Editoriale di Aldo A. Mola, pubblicato su “Il Giornale del Piemonte e della Liguria” di domenica 15 agosto 2021, pagg. 1 e 11.
San Napoleone a noleggio e il re rientra a Torino sul suo ponte di pietra
Dal 15 agosto 1806 al 1814 il giorno di Ferragosto i cittadini dell'Impero dei francesi (Piemonte e Liguria compresi) festeggiarono Santa Maria Assunta, il compleanno deIl'Imperatore e il suo santo patrono, inventato dal Cardinale Caprara. Crollato l'Impero, San Napoleone venne cancellato dal calendario. Ei fu, come altri santi “a noleggio”.
Il 20 maggio 1814 Vittorio Emanuele I di Savoia (1759-1824), re di Sardegna dal 1802, rientrò in Torino transitando sul “ponte di pietra”, che poi ne prese il nome, edificato dal governo francese. Abolì i codici napoleonici e ripristinò le leggi vigenti prima dell'annessione del Piemonte alla Francia. Lo ricorda Francesca Roccia nel bene illustrato panorama Napoleone a Torino e in Piemonte (ed. del Capricorno). Poco dopo, il 10 giugno, il re emanò l'editto “portante varie provvidenze per la proibizione delle congreghe, ed adunanze secrete, massime di quelle dei così detti liberi muratori, per reprimere i delitti, e per impedire la vendita, porto e ritenzione delle armi proibite, dei libri, e stampe, e li giuochi d'azzardo” e altro ancora. Massoni e criminali comuni furono messi in uno stesso mazzo. L'editto ricalcò il divieto delle logge decretato da Vittorio Amedeo III il 20 maggio 1794. Nihil sub sole novi? Niente affatto. Per punirli Vittorio Emanuele I decretò pene durissime: “la prima volta la perdita dell'impiego per coloro che ne fossero provvisti; l'inabilitazione ad esercirne qualunque altro, oltre la pena di due anni di carcere, e quella del carcere per anni cinque per tutti gli altri; li recidivi poi di qualunque sorta saranno puniti colla pena del carcere per anni dieci, oltre la confiscazione in tutti i casi degl'effetti, denari o mobili, che si trovassero nelle sale delle adunanze”. Ai delatori, coperti da segreto, promise un premio di 500 lire, una fortuna per l'epoca. “Governatori, comandanti ,Vicario di politica e di pulizia, prefetti e giusdicenti” furono incitati a “invigilare sovra tali adunanze, fare improvvise visite, e perquisizioni ne' luoghi sospetti, per sorprendere, e di procedere sollecitamente contro simili delinquenti”. Lo stesso 10 giugno 1814 Vittorio Emanuele I abolì la “tortura d'ogni genere” quale mezzo per l'accertamento della verità e concesse un ampio indulto, dal quale furono esclusi i condannati per delitti gravi, analiticamente elencati. Non fece cenno ai membri di società segrete. A differenza di certe severine leggi di recente conio, il decreto contro i liberi muratori non ebbe efficacia retroattiva, in forza del principio nullum crimen sine lege. Per dissuadere dall'organizzare logge bastava la minaccia del carcere, dal regime duramente afflittivo.
Alla ricerca dei Fratelli perduti: religiosi e “moderati”
Restaurato su trono degli avi, senza attendere la conclusione del Congresso di Vienna e prima ancora di aderire alla Santa Alleanza (eventi dell'anno successivo), per quel re i nemici più pericolosi del trono e dell'altare erano i massoni. Da annientare. Ma ve n'erano stati anche a Torino e in Piemonte nell'età franco-napoleonica? E ce n'erano ancora? Il pregevole saggio di Francesca Roccia non ne scrive neanche una parola, mentre Torino: il grande libro della città (2004), sempre della Capricorno, ne pubblicò l'essenziale. Il soggetto è stato arato da studiosi di valore che hanno pubblicato documenti, elenchi di logge e liste di iniziati dell'area liguro-piemontese tra Sette e Ottocento. Bastino, tra i molti, i nomi di Pericle Maruzzi (si schermì sotto lo pseudonimo M. P. Azzuri), Renato Soriga, Ed Stolper, Luciano Tamburini e l'insuperato François Collaveri. Mancano, è vero, un atlante aggiornato delle logge e un repertorio esauriente dei loro affiliati, ma il meritorio volume di Vittorio Gnocchini Logge e Massoni in Piemonte e Valle d'Aosta pubblicato a Cuneo nel 2008 quale supplemento del “Giornale del Piemonte” e prefazione del suo direttore di allora, Fulvio Basteris, impedisce di chiudere gli occhi dinnanzi alla realtà. Non lo fece, appunto, Vittorio Emanuele I. Aveva le sue brave ragioni? Sulla fine del Settecento la monarchia “consultiva” (somma del re, cortigiani e uomini di sua fiducia) era esausta. I suoi turibolari avevano reciso i rapporti con le avanguardie culturali interne ed europee. Erano ripiegati nella difesa strenua dello status quo, mentre, come scrisse Beniamino Manzone (Bra, 1857-1909), risorgimentista illustre e massone, il “mondo” stava rapidamente mutando sotto impulso di scienze e arti, sistemi di produzione e riorganizzazione della civitas hominis.
