” e l'Università Cattolica fondata da padre Agostino Gemelli (1878-1959), nato in ambiente massonico e anticlericale, laureato in medicina a Pavia, trascorso al cattolicesimo, studioso delle avanguardie di psicoanalisi e psicologia sociale fiorenti negli Stati Uniti d'America.
Da pedagogia e didattica ad “amministrazione”
Che cosa rimane di quel retaggio? Nel dopoguerra la Scuola italiana si affrettò a tradurre Dewey, rincorse Piaget e brancolò nel bosco incantato di modelli stranieri, persino di ispirazione sovietica. Lo ricorda Maria Corda Costa in un nitido panorama della pedagogia nel Novecento. D'altronde quale progetto pedagogico unitario potevano esprimere i governi del Comitato di liberazione nazionale che andavano da Benedetto Croce a Palmiro Togliatti? Chi oggi retoricamente dice che bisogna “tornare allo spirito del 1945” dimentica che all'epoca le parti in conflitto non raggiunsero alcuna sintesi superiore, ma solo un armistizio. Eliminata la monarchia, la Costituente nacque dal rinvio del “regolamento dei conti” da parte degli opposti fronti. Dopo i successori di Gentile (Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Giuseppe Bottai: tutti e tre massoni) all'Istruzione si susseguirono Leonardo Severi, Giovanni Cuomo, Guido De Ruggiero, Vincenzo Arangio Ruiz ed Enrico Molè. L'Istruzione ebbe ministri pensosi ma presto imboccò la china discendente. Le ultime leggi organiche sulla Scuola italiana risalgono agli Anni Settanta del Novecento: hanno mezzo secolo: norme sugli edifici e sull'amministrazione, non sul dilemma Istruzione/Educazione. La “politica” rinunciò tacitamente a enunciare un Progetto. Dalla pedagogia e dalla didattica la Scuola ripiegò sulla mera “amministrazione”. Gestì stipendi. Uno dei suoi titolari, che ambiva a un dicastero “di spesa”, lamentò (non solo in privato) di essere stato nominato “ministro dei bidelli”. Del resto, una scorsa all’elenco dei titolari dell'Istruzione la dice tutta sulla possibilità (non la capacità: è altra cosa) che essi potessero varare e realizzare una “politica”. Dopo il quinquennio di Guido Gonella e i due anni di Antonio Segni, a Viale Trastevere si susseguirono persone anche degne (come Franca Falcucci e Sergio Mattarella), ma solo per breve durata: nove diversi ministri tra il 1953 e il 1960. Dal 1968 al 2001 si alternarono 22 titolari, i più per pochi mesi: appena il tempo di capire quale disastro dovessero governare.
La mercificazione della “missione”
La sindacalizzazione del personale docente ridusse la missione docente a mestiere, pessimamente remunerato. Imperversò l'assillo di ridurre il numero degli istituti scolastici in base alle classi e agli iscritti. Poi i “presidi” furono classificati “dirigenti”. In cambio di propine mortificanti molti vennero gravati della responsabilità di scuole disperse sul territorio, dai requisiti sempre più estranei alla loro competenza specifica. L'Istruzione decadde a variabile dipendente dalle “circostanze”. Non sorprende che dallo scorso febbraio in Italia siano state chiuse di schianto le scuole di ogni ordine e grado, come bar, ristoranti, rivendite di articoli non essenziali, e che sia esplosa la retorica dell'insegnamento “a distanza”. Una televisione, un computer, un cellulare: un “progetto” sessant'anni orsono messo a punto dall'ONU per “alfabetizzare” il Quinto Mondo con i mezzi dell'epoca. E con risultati ben noti. Vedremo nel tempo quelli del metodo Conte-Colao-Azzolina. Nel 1975 Igino Vergnano, un professore torinese di talento, autore di un robusto manuale di educazione civica, pubblicò opere di vasto respiro per la nuova scuola. Tra le molte spicca “Il problema della società educativa. Atlante bibliografico di scienze dell'educazione”, aperto con una citazione di Dewey: “Quello che i genitori migliori e i più saggi desiderano per il proprio figlio, la comunità deve desiderare per i suoi ragazzi”. Ma questa “comunità italiana” che cosa vuole davvero oggi per i suoi ragazzi? Bastano insegnamenti “a distanza” e arruolamento di “baby sitter” per consentire ai genitori di lavorare senza ricorrere ai mortificanti “congedi parentali”? Manifestamente succubo dell'emergenza sanitaria il governo mira a ghettizzare