Una Festa dello Stato d'Italia
Lo Stato d'Italia non ha una Festa che accomuni tutti i suoi cittadini. Ha il tricolore, scritto nella Costituzione, l'inno musicato da Michele Novaro, l'emblema (bruttino) due volte disegnato da Paolo Paschetto. Ma una festa vera? La festa di tutti? In tante faccende affaccendati governo e Parlamento avranno certo altre priorità. Però la “questione” rimane. Da tempo immemorabile.
Ci vorrebbe poco a tagliare il nodo gordiano e dare agli Italiani la Festa dello Stato d'Italia.
Nello spumeggiante discorso di insediamento alla presidenza del Senato (seconda carica dello Stato) Ignazio La Russa ha proposto di dichiarare festa nazionale la proclamazione del Regno d'Italia in aggiunta alle tre esistenti, il 25 aprile, il 1° maggio e il 2 giugno. Ha colto tutti di sorpresa. Il “suggerimento” è stato accolto da un boato di silenzio. Commenti? Quasi nessuno. Un quotidiano torinese ha però “raccolto” l'opinione del saggista Gianni Oliva. Secondo lui ricordare “la nascita della nazione è condivisibile”, ma il 17 marzo 1861, quando il “Parlamento nazionale riunito a Torino proclamò Vittorio Emanuele II di Savoia re d'Italia non va bene”, perché successivamente nell'Italia meridionale “sorse una vera e propria insurrezione sociale”, classificata come “brigantaggio”. Inoltre l'ordinale “II” voluto dal re mostrerebbe “il riflesso della continuità dello Stato piemontese e del carattere di progressiva espansione del Regno di Sardegna assunto dal Risorgimento”. Cavour, Garibaldi, Mazzini e compagnia non fecero l'Italia ma ingrandirono i possedimenti di “monsù Savoia”. È quanto da sempre sostenuto da papisti, borbonici e paleogramsciani. Semmai, sostiene Oliva, l'unità dovrebbe essere “celebrata nella prospettiva europea”. La Russa avrebbe dunque commesso “uno svarione terminologico e storico”, persino poco rassicurante.
Chi ha ragione?
Il 25 aprile?
Senza pretendere di ergermi arbitro tra cotanto senno, occorre anzitutto convenire che il presidente del Senato ha posto all'attenzione un “fatto”. a questione Oggigiorno lo Stato d'Italia riconosce festivi Capodanno (che lo è in tutto il mondo; “a prescindere” da ogni differenza di religioni, razze, sesso opinioni politiche e… meridiani), otto solennità cadenti nei giorni osservati dalla religione cattolica (Epifania, Pasqua, Pasquetta, Assunzione, Ognissanti, Immacolata Concezione, Natale e Santo Stefano) e le tre civili anzidette. Ma sono “feste” unificanti?
Il 25 aprile ricorda l'insurrezione del Corpo Volontari della Libertà che mise fine alla Repubblica sociale italiana. Come tutte le date convenzionali, sintetizza una sequenza di eventi diversissimi, avvenuti in un paio di settimane: la liberazione del Settentrione dal fascismo repubblicano (con l'eliminazione fisica di molti suoi gerarchi, a cominciare da Mussolini, il 28 aprile), la fine della guerra in Italia (con la resa dei tedeschi agli anglo-americani e i tedeschi a Caserta a far data dal 2 maggio) e quella delle Nazioni Unite (USA, Gran Bretagna, URSS...) in Europa contro la Germania di Hitler.Un groviglio di del tutto diversi. Il 25 aprile celebra (con vari giorni di anticipo sui fatti) la liberazione dall'occupazione germanica, la fine del conflitto (compresi i bombardamenti anglo-americani sulle città, che causarono circa 70.000 morti non militari) e della sua pagina più tragica: la “guerra civile” tra aderenti al fascismo repubblicano e partigiani all'ultimo momento organizzati nel Corpo volontari della libertà, in corso nelle forme più atroci dall'autunno 1944 nella sola Italia settentrionale. Dal settembre 1943 quella meridionale e dal giugno-settembre 1944 la centrale vivevano una storia del tutto diversa: fame, certo; rovine, anche; miserie materiali e morali, sicuramente (rileggere “La Pelle” di Curzio Malaparte). Ma la guerra vera, i bombardamenti spietati (come sull'Abbazia di Montecassino), le battaglie (carri, mitragliatrici, fucili, baionette...), era ormai lontana. Il 25 aprile è una pagina scritta e riscritta, anche col sangue. Per molti fu e rimase una data dolente. Segnò la fine di una guerra interna, con vincitori giustamente orgogliosi della missione compiuta e con vinti condannati alla mortificazione perpetua. Aprì o no la riflessione su quanto era accaduto? Avviò o no alla conciliazione? Quasi ottant'anni dopo si torna spesso alla casella di partenza. Nella crescente perplessità dei cittadini in attesa di Stato.