Nelle due pagine dedicate alla “massoneria napoleonica” nel volume 7° della Storia di Torino. Da capitale politica a capitale industriale,1864-1915 (ed. Einaudi) Augusto Comba ventila rapporti occulti tra massoni piemontesi e Illuminati di Baviera e ipotizza legami carsici di lungo periodo tra fondatori dell'Accademia delle Scienze (la cui iniziazione non è affatto documentata: è il caso di Giuseppe Angelo Saluzzo, conte di Monesiglio) e dirigenza colta di età franco-napoleonica. Però, insistere sulla segretezza della “catena di unione” non giova affatto a rivendicare il “diritto a un velo di riservatezza, nei limiti di norme generali di garanzia”. Anzi, reca acqua a quanti ritengono che le logge abbiano sempre funto e servano da copertura di trame occulte, politiche e criminali, e siano quindi “intrinsecamente segrete” (copyright di Rosy Bindi) e pertanto vadano sic et simpliciter vietate, in nome della “trasparenza” e di una “democrazia” che esclude nicchie di riservatezza e si traduce in assolutismo occhiuto.
Una premessa s'impone. I formidabili saggi di René Le Forestier su La Massoneria Templare e Occultista nei secoli XVIII e XIX e di Maruzzi su La Stretta Osservanza Templare e il Regime Scozzese Rettificato in Italia nel secolo XVIII (ed. Atanor) hanno chiuso da decenni uno dei “tormentoni” sulla massoneria: se, al di là delle “scomuniche” comminate dai papi Clemente XII (1738) e Benedetto XIV (1751), la massoneria fosse a-cattolica, anti-cattolica o persino antireligiosa. Se davvero così fosse stato rimarrebbe inspiegabile la lunga e vasta presenza tra le colonne dei Templi liberomuratori di cattolici praticanti quali Gabriele Asinari di Bernezzo (Eques a turre aurea), gran priore della Stretta Osservanza in Italia, e Joseph de Maistre (1753-1821, Eques a floribus), il celebre savoiardo rievocato nel bicentenario della morte con la riedizione di suoi classici ma con circospetto oblio del memoriale sulla Massoneria da lui inviato al duca di Brunswich in vista del Supremo Convento convocato a Wilhelmsbad nel 1782 per verificare l'effettiva ascendenza templare della libera Muratoria moderna, dopo che Michel de Ramsay nel Discorso del 1737 l'aveva connessa alle “Crociate”.
Una seconda considerazione va aggiunta. Sino al 1792 in Italia nessuno aveva collegato la Rivoluzione francese con la massoneria. Lo fece in Francia l'ecclesiastico François Lefranc in un opuscolo del 1791 subito tradotto in Italia: Il velo alzato pe' curiosi o sia il segreto della rivoluzione di Francia manifestato col mezzo della setta de' Liberi Muratori. Lefranc fu vittima delle “stragi di Parigi”, come centinaia di ecclesiastici, tra i quali Jean-Marie Gallot, massone confesso ma proclamato beato da Pio XII. L'avvento della Repubblica in Francia (settembre 1792) e l'offensiva contro il regno di Sardegna suscitarono allarme: le “conventicole” potevano nascondere al loro interno agenti della rivoluzione. Secondo Lefranc all'origine della Bufera non erano i Sociniani, discepoli di antichi eretici, ma “i Deisti ed i cosi detti filosofi ed increduli moderni”, cioè i “liberi muratori, i quali hanno per massima di restare occulti, e spargono un mistero impenetrabile in tutte le loro gesta”, una setta “eretta contro le leggi della chiesa e dello stato”, erede degli Anabattisti, “condannati alla pena di morte anche negli stati eretici”. Occorreva dunque “aprire gli occhi” e recidere “una volta quest'Idra infernale”, come ripeté Lo Svegliatojo dei re.
Tollerate e talora protette dai sovrani (come ricordò l'abate massone Antonio Jerocades nel poema Iramo, ripubblicato dal rimpianto Guglielmo Adilardi ), quando Luigi XVI di Borbone fu ghigliottinato (col voto favorevole del duca Luigi Filippo d'Orléans, detto “Egalité”, dal 1771 gran maestro del Grande Oriente di Francia) nei diversi stati italiani le logge furono proibite sotto gravissime pene: una misura profilattica decisa per motivi politici, dunque, senza prove concrete di loro effettiva collusione con la “rivoluzione”. Panzi, poprio nel 1789 venne costituita una gran loggia “du Mont Blanc”, aristocratica e conservatrice.
