Ma Putin è malato? Allora è malata la Russia? Il figlio di Joe Biden è corrotto? Suo babbo lo sapeva? Chi ha davvero il comando degli Stati che dominano il mondo? Il “Capo” o chi lo ha issato al potere? Boiardi? Pretoriani? L'interrogativo assillante oggi è: per quale“Idea” si possono impoverire i cittadini e imporre “sacrifici” anche irreversibili? Nel Novecento l'Italia ha già dato. Aveva una macchina efficiente, un solo autista, un'Officina di prima qualità e una propria inconfondibile identità: lo Stato. Editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria del 3 aprile 2022.
Due chiacchiere in carrozza per fare un po' d'Italia
Con il trattato del 24 marzo 1860 il regno di Sardegna approvò la “riunione” (una “piccola bugia”) della Savoia e della contea di Nizza Marittima all'impero di Francia, in linea con quanto verbalmente concordato tra Camillo Cavour e Napoleone III sin dalla chiacchierata in carrozza a Plombières il 21 luglio 1858. Poco prima, l'11-12 marzo i plebisciti avevano confermato l'“annessione” dell'Emilia e l'“unione” della Toscana al regno di Sardegna, che già aveva ottenuto la Lombardia (tranne Mantova) senza farvi ripetere il plebiscito che l'8 giugno 1848 ne aveva approvato l'“unione immediata” al “Piemonte” di Carlo Alberto. Mentre la demarcazione del nuovo confine italo-francese a nord fu semplice (il crinale alpino) quello nelle Marittime risultò molto laborioso. Come insegna lo storico Oreste Bovio, il generale Manfredo Fanti, ministro della Guerra, si dimise per non sottoscrivere una linea militarmente svantaggiosa. A trattato firmato, riprese le funzioni. Vittorio Emanuele II rinunciò obtorto collo alla terra dei suoi avi, confidando nella comprensione di Giuseppe Garibaldi, divenuto “straniero all'Italia”. Era nato a Nizza il 4 luglio 1807, cittadino dell'impero di Napoleone I, che aveva debellato Pio VII, ben altra cosa dal “papalino” Napoleone III.
Nella complicata trattativa il sovrano sabaudo riuscì a strappare a suo vantaggio almeno alcune aree montane irrinunciabili per lui che ci andava a caccia da ragazzo, “pensando al regno”.
Dopo l'annessione di quasi tutta l'Italia centro-meridionale e il trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze (1864-1865), passaggio doloroso non solo per lui ma anche per la Augusta Taurinorum e quanti vi gravitavano, Vittorio Emanuele II continuò a privilegiare il Vecchio Piemonte per le sue “vacanze”. Lì era “a casa”. Suo figlio Umberto I, perennemente in visita con la consorte Margherita di Savoia alle Cento città dell'Italia quasi unificata nel 1866 e nel 1870, privilegiò invece la Villa Reale nella fatale Monza. I suoi spostamenti, sempre di breve durata, non comportarono la dislocazione degli “uffici” di Corte, ancora in corso di organizzazione nei “palazzi del governo”, in massima parte allocati nei più sontuosi edifici romani, a cominciare dal Quirinale. I sovrani passano, gli immobili restano.
Da principe esploratore a re d'Italia
Principe di Napoli ed erede a un trono che non ambiva, Vittorio Emanuele neppure dopo il matrimonio con Elena di Montenegro ebbe tempo per “vacanze”. Di concerto con suo padre, fu continuamente assorbito da viaggi ufficiali in Italia e all'estero. Nel 1897 visitò, nell’ordine, Firenze, Roma, Venezia, Napoli, Parigi, Londra, Amsterdam, Lucerna, Roma, le Baleari, la Spagna sino a Gibilterra, Ceuta, Tangeri e poi Malta, la Sicilia, Amalfi, Napoli (appena in tempo per le grandi manovre presso Benevento), Monza, Stresa, Milano, Roma, Napoli. Andò a caccia a Castel Porziano prima di festeggiare Capodanno a Napoli. A Torino arrivò il 30 aprile 1898 per l'inaugurazione dell'Esposizione Nazionale nel cinquantenario dello Statuto, poco prima che in Lombardia e in Toscana scoppiassero sospette proteste contro il carovita. Nell'estate visitò Danimarca, Norvegia, Scozia, Londra, Anversa, Rotterdam. Dopo una pausa a Napoli fu a Vienna per i funerali della sfortunata imperatrice “Sisi” e poi ancora in viaggio da un capo all'altro dell'Italia. Nell'aprile 1899 iniziò l'esplorazione dell'Egeo; in giugno tornò in Norvegia; passò agosto metà in Montenegro per le nozze del cognato Danilo e pochi giorni all'isola di Montecristo, per riprendere poi la peregrinazione da un capo all'altro d'Italia, passando anche per Pescasseroli.
