Il “patto di fusione” dell'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) “col” (non “nel”) Partito Nazionale Fascista (PNF) il 25 febbraio 1923 comportò l'iscrizione d'ufficio dei nazionalisti ai Fasci “salvo le eliminazioni che si paleseranno necessarie”. Esso devolse al PNF “per intero il compito dell'azione politica e sociale” e affidò a “un organismo da esso dipendente intitolato Associazione nazionalista italiana” la “elaborazione e divulgazione della dottrina del partito e lo studio dei problemi politici, sociali, economici e tenici di attualità”. Sarebbero stati elucubrati da un Ufficio centrale dei gruppi di competenza istituito presso la segreteria generale politica del PNF “da cui dipende e a cui è devoluto l'inquadramento”. Chi guadagnò e chi perse da quell'accordo barocco?
Nazionalisti 1922: mosche cocchiere del duce?
I molti libri, non tutti utili, pubblicati sul centenario della mai avvenuta “marcia su Roma” (28-31 ottobre 1922) hanno generalmente sorvolato sul ruolo in quei giorni svolto dai “nazionalisti”. L'elusione non è affatto nuova. Ricalca quella delle principali “interpretazioni del fascismo” passate in rassegna decenni addietro da Renzo De Felice. Da una parte, la riduzione “marxista” del “fascismo” a tracotante vittoria del capitalismo sul proletariato non sentì alcun bisogno di prendere in considerazione la loro pattuglia, numericamente irrilevante. Dall'altra, i pifferai della “Rivoluzione fascista” la schifavano come mosca cocchiera della vittoria conseguita dagli squadristi duri e puri. Per gli uni e per gli altri, insomma, i nazionalisti erano solo retori, succubi dei “picchiatori”.
Nel 1932 la Mostra del Decennale non andò molto oltre la narrazione di Giorgio Alberto Chiurco che nella “Storia della Rivoluzione fascista” (Vallecchi, 1929) sbrigativamente scrisse che il 31 ottobre “Le squadre nazionaliste per prime portano l'omaggio al Milite Ignoto e si dispongono in Piazza (Venezia), in attesa che giungano i fascisti, in una densa fila di maglie e di gagliardetti azzurri. Lungo la scalinata del Monumento si dispongono gli esponenti maggiori del nazionalismo: l'on. Gelasio Caetani, il sottosegretario Alfredo Rocco, il ministro delle Colonie Luigi Federzoni. Si suona l'inno di Mameli (multiuso, poi adottato dalla Repubblica, NdA) e l'inno Giovinezza. Il popolo commosso saluta entusiasta dalle finestre con scroscio di battimani e pioggia di fiori”. Seguono l'elenco delle “legioni”, complete della “cavalleria fascista romana” e l'elogio dei diciannove aerei fascisti plananti sul corteo.
Pur animato dall'ideologia Chiurco è attento ai “fatti”. Il giorno del “corteo” (31, non 28 ottobre) Mussolini aveva da poche ore formato il governo di coalizione costituzionale festeggiato appunto dalla sfilata di circa 25.000 “militi”. Alla loro parata – ed è questo il punto – presenziarono solo i nazionalisti. Gli esponenti degli altri partiti di governo (democratici sociali, liberali, popolari, giolittiani...) si tennero a distanza. Non avevano “squadre” ed erano riluttanti alle piazzate. Ma quella era l'Italia, come altri Stati usciti malconci da una guerra che aveva sostituito le “divise” alla libertà di pensiero.
Con il loro schieramento al Vittoriano i nazionalisti vollero mostrare che nel nuovo governo i fascisti erano il braccio teso verso chissà quale futuro ma essi erano la mente. Nel passaggio da movimento a partito (novembre 1921, nove mesi dopo la nascita del Partito comunista d'Italia, ennesima costola del socialismo e sezione locale della Terza Internazionale moscovita) il programma del fascismo era rimasto non solo variegato ma ambiguo e persino vago su alcuni nodi sostanziali, a cominciare dalla questione istituzionale e dal rapporto con la chiesa cattolica. Nell'ottobre-novembre 1922 il Partito nazionale fascista (PNF) comprendeva pulsioni dichiaratamente repubblicane, ferocemente anticlericali e persino neopagane, anche se in molte dichiarazioni Mussolini non mancava di strizzare l'occhio alla chiesa.