Braccata senza un preciso capo d'accusa e quindi impossibilitata a difendersi, la miriade di nobili (molti ufficiali in logge castrensi), accademici, borghesi e artisti tacquero confidando non affiorasse traccia della loro “colpa”. Nessuno osservò che in Francia il Terrore aveva spazzato via proprio la crema dei massoni, come il filosofo illuminista Condorcet, e vietato le logge, mentre alla guida della Vandea spiccavano liberi muratori foraggiati dalla Gran Bretagna e apprezzati dal “fratello” Edmund Burke, critico severo del giacobinismo, e che nel Misogallo il massone Vittorio Alfieri aveva marchiato a fuoco la plebaglia rivoluzionaria.
Solo anni dopo la liquidazione di Massimiliano Robespierre, Saint-Just e dei fautori della legge “sui sospetti” che autorizzò l'esecuzione sommaria degli avversari veri o presunti del Terrore, le logge tornarono ad animarsi con la tutela del Direttorio e specialmente di Cambacérès.
All'indomani del colpo di stato attuato da Napoleone (18 brumaio 1799) le “officine” massoniche divennero il vivaio della nuova dirigenza ed esportarono i loro ideali nelle terre via via occupate. Fu il caso del Piemonte e della Liguria, ove dall'inizio dell'Ottocento gli ateliers dei francs-maçons divennero luogo d'incontro tra i francesi e i notabili locali. Costretti a mutare varie volte casacca nel volgere di pochi anni (da sabaudi a giacobineggianti, da reazionari a bonapartisti) anche molti patrizi scommisero sul Nuovo Ordine.
La rete e il ruolo delle logge: scienziati, politici, sacerdoti
Però, nel passaggio dal Consolato all'Impero Napoleone, che aveva trascorsi da cospiratore, tramite il governatore Jacques-François de Boussay, barone di Menou (che in Egitto si era convertito all'islam) sciolse le logge sospettate di infiltrazioni giacobine e ne autorizzò la rinascita previa drastica epurazione. Le “patenti” di quelle via via attivate nelle regioni direttamente annesse all'Impero (anzitutto Piemonte e Liguria) furono rilasciate dal Grande Oriente di Francia. Un repertorio parziale di quelle sorte in Piemonte tra il 1801 e il 1812 ne conta una ventina: a Torino, Alessandria, Asti, Cuneo, Vercelli e in centri minori quali Casale Monferrato, Acqui Terne, Novi Ligure, Saluzzo, Ivrea e Pinerolo. Avevano nomi inneggianti a Réunion, Heureuse Union, Sincère et Parfaite Union, Parfaite Amitié, Coeurs Unis, Amis de Napoléon le Grand.
Tra le molte spiccano le logge torinesi Amitié éternelle (1803), Amis Fidèles de la Heureuse Journée (insediata per celebrare la nascita di “Napoleone II”), Bienfaisance (stesso nome di logge di Alessandria e di Asti) e Vérité. Ne furono componenti prefetti, sindaci, alti ufficiali, notabili, scienziati, accademici, aristocratici iniziati prima ancora della Rivoluzione e borghesi bene inseriti nelle maglie del nuovo potere.
Lo stesso vale per la Réunion di Savigliano, all'epoca sottoprefettura. In Libertà e modernizzazione. Massoni in Italia nell'età napoleonica (Atti di un convegno internazionale del 1995, aperto da monsignor Luigi Bettazzi) Luciano Tamburini ne pubblicò il piedilista completo: centinaia di nomi tra i quai spiccano Jean-François Paschetta, prete romano, Etienne Marchetti, ex cappuccino, gli alessandrini Urbain e Joseph Rattazzi (il secondo è il padre di Urbano, due volte presidente del Consiglio dei ministri della Nuova Italia), uno stuolo di militari, magistrati, docenti, professionisti e, ciò che più merita attenzione, parecchi maires, accompagnati dai funzionari di spicco dei loro comuni. La loggia era in corrispondenza fraterna con quelle dell'intero Piemonte, con fitto scambio di visite anche di massoni d'Oltralpe.