gli “anziani”e ignora i “bambini”. Ma ha un'idea dell'Italia, dei suoi cittadini e dei loro diritti non negoziabili? Quale risposta dà al dovere dell'Istruzione? Da qui a settembre mancano appena quattro mesi. Di sicuro le sedi scolastiche non saranno affatto in grado di assicurare lezioni “regolari” (cioè “a norma covid-19”) a otto milioni di scolari e di studenti e a un milione di docenti e “amministrativi”, con tanti saluti all'“itala gente da le molte vite” proprio nel 150° di Porta Pia. Questa Repubblica non potrà addossare l'opacità del suo governo all'età monarchica. E' affar suo. I confini interni dell'Italia A Conte va donato anche un atlante d'Italia, magari con corredo di carte dell'Istituto Geografico Militare di Firenze, in modo che ne veda con chiarezza i particolari. Lo esortiamo a farne copie per i tanti “esperti” presenti e futuri, da lui chiamati a dar consigli su cose che dimostrano di non conoscere, a cominciare dai confini tra regioni, province, comuni. Premesso che le demarcazioni delle regioni attuali non ricalcano quelle degli Stati preunitari va osservato che in molti casi esse hanno radici in eventi storici remoti, oggi ignoti ai più, e pertanto di rado rispondono a criteri oggettivi, non facilmente decifrabili. Dall'età di Augusto, quando l'Italia venne ripartita in undici regioni (Sicilia, Sardegna e Corsica, da due secoli e mezzo francese, non erano nel novero), alla nascita del Regno d'Italia (1861) e al suo completamento (1918-1924) i confini regionali sono mutati. Per esempio, il Vecchio Piemonte si fermava a Vercelli. Le conquiste sabaude del Settecento (Alessandria, Novara...) hanno creato un “Piemonte” molto diverso dall'originario. Dal 1861 le ripartizioni in gran parte sopravvissero solo perché nel Regno d'Italia le “regioni” erano solo “dipartimenti”, distinti per meri fini statistici, senza alcuna ricaduta sulla giurisdizione e quindi senza vincoli per i loro abitanti. L'Italia era Una, Libera e Forte. In alcuni casi i confini furono rettificati ma senza alcun dramma. Senza perderci nei dettagli della storia dei confini amministrativi, la rete autostradale, giusto orgoglio del lungo e da decenni tramontato “miracolo italiano”, ignorò le demarcazioni regionali. Doveva servire agli italiani, nonché al traffico internazionale e poi intercontinentale. Tra le conferme, valga la Parma-La Spezia che parte dall'Emilia, attraversa un tratto della Toscana e sfocia in Liguria, con buona pace per i divieti immaginati dal dottor Colao Vittorio e dai suoi sedici compagni di task force, contrari agli spostamenti interregionali. Al momento urge invece ripristinare proprio la libertà di circolazione dei cittadini tra il Piemonte e le regioni confinanti. Ed è vitale, in particolare, consentire gli spostamenti tra le province meridionali piemontesi e la Liguria. Piaccia o meno, quest’ultima si avviò alla sua vera unità solo dal 1814, con l'annessione al Piemonte sabaudo. È stata largamente ripagata con la rete di infrastrutture che di due regioni hanno fatto un unicum. Valgano d'esempio la ferrovia Torino-Alessandria-Genova voluta da Cavour; la linea CuneoVentimiglia-Nizza quasi completata in età giolittiana; la “camionabile” Serravalle Scrivia-Genova e l'“autostrada” Ceva-Savona: altrettante tappe della crescita civile ed economica dell'intera area. Tra Genova e Ovada, cioè dal Mar Ligure al Piemonte, vi sono appena 40 chilometri. Non per caso l'ampia plaga tra Alessandria e Asti è la piattaforma logistica del porto di Genova. Che senso ha vietare la circolazione tra due regioni che a ben vedere sono una sola? Lo stesso vale tra Piemonte e Lombardia, del Lombardo-Veneto e via via scorrendo lungo la penisola. Ritardare, ostacolare o, addirittura, punire la circolazione dei cittadini tra regioni diverse non significa solo conculcare una libertà costituzionalmente garantita: vuol dire andare contro la Storia, intralciare l'economia e penalizzare gli sforzi compiuti nei secoli per promuovere l'integrazione del tra l'Italia e i paesi confinanti. Ed è un ostacolo alla “ripresa” di cui l'Italia ha urgenza. Il Paese intero deve guardare al di là dell'emergenza e di farsi sentire a Roma come a Bruxelles.