Il 1° maggio?
Il 1° maggio è la “festa dei lavoratori”, celebrata in Italia come quasi in tutto il mondo. E' osservata anche dai tanti, troppi, che vorrebbero guadagnare onestamente “il pane col sudore della fronte” (condanna biblica) ma rimangono senza occupazione decorosamente retribuita. Comunque il 1° maggio non è una solennità “italiana” ma “di acquisto”. Certo l'Italia odierna è andata oltre la Carta del Lavoro del 1927 e anche (ma solo per alcuni aspetti) la Carta del Carnaro di Gabriele d'Annunzio e Alceste De Ambris. Ma quanto resta da fare prima che la Repubblica sia effettivamente “fondata sul lavoro”.
Il 2 giugno?
Il 2 giugno non è la festa dello Stato d'Italia ma del cambio della sua forma istituzionale. Lo Stato c'era e rimase, grazie alla legislazione del Regno d'Italia, che, a differenza di quanto credono in molti (alcuni persino sedicenti monarchici) non venne affatto “mandata in soffitta” neppure dalla Costituzione della Repubblica. Mutò la veste. È buffo festeggiare l'abito e dimenticare il corpo. Nel referendum tra monarchia e repubblica la seconda prevalse con 12.700.000 voti su 28 milioni di aventi diritto, cioè con il 42% dei voti del corpo elettorale. Il 2 giugno evoca il primo giorno del referendum, il cui esito rimase in discussione sino al 18. Come riconobbe l'Assemblea Costituente al suo insediamento, la Repubblica data dal 19 giugno, quando venne pubblicato il suo avvento nella “Gazzetta Ufficiale”, che fa testo. Il 1° luglio la “Gazzetta” annunciò l'insediamento del Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, “al quale l'On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati nella sua qualità di Presidente del Consiglio dal giorno dell'annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale”, ovvero dal 18 e non dal 13 giugno, quando gli vennero abusivamente conferiti dal Consiglio dei ministri con l'opposizione del solo Leone Cattani. Il 2 giugno, dunque, è una data opaca. Non ebbero motivo di “festeggiarla” i 10.700.000 cittadini che votarono per la monarchia, né il milione e mezzo che depositò scheda bianca, né un altro milione e mezzo escluso dal voto: i militari ancora prigionieri, i radiati per motivi politici e gli abitanti delle terre ancora contese come la provincia di Bolzano e l'intera XII circoscrizione elettorale: Venezia Giulia, Istria e le città ormai sotto il pesante e definitivo giogo della Jugoslavia di Tito.
Dopo quel 2 giugno, o più correttamente con le leggi approvate dalla Costituente, chi aveva optato per la monarchia fu costretto a vergognarsi di se stesso, di quel che ricordava, delle sue legittime speranze di restaurazione o instaurazione della Corona. Esporre il tricolore con lo scudo sabaudo divenne reato. Tenere alla parete il ritratto del re risultò peggio che sconveniente. Chi rivendicava il ruolo svolto dalla monarchia da quasi un secolo venne liquidato come “nostalgico”: un vinto inebetito, incollato a un passato remoto meritevole di disprezzo. In un libello del 1944 e rielaborato nel 1945 Luigi Salvatorelli, che molti considerarono storico eminente, scrisse la condanna solenne di “Casa Savoia nella storia d'Italia”. Secondo lui Vittorio Emanuele III era stato il punto di arrivo di una monarchia intrinsecamente e inguaribilmente reazionaria, che infine aveva usato il fascismo come “guardia bianca” e ne era stata complice e quindi “responsabile moralmente, politicamente e legalmente, di tutti i misfatti del fascismo e di Mussolini”. Per molto meno, egli aggiunse, erano state spazzate via tante altre dinastie. A quel modo Salvatorelli assolse gli italiani dall'aver eletto le Camere che spianarono la strada all'avvento del governo Mussolini e lo sorressero negli anni. Da un canto il “popolo”, sempre innocente; dall'altra il tiranno colpevole. Come nelle favole belle, per ritrovare la felicità bastava cacciare il re. Il “popolo” fu felicissimo dell'assoluzione plenaria. Tornò ingenuo. E a volte riprese a votare con la testa nelle nuvole.