Suo regista e stratega fu il medico Carlo Matteo Capelli (1765-1831), avviato quattordicenne al sacerdozio, ma laureato ventiduenne in medicina grazie alla protezione della contessa di Scarnafigi. Ne ha scritto Paolo Gerbaldo in Prima del Risorgimento. Carlo Matteo Capelli nel Piemonte da Napoleone a Carlo Alberto: storia, società, economia (ed. Morlacchi). Impegnato in delicate e prestigiose missioni in Germania e in Francia, poi fervido bonapartista, dal 1807 membro del Corpo Legislativo a Parigi (ove fu a contatto con Fustier, fiduciario del GOF), dopo la Restaurazione sabauda Capellli divenne docente di medicina all'Università di Torino e fu decorato da Luigi XVIII di Francia. Infine venne nominato direttore dell'orto botanico della città di Torino, la cui dirigenza ostentava di averne scordato l'impegno massonico notorio: pari a quello della maggior parte dei notabili dell'epoca. Valeva per la capitale (ove si erano susseguiti in loggia il nonno e il padre di Camillo Benso di Cavour) come per i capoluoghi di dipartimento. A Cuneo, per esempio, della “Parfaite Unione” dal dicembre 1801 facevano parte Sebastiano Grandis, Carlo Falletti di Villafalletto, Carlo Trompeo (capodivisione della prefettura), il dronerese Domenico Blanchi, pittori, musicisti e due preti: il narzolino André Dho e il peveragnese Jean Fea. D'altronde Pio VII e “Napoleone di tutti i riti” avevano appena sottoscritto il Concordato e la scomunica dei massoni sembrava archiviata per sempre. Dell'altra loggia cuneese, la Heureuse Union (1805), erano membri magistrati, alti ufficiali, il cancelliere della corte criminale Joachim Levi, il pittore Luigi Pellegrino e il celebre professore di musica Bartolomeo Bruni, residente a Parigi ma orgogliosamente tra le colonne della città che gli ha intitolato la sua prestigiosa orchestra, forse ignara che il suo dedicatario cingeva ai fianchi il grembiulino massonico.
Gli elenchi delle logge liguro-piemontesi e dei loro iniziati/affiliati sono conservati alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Nel bicentenario della fondazione del Supremo Consiglio di Rito scozzese antico e accettato “en Italie” (istituito a Parigi il 16 marzo 1805) e del Grande Oriente d'Italia (Milano, 20 giugno), con giurisdizione sul solo regno italico (il Lombardo-Veneto e quanto via via gli venne aggregato) mancò lo sforzo necessario per mettere a segno un'opera sistematica sulla massoneria di età franco-napoleonica nella penisola, in tutte le sue complesse articolazioni. Ne sarebbe emerso in modo inoppugnabile che le logge non furono solo centri di aggregazione della dirigenza politico-culturale ma anche laboratorio del rinnovamento civile attuato in appena tre lustri e lasciato in eredità ai regimi sorti con la Restaurazione, quando le officine si sciolsero ancor prima di essere vietate, ma i loro apprendisti, compagni, maestri e alti gradi dei riti rimasero al loro posto, come Ignazio Bassi, ex sacerdote, sovrano principe Rosa+Croce e direttore del giardino botanico di Cuneo, raggiunto nella loggia Les Adelphes Nomophiles di Saluzzo dal confratello e già citato don Paschetta e dal prete secolare Jean Maero di Cardè, iniziato alla Parfaite Amitié di Pinerolo.
Per un passo avanti storiografico
A nessuno verrebbe in mente di scrivere un profilo dell'Italia contemporanea ignorando i “laboratori” culturali che funsero da centri di formazione della dirigenza partitico-sindacale e delle istituzioni basilari dello Stato, inclusi burocrati ministeriali e militari. Per l'identico motivo tempo è venuto di “alzare il velo pe' curiosi” che vogliano cogliere il filo conduttore della storia, senza cedere a visioni scandalistiche su Poteri Forti o arricciare le narici per “l'odore stantio della massoneria” esalante dal potere finanziario e bancario, lamentato dal solitamente pacato Ferruccio De Bortoli.
Tempo è venuto di passare dalla leggenda alla storia. Sprecato il bicentenario del 1805 va messo a frutto quello della morte di Napoleone il Grande e dei moti costituzionali del 1821.
Aldo A. MOLA
DIDASCALIA: Jean-Baptiste Bernadotte (Pau, 1763-Stoccolma, 1844), maresciallo dell'Impero napoleonico, principe di Pontecorvo, scelto dagli svedesi quale successore di Carlo XIII, alla cui morte divenne re col nome di Carlo XIV e gran maestro della massoneria scandinava. Nell'età del massone Georges Washington e di Simon Bolivar (affiliato a una loggia lautarina), l'“iniziazione” introduceva a una catena di unione mondiale per il progresso civile e dei diritti dell'uomo e del cittadino. Marito di Désirée Clary e cognato di Giuseppe Bonaparte, gran maestro del Grande Oriente di Napoli e poi di Spagna, con-cognato di Napoleone I, è capostipite della dinastia felicemente regnante a Stoccolma.