La lunga marcia dei nazionalisti
I nazionalisti arrivavano da lontano, da Alfredo Oriani e da Enrico Corradini, fondatore di “Il Regno”, e dai convegni e congressi del 1908-1912 dai quali era nata l'Associazione Nazionalista Italiana (ANI) con militanti quali Scipio Sighele, Pietro Foscari, Mario Carli, Roberto Forges Davanzati, Maurizio Maraviglia. In un quindicennio il loro programma si era nettamente diversificato dal nazionalismo francese di Charles Maurras (venato di antisemitismo) e depurato da scorie. Aveva tutt'altra coerenza ideologica rispetto al “fascismo”. I nazionalisti miravano a ripristinare il primato dello Stato monarchico uscito vittorioso dalla durissima prova della Grande Guerra. Per loro Vittorio Emanuele III era il re del 24 maggio 1915, cioè dell'intervento per la liberazione delle terre ancora oppresse dalla dominazione austriaca e per il coronamento del Risorgimento. Era il re che l'8 novembre 1917 a Peschiera aveva affermato ai rappresentanti delle potenze alleate che l'Italia si sarebbe battuta sino alla vittoria. Aveva subito una sconfitta, ma Caporetto non era stata “la disfatta”. Lo ebbe chiaro il comandante supremo Luigi Cadorna che orchestrò la ritirata dall'Isonzo al Piave e gettò le basi della “battaglia di arresto” e della riscossa. Dopo il brutto sarebbe arrivato il bel tempo. All'epoca, come documentano Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in “Nero di Londra” (ed. Chiarelettere), Mussolini era un agitatore ex socialmassimalista osservato speciale dai servizi segreti miliari inglesi che lo presero a noleggio per un po' di sterline al mese e (ma sarà proprio vero?) lo teleguidarono verso la conquista del potere.
Sennonché (e forse proprio perciò) quando il 30 ottobre 1922 formò il governo il “duce del fascismo” riservò ruoli minori e marginali ai nazionalisti. Luigi Federzoni, che aveva motivo di aspirare agli Esteri, fu relegato alle Colonie, in successione al democratico Giovanni Amendola. All'epoca le colonie erano la remotissima ed economicamente irrilevante Somalia, l'inospite e costosa Eritrea e la Libia, ove Giuseppe Volpi faticava a ripristinare la presenza dell'Italia, ridotta a pochi capisaldi durante la Grande Guerra quand’era prevalsa la ragionevole “dottrina Cadorna”: l'Italia l'avrebbe riconquistata vincendo sul Carso. Con Federzoni, eletto deputato dal 1913 nel prestigioso collegio Roma I, Mussolini chiamò sottosegretari di Stato i nazionalisti Alfredo Rocco, Alessandro Sardi e Luigi Siciliani. Costanzo Ciano e Cesare Maria De Vecchi facevano da cinghia di trasmissione tra i nazional-fascisti e la Corona. Fuori orizzonte rimasero i fascisti monarchici (o monarchici fascisti) dieci anni dopo passati in rassegna Mario Carli e Giuseppe Attilio Fanelli nell'“Antologia degli scrittori fascisti”(Firenze, 1931), studiata da Francesco Perfetti in “Fascismo monarchico (Bonacci, 1988). Ai margini vennero tenuti anche gli alfieri della “tendenza repubblicana”, che faceva capo ai quadrumviri Michele Bianchi e Italo Balbo e guardava all'inquieto Filippo Tommaso Marinetti.
Massonofagi
Di altra compattezza era l'ANI, che nelle elezioni del 1921 ottenne 11 deputati. Essa aveva alcuni capisaldi. In primo luogo, fermo restando il rispetto e l’assimilazione della tradizione culturale del Risorgimento, ne ripudiavano come devianze l'anticlericalismo, le nostalgie giacobine, il volontariato indisciplinato. Per loro Mazzini era l'Apostolo dei Doveri dell'uomo, mondato dalle pretese repubblicane. Garibaldi non era il capofila di imprese disperate come “Roma o morte” ma il Generale sabaudo che aveva combattuto con l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”. Giosue Carducci era il cantore dell'“Eterno femminile regale”, non il vindice di Ugo Bassi e meno ancora il poeta dell'Inno a Satana. Inoltre l'Italia doveva rifiutare le contaminazioni dall'estero: sia quelle tedesche, aspramente avversate da chi, come Federzoni, anni prima della Grande Guerra aveva messo in guardia dalla conquista germanica del lago di Garda, sia della Francia, paese corrotto e corruttore, infetto di spiriti ugonotti, intriso di internazionalismo socialista e, soprattutto, “tripuntino”. A Parigi nel giugno del 1917 era stata inventata la massonica Società delle Nazioni che rischiava di svigorire lo sforzo dell'Intesa (amputata dalla rivoluzione in Russia) e dell'Italia contro gli Imperi centrali. Per l'ANI il pacifismo e l'internazionale “azzurra” (propugnata dalla Lega internazionale dei diritti dell'Uomo) erano la maschera dietro la quale si nascondeva il tradimento della patria.
