Giornata Commemorativa dell'Abolizione della Schiavitù. Dopo la conquista della regione di Tigré, il 14 ottobre 1935, il Comando Superiore Africa Orientale del corpo di spedizione italiano promulga il bando che decreta l'abolizione della schiavitù.
Quell’Italia coloniale che in Etiopia aboliva la schiavitù per sempre
La guerra d’Etiopia del 1935-36 è nota per l’impiego di armi e metodi vietati dalla Convenzione di Ginevra. Gli abissini utilizzarono le micidiali pallottole dum-dum ed erano soliti evirare i prigionieri bianchi e neri, gli ascari, mentre gli italiani utilizzarono i gas. Ma non è questo che oggi ci preme raccontare, i fatti poc’anzi citati sono già noti e ben documentati.
Fatto meno noto e spesso fatto passare in secondo piano, quando non addirittura taciuto, e che l’Italia in Etiopia abolì definitivamente la schiavitù.
La guerra iniziò il 3 ottobre 1935 con le truppe del Generale De Bono che varcarono il fiume Mareb. In pochi giorni l’avanzata procedette vittoriosa e le truppe italiane conquistarono il Tigrè.
La regione fu così chiamata dagli Amara che l’avevano conquistata e significa “sotto il mio piede”, cioè “servo”. Infatti gli Amara, nelle loro conquiste, erano soliti modificare i nomi delle popolazioni sottomesse con un nome simile ma storpiandolo con un significato dispregiativo, o addirittura con un nome che esprimesse il loro stato di schiavitù.
Inoltre l’Imperatore d’Etiopia, Hailé Selassié era semplicemente un monarca assoluto in una società ancora feudale, povera a pressoché totalmente analfabeta che doveva considerare “sacra la sua persona, inviolabile la sua dignità, indiscutibile il suo potere” secondo la costituzione.
ll primo atto ufficiale compiuto da De Bono giunto in quelle terre fu l’abolizione della schiavitù. Il 14 ottobre 1935 ad Adua promulgò il bando che metteva fuori legge lo schiavismo in tutta la regione del Tigrè, pubblicandolo in italiano e amarico.
Ora vediamo come l’Etiopia degli anni 30 era conosciuta in Europa e come era descritta sui quiotidiani internazionali.
L’inglese Evelyn Waugh scriveva, mettendo a confronto l’imperialismo dei bianchi europei con quello abissino: “Gli abissini non avevano nulla da dare, nulla da insegnare ai popoli loro soggetti. Imposero un sistema che era per sua natura micidiale e senza speranza”.
In una memoria dell’8 aprile 1932 del Segretario Parlamentare John H. Harris indirizzata al Foreign Office leggiamo: “Non credo che il nuovo Imperatore sia in grado di conoscere il numero degli schiavi che possiede. A centinaia essi si contano dentro i recinti delle sue terre e delle sue abitazioni. Ogni anno egli riceve doni di schiavetti di ambo i sessi”.
E il giorno seguente, il 9 aprile 1932, dalle colonne del Times tuonava Lord Noel Buxton: “La schiavitù in Etiopia va di pari passo con l’assenza di ciò che noi chiamiamo un regime di governo. Essa è in parte il risultato e in parte la causa della debolezza del meccanismo statale che è poco più sviluppato di quello del Medio Evo”.
Mentre il governo francese denunciava alla Società delle Nazioni che in “Etiopia, nonostante gli sforzi di Ailé Selalssié, non si è potuto sopprimere il flagello della schiavitù e della evirazione”.
L’anno dopo, nel 1933, viene pubblicato volume Slavery di Lady Katleen Simon, nel quale scriveva: “L’Etiopia è la regione più arretrata del mondo e colà il problema della schiavitù è urgente: sono esseri umani che divengono una semplice proprietà, proprietà che può essere torturata e venduta sul mercato al miglior offerente; si tratta di mogli vendute, separate dai mariti e viceversa; di madri strappate via dai loro figli che divengono proprietà di un altro. Insomma la schiavitù non riconosce neanche la maternità o la paternità e sancisce il diritto di spezzare le famiglie per ragioni di mercato”.
Il giornalista inglese Patrick Balfour ci descrive, sempre nel 1935, l’Abissinia: “Ho visto un popolo, l’etiopico, di civiltà bassissima, in uno stato primitivo di barbarie feudale simile a quello dell’Inghilterra del 1066”.
Mentre la Camera dei Lords, il 17 luglio 1935, denuncia attraverso le parole di Lord Noel Buxton che “l’Etiopia è ancora il principale centro della schiavitù del mondo”.
In un articolo sul Bohemia di Praga, ancora nel 1935, il giornalista tedesco Emil Ludwing scrive: “In tutte le carovaniere d’Etiopia si trovano oggi, come una volta, cadaveri di schiavi caduti per esaurimento, mentre altri muoiono prima, si dice più della metà, in conseguenza dell’evirazione”.
Oltre alla schiavitù nell’Etiopia feudale degli anni 30 vi era “la più assoluta indifferenza per la vita dei lebbrosi e secondo le informazioni dei Consoli di Sua Maestà, oltre centomila vagano liberamente per il paese…” secondo Lord Arnold Hodson ed ancora il professore svizzero Henri Rebeaud, che ha insegnò per tre anni al liceo Tafari di Addis Abeba: “La pulizia delle strade di Addis Abeba è affidata agli avvoltoi, agli sciacalli e alle jene”.
Inoltre l’avventuriero (e spia) Henry de Monfreid nel suo libro Verso le terre ostili dell’Abissinia riportava le parole dell’Imperatore d’Etiopia: “Credo l’influenza straniera salutare per il mio popolo […] Il mio Paese è come il palazzo della ‘Bella addormentata nel bosco’, in cui tutto è stazionario da duemila anni […] devo lottare da una parte, contro l’inerzia del mio popolo che preferisce chiudere gli occhi dinnanzi a questa luce violenta, troppo violenta e, dall’altra, contro l’impazienza dei filantropi europei”.
Ed infine si possiamo citare gli storici inglesi Jones e Monroe che all’inizio della guerra d’Etiopia il 3 ottobre 1935 dichiaravano: “Nessuno dovrebbe avere a ridire sull’espansione italiana, notevole e pressante. L’Italia è una nazione che abbisogna di materie prime per le sue industrie in via di sviluppo e di uno sbocco per la sua popolazione in eccesso. E’ arrivata ultima nella corsa alle colonie e a causa di un governo inefficiente, è stata poco considerata alla conferenza di pace. Le si deve una riparazione”.
E per concludere le parole del giornalista italiano Paolo Monelli, inviato di guerra in Etiopia: “Arcù. Fu la prima parola che si imparò in Africa Orientale, sbarcandovi nel 1935, soldati, guidatori d’autotreni, scaricatori di porto, operai delle imprese stradali; Arcù, dicevano battendo la mano sulla spalla dell’indigeno; ‘siamo amici’, e ci disprezzavano in cuor loro gli inglesi confinanti, ammonendoci che all’indigeno non si deve professare amicizia né dare confidenza: e poi li pagate troppo e li viziate.”
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