Le feste nazionali all'estero
Nessuna delle tre festività civili vigenti celebra o ricorda la nascita dello Stato d'Italia. Questa è avvolta dalle nebbie. Molti ormai pensano che l'Italia dati dal 1945 (la “liberazione”) o dal 1946 (la “repubblica”). Parecchi non ne hanno alcuna cognizione. Questa smemoratezza, coltivata e incoraggiata da chi invece dovrebbe mirare a rinvigorire il senso civico, nuoce gravemente al Paese. Lo rende debole a confronto degli Stati che si riconoscono in una festa statuale condivisa, al di là delle traversie susseguitesi al loro interno nel corso del tempo.
Con buona pace di chi evoca il brigantaggio come una sorta di maledizione all'indomani della proclamazione del regno d'Italia (fu alimentato dall'estero, dai clericali e dall'arretratezza culturale e civile, come era accaduto e accadde in tutti gli Stati europei giunti secoli prima a darsi assetto unitario), va ricordato che gli Stati Uniti d'America festeggiano il 4 luglio (dichiarazione dell'indipendenza della Nuova Inghilterra dalla Corona inglese) anche se a proclamarla furono solo tredici dei 52 loro Stati attuali e benché centosessant'anni orsono il Nord e il Sud degli USA (che all'epoca erano ancora quasi solo nella fascia orientale) si siano combattuti con ferocia nella prima “guerra industriale” della storia. A parte qualche malinconico abbarbicato all'ancien régime, in Francia il 14 luglio è festa per tutti: repubblicani, bonapartisti, socialisti, cattolici, miscredenti e via continuando. Il 14 luglio è “la Francia”. Quando instaurò l'Impero dei Francesi Napoleone I si proclamò successore di Carlo Magno. Luigi Filippo d'Orléans, il “re borghese”, fece traslare la salma di Napoleone da Sant'Elena a Les Invalides. Tutti i presidenti del Consiglio e della Repubblica susseguitisi in Francia rendono omaggio all'Arco di Trionfo, alla Storia.
Altrettanto vale per la generalità degli Stati europei. La Spagna celebra il 12 ottobre, scoperta dell'America da parte di quel Cristoforo Colombo la cui “impresa” in Italia passa ormai sotto silenzio, e il 6 dicembre “el día de la Constitución”. La Federazione Russa festeggia la vittoria sulla Germania (9 maggio 1945) e il 12 giugno, che evoca la sua recente nascita, nel 1992. Il Belgio si riconosce nel ricordo del 21 luglio 1830 quando Leopoldo I giurò fedeltà alla Costituzione. La Norvegia festeggia il 17 maggio 1814, quando divenne indipendente dalla Svezia, che invece celebra l'indipendenza dalla Norvegia, risalente al 6 giugno 1523. Il Portogallo ha scelto per festa nazionale il 10 giugno, anniversario della morte del poeta Luis Vaz de Camoes (1525?-1580), autore di “I Lusiadi”.
La Germania, altro Paese sconfitto nella seconda guerra mondiale e a lungo smembrato (sorte scampata dall'Italia grazie all'abilità di Vittorio Emanuele III), festeggia il 3 ottobre, in memoria della sua riunificazione: una data nella quale è difficile non riconoscersi. Anche stati minori celebrano date gloriose. E' il caso del Montenegro che festeggia il 13 luglio 1878, quando il Congresso di Berlino lo riconobbe 27° Stato indipendente nel mondo. Il 28 novembre di ogni anno l'Albania celebra la bandiera e l'indipendenza dall'impero turco (1912).
Feste mobili: Statuto, Venti Settembre...
Quando venne costituito dal Parlamento con legge del 14 marzo 1861 (non 17, che è il giorno della sua pubblicazione nella “Gazzetta Ufficiale”), il regno d'Italia aveva una sola festa civile: la proclamazione dello Statuto da parte di Carlo Alberto, re di Sardegna, il 4 marzo 1848. Quella data aveva segnato il passaggio dalla monarchia consultiva a quella rappresentativa. Unica Carta lungimirante tra quelle promulgate nel 1848 (riconobbe la libertà di culto, fondamentale nel mondo moderno), lo Statuto divenne la costituzione del regno d'Italia e durò un secolo. Nel tempo il suo festeggiamento fu spostato alla prima domenica di giugno, giorno più propizio per celebrazioni all'aperto. Nel 1895 il governo presieduto da Francesco Crispi introdusse una nuova festa civile: il Venti Settembre, in ricordo dell'annessione di Roma e della “debellatio” del potere temporale del papa (1870). Fu una scelta aspramente divisiva. Presenti e molto spesso prevalenti nei consigli comunali e provinciali, nella società civile, nella vita economica e culturale (basti pensare alla moltiplicazione degli edifici ecclesiastici, al culto dei santi, alle devozioni), i cattolici ligi alle direttive dal papa non eleggevano i deputati in ossequio al precetto “non expedit”: non è opportuno. A immetterli nel Senato, vitalizio, provvedevano i re. Eleggere i deputati voleva dire riconoscere lo Stato che tra il 1859 e il 1870 aveva annientato lo Stato Pontificio, occupato i palazzi dei Papi (Quirinale incluso) e chiuso un occhio sull'anticlericalismo militante che, secondo il magistero ecclesiastico (non aveva tutti i torti), pervertiva istruzione e costumi.
Dopo la Conciliazione dell'11 febbraio 1929 fu il Venti Settembre a risultare inopportuno. Fu cancellato. Non si può bere e respirare allo stesso tempo. Il regime aveva altre date da festeggiare, inclusa la fondazione di Roma, il 21 aprile.
Nel secondo dopoguerra, col favore dell'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione della repubblica, il Venti Settembre rimase nel dimenticatoio. Per le scuole divenne festivo il giorno di San Francesco, che interrompeva le lezioni poco dopo il loro inizio. Nella bizzarra altalena di feste nazionali una tenne durò a lungo: il IV novembre, nel ricordo della Vittoria del 1918 sull'impero austro-ungarico, l'unico evocato dal celeberrimo Proclama “firmato Diaz” (mentre l'Italia aveva combattuto anche contro l'impero turco e, tardi e controvoglia, quello germanico). Ma anche quella ricorrenza finì nel tritacarne dell'opportunismo dilagante negli Anni Settanta.
Nel 1977, in una temperie politico-culturale che richiederebbe lunga analisi, furono abolite parecchie festività religiose (San Giuseppe, l'Ascensione, il Corpus Domini, i santi Pietro e Paolo) e due civili: il 2 giugno e persino il IV novembre, che era la Festa di tutti i caduti e delle Forze Armate, presidio della libertà. Voleva e vuole dire omaggio al Milite Ignoto, la più solenne cerimonia civile dello Stato d'Italia dalla sua nascita a oggi, con il Re sommo sacerdote celebrante l'unione sacra tra la Corona e i cittadini.
Nel 2001 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ripristinò il 2 giugno. Che era quello che era. Il IV novembre rimase in un'aura brumosa.
È tempo dunque di istituire la Festa dello Stato. Non di una o dell'altra parte ideologica, di questa o di quell'altra regione o religione, di uno o altro ceppo, ma di tutti i cittadini, sia i nativi, sia quelli accolti nell'Italia che divenne Stato il 14/17 marzo 1861.
È tempo di mettersi in linea con la Storia. Auspichiamo che se ne occupi chi risiede nel Palazzo che fu dei Papi e poi dei Re. I governi passano, lo Stato rimane e deve ergersi per impedire che l'Italia divenga “nave senza nocchiero in gran tempesta/non donna di provincia ma bordello”. Una leggina-scialuppa richiede pochi giorni di attenzione da parte del Parlamento Novello. Sarebbe un segnale importante per tutti.
Aldo A. MOLA
DIDASCALIA: Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, precursore del Regno d'Italia fondato il 14 marzo 1861 con l'approvazione legge che recitò: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di Re d'Italia”. Benché ancora mancasse di Venezia, Roma Trento, Trieste..., esso fu il primo Stato d'Italia, tutt'uno con l'attuale.