Dal 1912 i nazionalisti avevano individuato, denunciato e combattuto a viso aperto quello che consideravano il nemico mortale dell'Italia: la massoneria. A loro giudizio società segreta al servizio dello straniero, essa era il tentacolo di una misteriosa Internazionale che sin dall'Illuminismo aveva intossicato le sfere più elevate della società (aristocratici, militari, circoli culturali e persino molti ecclesiastici). Aveva inoculato l'illusione di ideali improponibili: la libertà (nient'altro che libertinaggio), l'uguaglianza dei diritti (prepotenza dei malavitosi), la fraternità (abuso della “pietas” e imposizione della “carità” sotto forma di taglieggiamento a beneficio degli sfaticati). Successivamente i giacobini francesi avevano inventato ed esportato l'idea di “nazione”, sostitutiva della “societas christiana”, identificata con lo Stato a esclusivo vantaggio della minoranza di politicanti cambiacasacca giunta a impadronirsi dei gangli del potere e a soggiogare il Popolo, sempre buono e innocente. Perciò la “democrazia parlamentare” andava combattuta come la peste.
Il pensiero liberale italiano era stato sempre tiepido sulla centralità della “nazione” quale fulcro della Nuova Italia. Questa era nata dalla fortunata convergenza tra diplomazia, spada e scienza: un groviglio risolto in tempi e modi irripetibili da Vittorio Emanuele II. Per Camillo Cavour, Pasquale Stanislao Mancini e i maggiori pensatori pre e post unitari l'Italia non era a sé stante ma partecipe di un processo civile europeo. Il mite Ruggero Bonghi insegnò che “appartengono alla nazione i popoli che nella loro coscienza sentono di appartenervi”. Monarchico senza se e senza ma, Bonghi precorse i principi fondamentali della Costituzione ora vigente (che tanto deve allo Statuto albertino, anche se in questo suo 75° non viene ricordato): in primis vi è l'uomo (la coscienza), poi la comunità storicamente identificabile (il “popolo”) e infine la “nazione”, che si fonda sul consenso (il “plebiscito quotidiano” dei cittadini) e si fa Stato attraverso la legislazione.
La massoneria: ecco il nemico! Verso il pensiero unico
I nazionalisti capovolsero la clessidra e anteposero all'uomo il principio astratto di “nazione”, mirando a servirsi dello Stato per confiscare il cittadino. Sostituirono il militarismo al patriottismo, l'imperialismo all'italianità. Senza bisogno di evocarli nominativamente in causa, la più efficace replica al loro provincialismo fu “La storia d'Europa nel secolo decimonono” di Benedetto Croce, pubblicata, però, quando ormai i nazionalisti stessi erano ridotti a una costola minoritaria e assai contrita del regime fascista, che stava abusando del termine di “nazione” sino a renderlo indigesto. Sicché sarebbe bene, oggigiorno, evitare di riesumare quel termine e dire piuttosto “Italia” quando ci si riferisce allo “Stato”.
Nel febbraio 1923, tre mesi e mezzo dopo l'avvento del governo Mussolini, i nazionalisti premettero sull'acceleratore. Il 13 febbraio il duce convocò la seconda seduta del Gran Consiglio del Fascismo, un comitato ancora del tutto privo di valenza pubblica ma nondimeno decisivo per il corso politico del Paese, perché vi furono anticipate le direttive per il partito e la sua condotta in Parlamento. Ai 29 presenti (i quadrumviri, molti componenti del governo, i due sovrintendenti della marcia su Roma, Gaetano Postiglione ed Ernesto Civelli...) si aggiunse, come invitato, uno spretato da anni noto quale principe dei massonofagi. Non aveva fama di portafortuna. Su sua istanza (evidentemente concordata con Mussolini, che non se ne fece imbeccare) il consesso “invitò” i fascisti massoni a scegliere tra PNF e logge. Era l'inizio dell'offensiva, che poi arrivò all'espulsione dei massoni dal partito e infine alla loro esclusione dai pubblici uffici (1925). Alla riunione del Gran Consiglio (denominazione riecheggiante le cifre massoniche: Supremo Consiglio e simili) non presero parte Federzoni, Rocco né altri esponenti del nazionalismo. Perché mai, visto che erano al governo? Stavano compunti alla finestra, come “monachella” a “las Conchas”? Attendevano la resa del duce, che poche settimane prima aveva incontrato in incognito il cardinale Gasparri?