Allo stesso modo iniziò il tragico 1900: Napoli, Montecristo, Napoli, Berlino, Napoli, Gaeta, Montecristo, Napoli, Roma (per l'inaugurazione della XXI legislatura), Napoli e poi la crociera con Elena alla volta della Grecia, di Costantinopoli, della Palestina e ancora la Grecia. Venne “chiamato dal mare”. Approdò a Reggio di Calabria e accorse a Monza.
Asceso al trono, voltò le spalle alla Villa Reale di Monza, evocativa del regicidio.
“Scoprì” il Castello di Racconigi, salì a Sant'Anna di Valdieri ove era stato tante volte a caccia con il padre e predilesse infine la quieta Provincia Granda per le lunghe vacanze.
La pax operosa dello Stato anche dalla Granda
Racconigi divenne una sorta di seconda capitale. Il re vi aveva quanto riteneva indispensabile. Nel novero figuravano anche gli “Uffici” della Corte.
La Monarchia era una macchina molto complessa. Doveva esserlo in un regno giovane qual era l'Italia, unificata da poco e segnata dalle molte “gare” tra antiche capitali di Stati un tempo opulenti o almeno prestigiosi: da Napoli a Venezia, da Firenze a Milano, da Palermo a Parma e Modena, via via sino alla dogale Genova.
Il Calendario Reale elencava ogni anno cariche e nomi dei componenti delle Corti del re, della regina Elena e della regina madre: poco più di 250 persone a inizio Novecento. A parte erano le corti delle Case sabaude di Aosta e di Genova, nonché le “corti antiche”, cioè dei sovrani, regine e principi defunti, inclusi il Padre della Patria e Umberto I.
La Casa di Vittorio Emanuele III era ripartita in Casa Militare (comprensiva di quella Onoraria, molto più affollata) e Casa Civile, Corte della regina, Corte del principe di Piemonte (quando venne istituita) e degli altri principi, inclusa la principessa Maria Laetitia, seconda moglie del duca Amedeo d'Aosta, re di Spagna da fine 1870 all'inizio del 1873, morto giovane a Palazzo Cisterna in Torino tra le braccia del fratello Umberto.
La Casa Militare del re comprendeva il primo aiutante di campo, aiutanti di campo generali e aiutanti di campo: un numero ristretto di alti ufficiali di sicura fiducia del sovrano. Vittorio Emanuele III confermò nella carica apicale il generale Ugo Brusati (1847-1936), che lo era della sua Casa di principe dal 1898 e lo rimase sino al compimento del 70° anno (il triste ottobre 1917). Il primo aiutante accompagnava il sovrano ovunque, vacanze comprese, e normalmente pranzava con la famiglia reale: una “colazione di lavoro” per chi non poteva perdere di vista la “grande politica” (estera e militare) e le turbolenze di quella interna. Gli aiutanti di campo generali e quelli per così dire “semplici” si alternavano di mese in mese o ogni quindici giorni. Turni necessari per le pesanti incombenze che li gravavano: essere costantemente a giorno e filtrare tutte le “novità”, soprattutto quelle allarmanti, comunicate dalla rete dei “servizi”, inclusi gli addetti militari presso le ambasciate e gli informatori a contatto con ogni genere di rappresentanza sensibile anche all'estero, dai consolati a sedi commerciali e istituti culturali. A volte i carabinieri comunicavano direttamente con il capo dello Stato.