Il diavolo si nasconde nei dettagli... delle “seconde case”
Per settembre o a ottobre si annunciano elezioni regionali e comunali, con il consueto abusivo esproprio degli edifici scolastici a beneficio dei seggi (dai quali non sempre vengono eletti i più saggi). È ormai chiaro a tutti che fino ad allora lo Stato, abdicando ai propri doveri, “scaricherà” ancora sulle famiglie gran parte del “fardello” dell'istruzione. Occorre dunque affrontare subito e in termini pratici, non ideologici e di stucchevoli schieramenti governo/opposizione, l'utilizzo delle “seconde case”, ovunque esse si trovino, da parte di famiglie che da due mesi vivono stipate in abituri spesso del tutto inadeguati al “soggiorno coatto” di cinque-sei persone in 50-60 metri quadri, spesso privi di balconi e di “doppia aria”. Francamente non si vede perché, chi può farlo, non possa trasferirsi in tutta o in parte (sono affari privati) dalla “abitazione principale” in altra casa di proprietà, grande o piccola sia, tanto più che per le “seconde case”, avite o frutto di sudati risparmi, i proprietari pagano tributi salati. Non è questione di alta politica, di diritti dell'uomo e del cittadino e neppure della “Critica della ragion pratica” di Immanuel Kant (ad Azzolina Lucia ne suggeriamo l'edizione tradotta dal cuneese Alberto Bosi per la Utet, ed. 1993), ma di elementare buon senso: quello che impone di restituire ai cittadini la libertà di passeggiare per i clivi e per i colli, sulle spiagge e dove altro piaccia loro andare senza infastidire nessuno né necessariamente ammucchiarsi (o assembrarsi, che dir si voglia). L’Italia è con l'acqua alla gola. Dalla retorica parolaia è ora di passare al pragmatismo del “fare le cose”, sull'esempio di quanto è già avvenuto negli altri Paesi europei non meno colpiti da Covid-19: dalla Svezia all'Olanda e alla Germania, dalla Francia alla Spagna, che apre le scuole, riattiva la sua formidabile macchina del turismo e ancora una volta prevarrà sul Bel Paese. Il tempo stringe. In assenza di un Progetto politico e mentre tira una brutta aria di “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato...”, le Istituzioni (tutte, dal cacumine a ogni comune) lascino ai cittadini l'esercizio delle libertà costituzionali senza ulteriori intralci. Essi sono l'unico vero “terzo settore” dell'Italia odierna; pagano di tasca propria e soffrono sulla propria pelle, mentre il tessuto socioeconomico si slabbra e centinaia di migliaia di piccole imprese rimarranno in ginocchio. Nel frattempo si impone una domanda, semplice ma centrale: quale futuro assicura l'Italia odierna ai propri cittadini minorenni? Al momento sono i “grandi dimenticati”. Anziché assillare gli anziani con tutele pelose, il governo si occupi seriamente di bambini e ragazzi, da restituire alla scuola vera, alla vita, per non avvizzirli e intristirli precocemente, come purtroppo a volte accadde nei secoli andati.
Aldo A. MOLA