Ammonimento molto attuale. Meditino lassù nei palazzi... Una lucida analisi di Antonio Socci in merito alla recente celebrazione del "Dantedì".
La data scelta per celebrare ogni anno il Dantedì, il giorno di Dante, è il 25 marzo e forse non sarebbe stata gradita dal sommo poeta, uomo di fede, perché quel giorno per la Chiesa è la festa dell’Annunciazione (“l’angel che venne in terra col decreto/ de la molt’anni lagrimata pace,/ ch’aperse il ciel del suo lungo divieto”, Purg. X).
Il caso poi ha voluto che questo primo anno di celebrazione, il 25 marzo 2020, sia arrivato proprio nel pieno della crisi del coronavirus, mentre tutti cercavano di farsi forza cantando dai balconi “Fratelli d’Italia”, tutti si ripetevano che siamo una grande nazione e ce la faremo e tanti espongono il tricolore.
Così è accaduta una cosa strana. Da alcuni anni – fino a un mese fa – chiunque si azzardava a parlare di Italia, di identità italiana, di orgoglio nazionale, di sovranità, di patria, veniva incenerito su giornali e social come un sospetto nazionalista, un pericoloso perturbatore della fratellanza universale, un fomentatore di odio verso gli altri popoli.
Invece – con la tempesta del coronavirus e la ventata che ha fatto diventare tutti orgogliosamente italiani – la celebrazione di Dante è stata proposta da ogni parte come la festa di un padre della patria, al grido di “viva l’Italia”. Anche su quei giornali che per anni hanno sdegnato l’identità italiana come un attentato alla loro fanatica fede europeista e globalista.
C’è pure chi, con le migliori intenzioni, ha usato espressioni che volevano essere celebrative, ma che di questi tempi possono creare un equivoco, quando si è parlato di Dante come colui che ha “creato” o “inventato” il concetto di Italia.
Ci sono infatti intellettuali (di sinistra e/o globalisti) che negli anni passati hanno scritto articoli e libri sulla “presunta identità” italiana e – proprio considerando quante volte ricorre la parola Italia nella nostra letteratura – hanno sostenuto “che l’Italia sia stata, prima di essere una nazione e ben prima di essere uno Stato, un topos letterario, un tema, un motivo, una retorica, un’occorrenza, una creazione dei poeti, un azzardo dell’immaginario”.
C’è chi arriva a sostenere che è un’invenzione ideologica che poi ha partorito il mostro del nazionalismo guerrafondaio. In realtà Dante “pianse” le condizioni dell’Italia e ne cantò la bellezza, ma non “inventò” affatto l’Italia, la quale esisteva da più di mille anni.
Giustamente il Cattaneo, nel 1839, recensendo “La vita di Dante” di Cesare Balbo, osservava: “solo chi crede che i fiori facciano la primavera e non la primavera i fiori, può credere che i versi e le prose facciano le nazioni”.
L’Italia dunque esiste da più di duemila anni. Prima fu unificata dalla lingua latina, fatta propria da tutti i popoli italici. Poi, fra le varie evoluzioni regionali del latino, è stata riunificata proprio nel volgare toscano della Divina Commedia. In questo Dante è davvero un padre della patria.
Dante per primo ha “pianto” le condizioni penose dell’Italia “asservita” e rovinata da classi dirigenti perlopiù disastrose e in guerra fra loro (“Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta/ non donna di provincie, ma bordello!”, Purg VI).
Da questi versi sboccerà nella letteratura italiana, da Petrarca a Leopardi (passando per Machiavelli), il grande lamento poetico sulla nostra nazione ridotta a campo di battaglia di eserciti stranieri che la devastano per secoli e la sottomettono. E da questo sublime canto, che attraversa cinque secoli sboccia poi l’ideale risorgimentale dell’unità e dell’indipendenza nazionale (ideale ahimé in parte rovinato dai Savoia).
Ma c’è un altro tema “patriottico” in Dante che oggi dovremmo meditare. Qual è il peccato più grave che viene punito nell’inferno dantesco? Quali peccatori vanno nell’abisso più profondo?
Potrà sorprendere: sono i traditori. Nel IX Cerchio dell’Inferno, l’ultimo, troviamo il lago ghiacciato di Cocito, al centro del quale – il centro della terra – sta confitto Lucifero che stritola continuamente con le sue tre bocche le anime di Bruto, Cassio e Giuda.
Nel Cocito stanno diversi tipi di traditori, che sono divisi in quattro zone. Nella parte chiamata Antenora si trovano i traditori della patria. Il nome della zona deriva da quello di un principe troiano, Antenore, che, secondo una leggenda medievale (tuttavia diversa dal testo omerico), aveva tradito la sua città, la sua patria, aprendo le porte ai nemici greci.
Dante trova fra i traditori della patria personaggi a lui ben noti, nelle lotte di fazione del suo tempo. Fa riflettere che il nostro più grande poeta, simbolo della nostra identità nazionale, consideri il tradimento – di cui fa parte il tradimento della patria – come il peccato più grave da punire nel più profondo dell’Inferno (c’è chi lo ha ricordato, come ammonimento, anche di recente).
Nella Commedia del resto troviamo vari affronti al “politically correct”. Ma c’è pure un altro aspetto che oggi dovrebbe far riflettere. Infatti il sommo poeta colloca nell’inferno diversi papi e prevede la dannazione pure per il pontefice a lui contemporaneo, Bonifacio VIII, “lo principe d’i novi Farisei” (Inf. XXVII), colpevole di aver ingannato e straziato “la bella donna” (Inf XIX), cioè la Chiesa.
Dante, cattolicissimo, appare così agli antipodi del clericalismo e si permette questa sorprendente libertà. Invece, all’opposto, nel nostro tempo che è scristianizzato, dilagano il clericalismo e la papolatria. E soprattutto fra i non credenti.
Antonio Socci
Da “Libero”, 29 marzo 2020