Nell'insieme la Casa Militare era di piccole dimensioni, perché aveva alle spalle la piramide delle forze di terra e di mare al cui comando era il re stesso. A lui facevano riferimento anche i ministri della Guerra e della Marina, indicati dal sovrano ai presidenti del Consiglio. Nulla era lasciato al caso. Tra altri Vittorio Emanuele III volle ministro della Guerra Paolo Spingardi, nato a Spigno Monferrato, già comandante generale dei carabinieri.
La Casa Civile era molto più articolata e complessa. Era imperniata sul ministro della Real Casa: una figura che ai tempi di Vittorio Emanuele II aveva generato tensioni tra il sovrano e il governo, per frizioni su minutaglie. Pressoché onnipotente lo era stato Urbano Rattazzi jr, nipote di Urbano Rattazzi, esponente della sinistra democratica nel decennio cavouriano, ministro dell'Interno nel governo presieduto da Alfonso La Marmora dopo l'armistizio di Villafranca (luglio 1859), sfortunato presidente del Consiglio nel 1862 e nel 1867, quando dovette reprimere tardivamente le spedizioni di Garibaldi. Patrono della nomina dell'appena cinquantenne Giovanni Giolitti a capo del governo (1892-1893), Urbano jr si dimise mentre aleggiavano inchieste su speculazioni edilizie nella Roma umbertina e si favoleggiava dei profitti diretti o procacciati da “sub-Urbano”, come veniva etichettato dalla satira. Suo successore fu il rupestre Emilio Giuseppe Ponzio Vaglia, già primo aiutante di campo di Umberto I. Vittorio Emanuele III lo ereditò dal padre, lo creò conte il 20 settembre 1904, durante i festeggiamenti per la nascita del principe ereditario Umberto di Piemonte. Suo successore nel 1909 fu Alessandro Mattioli Pasqualini, in carica sino al gennaio 1939 quando venne sostituito dal conte Pietro d'Acquarone, poi elevato a duca da Vittorio Emanuele III per i suoi molti meriti di saggio amministratore, duttilità, intuito politico e capacità di ascolto degli umori serpeggianti nell'Italia da Mussolini avviata sui funesti binari del Patto d'Acciaio con la Germania di Adolf Hitler.
Altro ufficio apicali della Corte era il prefetto di Palazzo e gran mastro delle cerimonie. La carica fu a lungo ricoperta dal duca Gian Battista (Bacicìn) Borea d'Olmo il cui avo, Orazio, era stato maire di Sanremo e Legion d'Onore quando la Liguria venne annessa all'Impero di Francia: massone, personaggio bizzarro al quale si ispirò Italo Calvino per ritrarre il Visconte dimezzato, come narra il suo biografo Luca Fucini. Nominato ottantaduenne in successione a Cesare Federico Gianotti (combattente che in tutte le guerre per l'indipendenza compresa la battaglia di Custoza del 1866), Borea d'Olmo morì in carica a 105 anni. Le sue funzioni erano così impegnative da richiedere un Prefetto di Palazzo aggiunto. Seguivano il Grande scudiero (lo fu a lungo Alberto Solaro del Borgo dei marchesi di Borgo San Dalmazzo), il Gran cacciatore e il Primo mastro delle cerimonie di corte, affiancato da una pleiade di altri Mastri e da alcuni Mastri delle cerimonie di corte aggiunti. Tanti ne occorrevano nelle molte residenze secondarie e nelle città da visitare ed era saggio disporre di varie “antenne” in un'Europa in subbuglio.
Tra gli Uffici vi erano infine il Medico di corte e il Cappellano Maggiore. Quest'ultimo ricopriva un ruolo particolarmente delicato mentre durava il conflitto tra Stato e Chiesa e il re rimaneva “scomunicato” dal papa. A norma dell'articolo 1 dello Statuto la religione cattolica apostolica romana era la sola religione dello Stato, ma in Italia erano ammessi tutti i culti. Agnostico con istintivi guizzi anticlericali, quando necessario Vittorio Emanuele III assisteva alle cerimonie ecclesiastiche ma su tutto per lui prevaleva l'articolo 24 dello Statuto albertino: «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla legge». Dopo monsignor Vittorio Anzino, che aveva amministrato l'eucarestia al morente Vittorio Emanuele II, come ha narrato Aldo G. Ricci, e Giovanni Lanza, Cappellano maggiore fu nominato il canonico Giuseppe Beccaria, che rimase in carica per un quarantennio. Nel ghiotto volume Il clero Palatino tra Dio e Cesare (1995) Tito Lucrezio Rizzo ripercorre le complesse origini e le articolate vicende di una “carica” che sopravvisse sino alla revisione del Concordato siglata nel 1984 da Bettino Craxi per l'Italia e dal cardinale Agostino Casaroli per la Santa Sede.