Sin dal 21 giugno 1921 Mussolini si era pubblicamente pronunciato alla Camera dei deputati contro la massoneria e a favore della Chiesa cattolica: “Il Fascismo non è legato alla Massoneria, la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi alcuni del partito popolare. Per me la Massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini (...) la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo (…) l'unica idea universale che oggi esista a Roma è quella che si irradia dal Vaticano...”.
Dal verbale della seduta del 12 febbraio 1923, citato dai giornali e riproposto da Angelo Livi in “Massoneria e fascismo” (ed. Bastogi), risulta che quattro gerarchi si astennero. Erano massoni notori: Giacomo Acerbo, Italo Balbo, Cesare Rossi (Gran Loggia d'Italia) e Alessandro Dudan (Grande Oriente). Però tra i presenti gli “iniziati” erano numerosi: Giuseppe Bastianini, vicesegretario del PNF, il chiassoso Achille Starace, Giovanni Marinelli (fucilato a Verona con Galeazzo Ciano), Edmondo Rossoni, segretario delle corporazioni fasciste, Roberto Farinacci, Civelli e Postiglione, Aldo Finzi,... tutti “pezzi da Novanta”. Taciti e pronubi? O, cospiranti, volgevano gli occhi alla Volta Stellata?
Patriottismo/nazionalismo
“Post hoc ergo propter hoc”, all'indomani della “scomunica” dei massoni, i nazionalisti, debitamente paghi, il 25 febbraio deliberarono la loro confluenza nel PNF. Per loro l'“idea di Italia” non poteva avere due padri (o madri): la visione europea della Terza Italia coltivata da Federico Confalonieri, Silvio Pellico, Camillo Cavour, Giolitti e da un rosario di statisti, e quella italo-centrica di cui essi si pretendevano depositari. Mussolini optò per quest'ultima. Codificò la confusione tra patriottismo (legittima difesa degli interessi generali permanenti dello Stato, quale ne sia la forma) e nazionalismo (contrapposizione tra gli “italiani” e gli “altri”, etichettati con denominazioni non sempre rispondenti ai cangianti confini dei Paesi).
I maggiorenti del nazionalismo originario si ridussero a ruota di scorta del regime che avevano concorso a erigere. Federzoni fu nominato ministro dell'Interno mentre imperversava la crisi per l'“affare Matteotti”. Lo rimase sino all'“attentato Zamboni” (Bologna, novembre 1926). Da presidente del Senato nel 1938 subì l'acclamazione di Mussolini a “primo maresciallo dell'Impero”, un grado fatuamente conferito anche al re, il quale poteva proprio farne a meno essendo per statuto comandante delle forze armate. Alfredo Rocco cesellò tutte le leggi liberticide, anche a detrimento dei monarchici non fascisti, come l'ex nazionalista Armando Zanetti, sino alla legge elettorale del 1928 e alla costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo.
A quel punto in Italia rimasero in pochi a invocare “gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”. L'Italia era ormai legata a Hitler dal “patto di acciaio” di cui divenne succuba. Eterogenesi dei fini. I nazionalisti, sorti come ala del liberalismo e bastione contro la Germania, furono travolti al crollo del regime. “Simul stabunt, simul cadent”.
A togliere le castagne dal fuoco e a rimettere il Paese in carreggiata il 25 luglio 1943 non furono i nazionalisti ma Vittorio Emanuele III. Mentre l'Italia ha bisogno di respirare Europa, pochi lo ricordano e meno ancora lo ammettono. Federzoni lo fece.
Aldo A. MOLA
Didascalia:
Luigi Federzoni (1878-1967), in camicia perfettamente bianca, e Mussolini. Il “Diario inedito, 1943-1944” di Federzoni (a cura di Erminia Ciccozzi, con saggio introduttivo di Aldo G. Ricci) è stato generosamente pubblicato dall'Istituto di studi “Lino Salvini” di Firenze (ed. Pontecorboli) anche per documentare come egli abbia fatto atto di contrizione di tanti errori politici e culturali, senza però mai ammettere il più sconcertante: la sua avversione preconcetta contro la massoneria. Ne ha scritto recentemente Stefano Bisi in “Palazzo Giustiniani” (ed. Perugia Libri).