Ogni anno, inesorabilmente, arriva il 25 aprile e una persona sana di mente vorrebbe celebrare solo San Marco, ma le contingenze lo impediscono. Si è così costretti ad assistere all’eterno e stucchevole derby tra i paladini della libertà assoluta e i difensori dell’Ordine, di cui il fascismo sarebbe stato perfetta incarnazione. La verità è che sia gli uni quanto gli altri, assolutizzano un singolo concetto, distorcendolo e strumentalizzandolo. In un articolo del 3 febbraio 1972, Gustave Thibon, infatti, prende in considerazione la stretta e inscindibile correlazione tra Ordine e Libertà, così inaccettabile per la società moderna di cui, spiace dirlo, gli amici fascisti, certamente più simpatici dei loro nemici, sono comunque figli. Il pretesto che Thibon utilizza come espediente per sviluppare la riflessione è un battibecco che il filoso francese ebbe la sfortuna di intrattenere con un giovane “ribelle” della stagione sessantottina. Quello che Thibon definisce come “uno di quei giovani apostoli della <<nuova società>>” lo incalza così: “E’ impossibile discutere con lei perché non è che un difensore dell’ordine stabilito, mentre noi siamo gli uomini della libertà”. Il pensatore contadino allora ne approfitta per indagare, innanzitutto, il senso profondo dei due termini apparentemente contrapposti: ordine e libertà: “Ma ordine è anche il ritmo degli astri e delle stagioni, la salute fisica (cos’è la malattia se non il disordine?), la serenità dell’anima in pace con se stessa. La città armoniosa e fraterna, ecc. E quest’ordine è ben distante dal trovarsi in opposizione con la libertà. Al contrario, ne è il principio e la fine. La stella cadente è forse più libera del pianeta che gravita invariabilmente attorno al Sole? E se è vero che, nel campo dell’uomo e della società, l’amore sta alle anime come l’attrazione universale sta ai corpi, la manifestazione più alta della libertà non è allora l’obbedienza all’ordine voluto da Dio? Parere Deo libertas est (essere liberi è obbedire a Dio), diceva il vecchio Seneca.”
Thibon procede poi a scindere le due componenti dell’Ordine: l’armonia e il comando. Il secondo deve essere subordinato alla prima, la quale non può che essere il principio regolatore da cui far scaturire la legittima autorità: “E Dio, Signore assoluto dell’universo, offre l’esempio supremo di questa coincidenza tra l’autorità e l’amore, poiché il primo comandamento del decalogo intima di amare il nostro creatore al di sopra tutto e il prossimo come noi stessi.”
L’autore affonda dunque la propria tagliente analisi contro quei sistemi in cui l’Ordine è affidato all’esclusiva coercizione dell’individuo, in assenza di amore e di armonia, citando Platone, secondo cui “la città degenera nella misura in cui i suoi responsabili impongono al popolo la ginnastica invece che insegnargli la musica”.
In ultima analisi, l’unica via che garantisce l’Ordine senza rendere necessaria la militarizzazione di ogni angolo delle comunità, è quella che pone Dio al centro della propria esistenza sociale. Tale Ordine supremo fu incarnato, al meglio delle proprie possibilità, dalla società medievale: “La gerarchia e la diversità degli organismi sociali costituiscono una delle basi della comunità di destino. Gli organi di un corpo non sono uguali tra di loro; alcuni hanno dei "privilegi": il cervello, per esempio, si riposa più dello stomaco, e questo più del cuore e dei polmoni, e sono appunto queste "ineguaglianze" che, convergendo verso un fine comune, creano l'unità dell'organismo. Lo stesso accade per il "corpo sociale"; la sua unità è fondata sull'ineguaglianza e la gerarchia delle funzioni; è in epoche come il Medioevo, in cui le differenze sociali e i privilegi erano portati alla loro suprema espressione, che gli uomini hanno vissuto con la massima profondità la loro comunità di destino: la gioia del popolo alla nascita di un figlio di un re, la partecipazione di tutte le professioni, di tutte le classi alla costruzione di una cattedrale o alla partenza per una Crociata costituiscono un'abbastanza chiara testimonianza di questa unanimità sociale."
L’Ordine poliziesco, per Thibon, non è che una “caricatura dell’ordine”, così come l’atteggiamento sovversivo che sempre ne consegue, non è che una “caricatura della libertà”: “Ma queste due deviazioni, che su un piano superficiale si contrappongono, sono singolarmente apparentate in profondità, giacché entrambe procedono dal medesimo disconoscimento delle leggi fondamentali della natura e della società. E quel che attesta la loro rassomiglianza è la regolarità, dovrei dire anzi la meccanicità, con cui si alternano.” Prosegue con un monito che oggi come non mai suona allarmante, profetico e veritiero: “Il caos, negazione dell’ordine, dà i natali allo Stato totalitario, negazione della libertà.”
Storicamente, nota il filosofo contadino e noi con lui, ad ogni Rivoluzione ha fatto seguito uno spaventevole accentramento del potere, “un massiccio consolidamento dell’apparato amministrativo e poliziesco”.
L’Ordine e la Libertà, dunque, non possono che essere legati, in osservanza del precetto divino, il quale impartisce: “Che l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. In effetti la libertà in assenza di un principio regolatore, non è che schiavitù alla parte peggiore di sé, ai vizi e al peccato: “Si obbedisce sempre a una legge: alla legge del bene che libera o alla legge del male che incatena, giacché la seconda costituisce il calco rovesciato della prima.”
Conclude così Thibon, con parole che andrebbero scolpite nell’obnubilata coscienza dell’uomo moderno, in marcia costante verso la propria rovina: “Il disordine a cui lo trascinano le passioni trova il suo approdo e, al tempo stesso, la propria sanzione nella disgrazia individuale e nella riprovazione sociale. L’ordine applica i propri rigori a chi rifugge i suoi benefici. A tanti miei contemporanei, che giocano con la loro libertà come il fanciullo gioca con il fuoco, occorre ribadire che viene loro offerta una sola alternativa: ascoltare la chiamata dell’ordine oppure esporsi a un richiamo all’ordine che rischia di essere tanto più brutale quanto più a lungo si saranno rivelati sordi ai suoi appelli.”
La storia del fascismo, in effetti, seguì la meccanicità descritta sapientemente da Thibon: esso fu l’ancora di salvezza di un’Italia alla deriva, non-governata dai liberali, stremata dai disordini comunisti, provata dalla guerra. Mussolini propose al ceto medio, che necessitava di essere tranquillizzato, un ordine senza libertà (o comunque con libertà limitate, sicuramente meno coercitivo di altri regimi novecenteschi). Al Regime succedettero una guerra civile disordinata e fratricida e una Repubblica senza Dio né morale. Ora, dopo decenni di disordine, sembra scorgersi il profilo di un nuovo autoritarismo, fondato sul sanitarismo biologico e l’assolutizzazione del corpo da un lato e un razzismo etico, fondato sul politicamente corretto, dall’altro.
Manuel BERARDINUCCI