Tutti per uno, uno per tutti: l'Italia
Quando dalla Città Eterna si trasferiva a estivare per lungo periodo nella Provincia Granda Vittorio Emanuele III traeva al seguito un numero rilevante dei primi ufficiali della monarchia. “Piccola capitale transitoria” la Real Città di Racconigi veniva attrezzata di conseguenza per accogliere nella maniera più degna il seguito del sovrano, in parte allogato nel Castello stesso, celermente ammodernato, in parte dove possibile. Spartano qual era, il re riteneva che altrettanto dovessero esserlo gli Uomini nominati alle cariche supreme della Corte e così pure le Dame della Corte della Regina Elena. I quotidiani dell'epoca (da Torino, Milano, Roma, ma persino in una città di 30.000 abitanti come Cuneo se ne contavano tre) avevano i loro corrispondenti in loco, tanto informati quanto garbati, anche perché la vita del re e della regina non prestava il fianco a pettegolezzi.
Vista con la lente d’ingrandimento la Corte della Casa Reale era composta da personalità cresciute per e nel servizio dello Stato: militari, diplomatici, dirigenti e funzionari di uffici pubblici, professionalmente preparati, adeguatamente selezionati e devoti alla missione. All'ingresso nel servizio il pubblico impiegato giurava di «essere fedele a sua maestà il Re ed ai suoi reali successori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere tutti i doveri del [suo] stato, con il sol scopo del bene inseparabile del Re e della Patria».
Qualcuno ha ventilato che i Savoia re d'Italia siano stati “una dinastia senza sacralità” perché non praticarono la cerimonia d’incoronazione del sovrano e la Corona Ferrea, emblema della regalità in e sull'Italia, rivendicata da Vittorio Emanuele II e restituita da Francesco Giuseppe d'Asburgo nel 1866, venne recata a Roma solo per i funerali del Re Galantuomo e di suo figlio Umberto.
A ben vedere, però, la vera sacralità della Terza Italia non stava in una celebrazione una tantum ma nella somma di quanti facevano quadrato attorno alla regalità: diplomazia, forze armate e, all'occorrenza, volontari. La Corona non metalli e gioielli: era fusa nello Statuto, “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia” e sul suo sobrio articolo 22: «Il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto». La “sacralità” era l'identità tra il re e i popoli d'Italia incamminati a divenire “nazione”: il “plebiscito quotidiano” tra Stato e i cittadini.
A Racconigi Vittorio Emanuele riceveva lo zar di Russia, gli ambasciatori dei Paesi più remoti, ministri, parlamentari, scienziati, artisti e la miriade di sindaci di grandi e piccoli comuni della “sua” terra, elettivi come li aveva voluti Carlo Alberto, espressione genuina di una civiltà politica fondata sulla libera scelta dei propri rappresentanti. Lì Vittorio Emanuele e la Regina Elena si sentivano “a casa”. E con piccola scorta salivano a San Giacomo di Entraque o a Sant'Anna di Valdieri ove gareggiavano a chi abbattesse più camosci spinti dagli “scaccioni” o a chi pescava più trote e di maggiore stazza: tutto puntualmente registrato dall'apposito addetto, che poi inviava le prede alle “mense” di chi ne aveva bisogno.
La vita “del re” non era una visita “da re”. Era quella di Capo dello Stato, ovunque fosse. Ubi rex… Depositario e garante dell'Idea di Italia, una, indipendente e sino alla Grande Guerra libera di decidere le proprie sorti.
Aldo A. MOLA
DIDASCALIA: La “foto ricordo” della visita dello zar Nicola II a Vittorio Emanuele III, che lo ospitò nel Castello di Racconigi (23-25 ottobre 1909). A una Dama scappò un sorriso... Era l'Europa dei buoni sentimenti. Al ricevimento partecipò Ernesto Nathan, sindaco di Roma ed ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia.