Dalla resa senza condizioni (Cassibile, 3-8 settembre 1943) a quella dei tedeschi in Italia (Caserta, con effetto dal 2 maggio 1945) l'Italia si trovò nella tenaglia di diverse guerre: gli anglo-americani da un parte e i tedeschi dall'altra, le aspirazioni dei francesi a valicare le Alpi occidentali e possedere Valle d'Aosta e parte del Piemonte, le rivendicazioni e l'avanzata degli jugoslavi sul confine orientale e, infine, la contrapposizione tra il governo del re, riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello della Repubblica sociale e il movimento di liberazione, dalle molteplici componenti, talora subordinate a direttive di Stati in guerra contro l'Italia. Fu il caso del Partito comunista italiano. La riorganizzazione del Regio Esercito In quel groviglio il re e il suo governo dettero impulso, direttamente e indirettamente, alla lotta di liberazione del territorio nazionale dagli occupanti germanici e dai loro alleati interni. Lo scontro armato tra reparti del regio esercito e tedeschi iniziò il 9 settembre a Roma, nelle Puglie e in molte città dell'Italia centro-settentrionale: un ventaglio di battaglie troppo a lungo dimenticate a vantaggio della narrazione secondo la quale i primi e gli unici a combattere contro i tedeschi e i fascisti repubblicani sarebbero stati i nuclei di partigiani. Ripercorrere i “fatti” non significa certo sminuire il valore morale e anche militare delle scelte compiute dall'antifascismo, dalle prime “bande”, dalla “resistenza” e dalla “guerra partigiana” prima e dopo il suo riconoscimento da parte del governo del re. Il giorno stesso del trasferimento del sovrano, del principe ereditario, di Badoglio, del comandante supremo Vittorio Ambrosio e dei capi di stato maggiore delle tre armi la Capitale fu teatro di conflitto tra militari e tedeschi. Tra i più coraggiosi e determinati furono i Granatieri di Sardegna che, anche senza “ordini superiori”, si batterono per l'Italia. Sempre il 9 settembre il generale Nicola Bellomo, da poco al comando della piazza di Bari, guidò di persona la lotta contro circa 300 guastatori germanici per il controllo del porto e prevalse con l'aiuto del LI battaglione Allievi ufficiali bersaglieri, imponendo al nemico la capitolazione e la ritirata. Lo stesso giorno iniziò a Taranto lo sbarco della I divisione inglese aerotrasportata. L'11 settembre 1943, a Barletta, il comandante della piazza Francesco Grasso affrontò i germanici, che prevalsero, lo costrinsero alla resa, trucidarono civili e ne rimasero padroni sino al 24. Nel frattempo il generale Antonio Basso, comandante delle forze italiane in Sardegna, impose ai tedeschi l'evacuazione dall'isola, con scontri e caduti da entrambe le parti, in specie nei pressi di Oristano e alla base navale della Maddalena. Di concerto con i partigiani della Corsica e poi con truppe di “Francia libera” sbarcate nell'isola il generale Giovanni Magli affrontò i tedeschi in aspri combattimenti (29 settembre-4 ottobre), costringendoli alla resa o all'imbarco verso il continente. Pochi giorni dopo l'arrivo a Brindisi sia il re sia il principe ereditario Umberto di Piemonte passarono in rassegna corpi dell'esercito. Il 18 settembre Badoglio chiese di affiancare reparti italiani contro i tedeschi, ma cozzò contro il rifiuto anglo-americano. Il 28 settembre, vigilia della notifica a Malta dell'“armistizio lungo” da parte del generale Eisenhower, fu costituito il I Raggruppamento motorizzato di 5.000 uomini agli ordini del generale Vincenzo Dapino, a fine gennaio 1944 sostituito dal generale Umberto Utili. La riorganizzazione dell'esercito fu accelerata con la dichiarazione di guerra alla Germania (13 ottobre) e il conseguente riconoscimento dell'Italia quale cobelligerante. Caduto prigioniero degli inglesi in Tunisia, su sollecitazione del re (che lo aveva avuto aiutante di campo) e richiesta di Badoglio agli Alleati, il maresciallo Giovanni Messe venne rilasciato e guidò la riscossa in veste di capo di stato maggiore generale, affiancato dal generale Paolo Berardi quale capo di stato maggiore dell'esercito. Guerra di liberazione A lungo è stato affermato che il re fu riluttante a dichiarare guerra contro la Germania. In una lettera “segreta” del 2 ottobre 1943 (classificata 1854/Op) fu invece il comandante supremo Ambrosio a esprimere pesanti riserve al ministro della real casa Pietro d'Acquarone. «I vantaggi degli Alleati per la nostra dichiarazione d'armistizio – egli scrisse – sono stati di per se stesso enormi. […] Inoltre la nostra collaborazione in questo mese è stata della massima intensità […] senza nessuna contropartita, salvo la promessa di attenuare le condizioni di pace. La rottura delle relazioni col Giappone è da escludere. Se a noi è permesso, al massimo, di essere cobelligeranti, vuol dire che possiamo collaborare per cacciare i tedeschi dal nostro suolo, ma non abbiamo nessuna ragione di combattere i giapponesi. Per questo occorrerebbe una vera alleanza politica, che non è concessa.» Data l'estrema debolezza delle forze disponibili, la dichiarazione di guerra sarebbe stata «semplicemente platonica». Gli anglo-americani avevano agito «senza alcun riguardo» e «genera[ndo] una crisi gravissima in Italia e nei Balcani. Dobbiamo evitare – annotò d’Acquarone – che si ripeta questo passivo senza contropartita». Sin dall'incontro con Badoglio a Malta, il generale Eisenhower aveva sollecitato il governo italiano a dichiarare guerra alla Germania, sia per accattivarsi l'opinione pubblica nel campo alleato, sia per tutelare i militari caduti prigionieri dei tedeschi, che, diversamente, li avrebbero trattati «da franchi tiratori e, come tali, sottoposti ad esecuzione sommaria». Con molto realismo il “capo missione” Noel Mason Mac Farlane osservò che sarebbe stato «necessario servirsi di alcuni uomini che erano stati in passato associati con il fascismo dato che esso era durato vent’anni». Chi non aveva avuto la tessera del PNF o non aveva tributato qualche omaggio al regime? La classe dirigente (non politica ma anche solo “ amministrativa”, di industrie, banche, aziende pubbliche e private) non si improvvisa dall'oggi al domani. Non si poteva fare nell'Italia i cui docenti universitari, tranne una dozzina, avevano giurato fedeltà al regime. Dal canto suo Badoglio dichiarò che il re intendeva «invitare i capi dei diversi partiti – cioè i partiti politici – così come si sono ora costituiti in Italia, con speciale riferimento a quelli che hanno la maggiore influenza sul popolo» e avrebbe dato al governo «un carattere liberale». Come “militare” precisò che non si intendeva di partiti e di politici. Dal settembre 1943 la ricostruzione del regio esercito fu la premessa per rinsaldare l'autorità del governo nelle province poste sotto il suo immediato controllo. Però il sovrano, il principe ereditario e le forze dell'ordine registravano quotidianamente la diffidenza e le soperchierie degli Alleati contro i militari italiani e la popolazione civile. Soldati inglesi, spesso “alquanto avvinazzati”, strappavano il tricolore da edifici pubblici, irrompevano in postriboli picchiando a sangue quanti vi si trovavano. Nel caffè “Roma” di Mola di Bari un inglese “alquanto brillo” sputò sul ritratto del re. Un altro infranse quello di Badoglio. Per “contenere” gli inglesi, autori di rapine e violenze d'ogni genere, gli alpini usarono le mani e i carabinieri le armi. Ma la prevaricazione era pressoché quotidiana. Il Comando dell'esercito dispose pertanto che la sorveglianza sull'ordine pubblico fosse affidata a pattuglioni di otto uomini perché le pattuglie tradizionali venivano sopraffatte da militari “alleati”. Il 6 dicembre 1943 la regina Elena vide di persona automezzi inglesi investire intenzionalmente civili e sollecitò indennizzi (Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Governo del Sud, 1943-1944, Casa Reale). La lotta per la riaffermazione della sovranità nazionale era una schermaglia quotidiana. La riscossa passava anche attraverso gesti emblematici. L'11 novembre, per esempio, Badoglio ordinò ai prefetti di esporre il tricolore per festeggiare il genetliaco del re. Risalire la china impegnava sul fronte delle armi come nella vita civile. Allo scopo tra Alleati e Comando dei carabinieri si convenne la necessità di distinguere tra chi era stato fascista “per costrizione” (la tessera del partito era stata tutt'uno con quella “del pane”) e i fanatici del regime. Venne deliberata la formazione di “comitati” civici composti da un ufficiale dei carabinieri, un podestà, un magistrato, un sacerdote (“se di sicuri sentimenti”) e da alcuni cittadini “equi ed imparziali”. Il colonnello dei carabinieri Romano dalla Chiesa ricordò in un rapporto del 4 novembre che la resistenza ai militi dell'arma era “delitto grave”; al tempo stesso vietò l'uso di bombe a mano contro i dimostranti. Gli alpini a loro volta svolsero importante ruolo di contenimento contro ogni forma di disordine. Nel luglio 1944, dopo la liberazione di Roma e la nomina di Umberto di Savoia a Luogotenente del Re, dal Corpo Italiano di Liberazione nacquero 6 Gruppi di Combattimento (Friuli, Cremona, Legnano, Folgore, Mantova e Piceno) per un insieme di circa 60.000 uomini. Però gli Alleati non consentirono che avessero nome di divisioni e costituissero un'Armata. Il 27 dicembre 1943 il governo dichiarò l'adesione alla Carta Atlantica del 14 agosto 1941 ma sull'Italia, malgrado la cobelligeranza, la resistenza anti-nazifascista e la guerra partigiana, continuavano a incombere le clausole della resa e le crescenti rivendicazioni di molti Stati, a cominciare da Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel dicembre 1944, dopo lunga trattativa tra il governo e la delegazione del CLN Alta Italia, le formazioni partigiane furono riconosciute come Corpo Volontari della Libertà agli ordini del generale Raffaele Cadorna. Il crepuscolo di Vittorio Emanuele III Nel frattempo gli anglo-americani decisero la sorte di Vittorio Emanuele III, con il plauso dei partiti riconosciuti dalla Commissione alleata di controllo: democratico liberale, socialista, comunista, d'azione, democrazia cristiana, democrazia del lavoro, democratici dei lavoratori italiani, partito liberale. Il peggioramento del clima antimonarchico venne segnalato dal ministro dell'Areonautica generale Renato Sandalli il 15 marzo 1944. Il PWB (Psychological Warfare Branch) aveva fatto cassare l'articolo “Agli ordini del loro Re” dal “Giornale dell'Aeronautica”. Il ministro avvertì che il sovrano, la monarchia in genere e il governo stesso non dovevano più essere menzionati pena la soppressione del periodico. La proibizione era motivata con la giustificazione che le “Autorità Alleate” non volevano influire sulla situazione interna italiana. Sandalli, però, aggiunse lapidariamente: «fatti del genere danneggiano la coesione morale delle FF.AA.» Quegli stessi Alleati non arginarono mai le rabbiose polemiche quotidiane contro il sovrano, la Casa di Savoia e l'idea di monarchia da parte dei fautori della repubblica, nei giornali e nei “comizi”. Erano tempi nei quali ai militari, ai dirigenti, funzionari e pubblici impiegati veniva impartita l'amara direttiva: nei contrasti con gli Alleati gli italiani avevano torto anche quando avevano ragione. Pochi giorni prima del convegno ciellenistico di Bari (26-28 gennaio 1944), che sotto il profilo istituzionale era un sodalizio privato, Vittorio Emanuele III consegnò il suo programma al capo della Missione alleata Noel Mason-Mac Farlane. Vi riprese molti spunti del verbale della conferenza di Malta tra Eisenhower e Badoglio. Il governo in carica sarebbe rimasto in esercizio sino alla liberazione di Roma; a quel punto sarebbe stato formato un ministero con rappresentanti di partiti ed entro quattro mesi sarebbe stata eletta la Camera dei deputati. Il Parlamento avrebbe discusso ed eventualmente riformato le istituzioni «anche totalmente». Non escludeva, quindi, il cambio istituzionale. Il paese sarebbe stato consultato (referendum confermativo, dunque) e la Corona avrebbe seguito la volontà della nazione. Era l’unica via compatibile con lo Statuto. Il re, però, non fece i conti col fatto che gli anglo-americani non avevano alcuna fretta di arrivare a Roma. A Ravello, per esempio, i loro ufficiali gozzovigliavano giorno e notte, come annotava scandalizzato il generale Puntoni. Non solo. Militari inglesi a Caserta «demolivano nicchie cadaveri et asportavano teschi poggiandoli banchi scuola et collocandone uno sulla testa statua» (Rapporto del comandante dei carabinieri Giuseppe Pièche, 28 maggio 1944, in ACS). La Luogotenenza del regno All’inizio dell’aprile 1944 De Nicola escogitò la proposta atta a mettere d’accordo CLN, governo e Alleati: il passaggio dei poteri da Vittorio Emanuele III al principe di Piemonte quale luogotenente. Essa fu diramata ai giornali prima che il re ne fosse informato. Fu messo dinnanzi ai “fatti compiuti”. Dopo travagli vari il sovrano accettò di trasmettere le prerogative della Corona, ma in Roma, quando fosse stata liberata. A Puntoni re Vittorio tracciò un bilancio di quanto fosse «difficile e pesante il mestiere del re»: il “brut fardèl” consegnato da Vittorio Emanuele II a Umberto I. «Solo mio nonno ne è uscito bene» egli confidò. «Carlo Alberto dovette abdicare, mio padre fu assassinato. Non avevo nessuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio progetto di rinunciare alla Corona. Ma fu ucciso e io, in quell’ora tragica, non potei rifiutarmi di salire sul trono. Se l’avessi fatto avrebbero detto che ero un vile.» Pochi giorni dopo Badoglio varò il nuovo governo, con la partecipazione dei partiti del CLN (22 aprile - 18 giugno 1944). A cospetto di Vittorio Emanuele III i ministri giurarono “sul proprio onore”. Poteva il re imporre loro di usare la formula statutaria? Fra di essi vi erano Togliatti, Sforza, Giulio Rodinò di Miglione, Adolfo Omodeo (che da ministro della Pubblica istruzione epurò una quantità di galantuomini), Alberto Tarchiani, Fausto Gullo...: tutti repubblicani accesi e talvolta chiassosi. Il 5 giugno si consumò l’ennesimo sgarbo nei confronti di Vittorio Emanuele III da parte del “suo” governo. Con pretesti risibili (compresa la transitabilità delle strade), gli venne negato di raggiungere Roma per celebrarvi il trasferimento di «tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata»al principe ereditario in veste di suo luogotenente. Che era quindi “del re”, non “del regno”. I primi a non rispettare la promessa “tregua istituzionale” furono anzitutto i ministri, che, a differenza del sovrano e del luogotenente, avevano il sostegno degli Alleati. Il linciaggio di Donato Carretta: una pagina orrenda dell'Italia liberata Quale fosse il clima dominante nell'Italia liberata fu chiaro il 18 settembre 1944 nell'aula della Corte di Assise di Roma. Riunito in alta corte di giustizia il tribunale doveva giudicare l'ex questore Pietro Caruso e il suo segretario Roberto Occhetto, accusati di aver consegnato ottanta prigionieri politici ai nazisti per la rappresaglia in risposta all'attentato di via Rasella. Il processo richiamò l'attenzione internazionale. Il colonnello Pollock e il tenente Atkinson capitanavano la polizia militare, presente in aula anche a tutela di quanti filmavano l'evento, destinato all'opinione pubblica internazionale a prova del cammino democratico dell'Italia liberata. La folla irruppe nell'aula chiedendo di avere in pasto i due imputati “per farli a pezzi”. Per sua sventura, spinto dalla canea, vi finì anche Donato Carretta, vicedirettore del carcere di Regina Coeli, noto per mitezza, comprensione e speciale attenzione proprio nei riguardi dei politici detenuti. Individuato, fu percosso. Fatto uscire dall'aula, venne picchiato. Rifugiato in un'automobile grazie a carabinieri e a vigili urbani, ne venne estratto. Fu gettato sui binari del tram in attesa che la prima vettura in arrivo lo schiacciasse. Il conducente arrestò il mezzo. Rischiò di essere aggredito. La scampò esibendo la tessera del partito comunista. La folla riprese il corpo sanguinante di Carretta, lo martoriò e lo gettò a Tevere dalla spalletta di Ponte Umberto. Riavutosi, lo sventurato tentò di nuotare verso l'altra riva ma fu raggiunto e finito a colpi di remo da tre energumeni. Riportato in strada, il cadavere venne trascinato dal Lungotevere Sant'Angelo a Regina Coeli, contro il cui portone fu scaraventato e poi appeso a testa in giù all'inferriata di destra, sotto gli occhi dei suoi familiari. Carlo Sforza, sedicente conte, dichiarò di capire perfettamente che «scene di quel genere» potessero aver luogo. Però il linciaggio di Donato Carretta non fu una “scena” ma un crimine. Nessuno si premurò di identificarne e perseguire i colpevoli. Era una “prova generale” della “giustizia plebea” poi evocata e minacciata da Togliatti in consiglio dei ministri all'indomani del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 se quella dei codici non avesse risposto alle attese delle “masse”, cioè dei partiti rivoluzionari. Con abile spregiudicatezza Togliatti ventilò la minaccia di aprire i conti della storia a carico di quanti avevano a suo tempo favorito l'avvento del governo Mussolini e concorso all’avvento del regime. Che cosa dire degli eredi del partito popolare italiano che ne aveva fatto parte con ministri e sottosegretari, incluso Giovanni Gronchi. E dei “liberali”? De Gasperi capì... L'unica via per scansare la gogna era associarsi alla lotta senza quartiere contro la monarchia e i suoi sostenitori, oscurando la verità, come fece Luigi Salvatorelli nel libello “Casa Savoia nella storia d’Italia”, in cui affermò che Vittorio Emanuele III era «responsabile moralmente, politicamente e legalmente di tutti i misfatti del fascismo», in contrapposizione al “popolo”, innocente e operoso. Di lì la damnatio memoriae perpetua del sovrano. Un panorama dei combattimenti degli italiani contro i tedeschi dal 9 settembre, in coerenza con la direttiva del governo Badoglio, è in Pier Carlo Sommo-Alberto Turinetti di Priero (a cura di), “1943-1945. Dai Gruppi di Combattimento al nuovo Esercito Italiano”, “quaderno” dell’omonima Mostra, Torino, Anarti, 2022. Lo stato d'animo di un ufficiale della Divisione Granatieri di Sardegna che combatté 40 ore consecutive per “obbedire alle sacre leggi della Patria” e impedire l'irruzione dei germanici nel cuore della Capitale (dall'estrema periferia a Porta San Paolo e al Colosseo) è riflesso nell'esemplare “memoria” di Luigi Franceschini, “Cinquanta anni dopo”,