QuiriSale! Mattarella-bis: hanno perso tutti. È crisi di sistema.


Il nome della rubrica de Lo Speciale, da ieri si può comodamente cambiare passando da “QuiriMale” a “Qui-Risale”. Il risultato, infatti, è questo, cioè, tutto come prima, tutto cambi perché nulla cambi (Draghi resta a Palazzo Chigi e Mattarella resta al Quirinale). E allora ci si chiede: a cosa è servita la stucchevole sceneggiata delle sacre stanze e dei voti, a cosa sono serviti e a cosa servano ormai gli attuali partiti, gli attuali leader, la stessa politica palesemente inutile, impotente, arrogante e di fatto commissariata?

Una cosa è certa: centro-destra, centro-sinistra e chi dall’alto pensava di entrare in scena all’ultimo, hanno clamorosamente perso. E la prova è che collettivamente hanno ripetuto a pappagallo davanti alle telecamere una narrazione ipocrita da falsi vincitori.


Hanno vinto? I partiti che non volevano Mattarella e che lo hanno subìto nelle votazioni, prima come rivolta dei peones, poi come atto di fiducia verso di lui, infine, come ultimo rimedio di fronte a una disfatta generale? Che razza di vittoria è?

La verità è che siamo di fronte non tanto alla sconfitta di uno schieramento, o di un semplice schieramento politico, ma ad una sconfitta di sistema.


Andiamo nel dettaglio. Ha perso Mattarella, che accettando l’accorata e ruffiana richiesta di una classe politica incapace di decidere in autonomia, ha dovuto smentire sé stesso, il suo percorso e ciò che ha sempre detto, a proposito della sua ineleggibilità, con tanto di riferimento dotto al presidente Segni, che tanti decenni fa, pose la questione, con relativa vanifica del semestre bianco. Indubbiamente ha vissuto un serio problema di coscienza: continuare il rispetto formale della Costituzione, almeno come lui l’ha interpretata (assai diversamente dall’interventista Napolitano), oppure, come ha fatto, sacrificarsi, nel nome e nel segno della stabilità delle istituzioni. E bisognerà vedere se il suo mandato sarà a tempo, fino alla scadenza della legislatura (per poi ripassare la palla, come qualcuno ritiene, a Draghi), o se proseguirà per altri 7 anni. Comunque gli fanno onore le parole che ha usato: “Senso di responsabilità che deve prevalere sulle prospettive personali”.

Per il momento (vedremo tra un anno e mezzo), ha perso pure Draghi, che ha commesso un grave sbaglio fin dall’inizio: legare la scelta del Colle, lui senza partito, alla medesima maggioranza che lo sostiene a Palazzo Chigi, col risultato che ha appesantito le nomination, vincolando le opzioni al futuro rimpasto governativo; tradotto, alle richieste che ogni partito, in funzione elettoralistica, gli ha rivolto istericamente. E se da una parte, dovrà gestire una classe politica intenta a leccarsi le ferite, dall’altra gli aspettano dossier non da poco: il caro-bollette, la crisi economica, i venti di guerra, la crisi energetica, pandemica, l’implosione degli schieramenti etc.

Ha perso Salvini, che ha sbagliato ogni mossa pur di sottrarsi agli schemi altrui. Col risultato che ha diviso il centro-destra e ha indebolito forse definitivamente la sua leadership. Per mere esigenze di protagonismo interno allo schieramento, ed esterno per i suoi elettori, ha tentato di esser centrale (dimenticandosi di far parte di una maggioranza di governo), si è fatto bruciare ogni nome: Berlusconi (che aprendo a Mattarella, si è subito furbescamente rialzato), la triade Moratti-Nordio-Pera, poi Frattini, Casini, poi la Casellati, la seconda carica dello Stato, e infine la Belloni (carta coperta, la Cartabia), spostandosi sempre più a sinistra.


E fine dei giochi, si è rassegnato al nulla di fatto istituzionale, tornando anche lui al punto di partenza. Come se questi giorni non fossero mai stati vissuti. Potevano avvertirci prima, ci saremmo risparmiati una settimana inutile, chiacchiere inutili e maratone televisive stracolme di analisi da salotto. Che hanno espresso solo l’autoreferenzialità e il pensiero unico di una classe politica e giornalistica vecchia.
Infine, ha perso Letta, che ha gestito le varie nomination stando totalmente fermo (non avendo i numeri per imporsi), sapendo perfettamente dove si andava a parare. Ma il Pd non ha fatto una bella figura. E’ interno ormai al Palazzo e lontano anni luce dalla società. Dà per scontate le operazioni di vertice. E insiste nell’atteggiamento ideologico di cassare e delegittimare gli avversari per definizione. E ha perso sonoramente la battaglia sulle donne, ormai appalto della destra.

Il teatrino che ci ha portati ai bordi di partenza, implica però, una riflessione più profonda. L’impasse acclarato denota un limite strutturale della Repubblica, da cui non si esce. La continua, ossessiva, richiesta di un uomo di alto profilo, di spessore, capace di rappresentare l’unità nazionale, contrasta con i meccanismi istituzionali di questa forma di governo. Ogni scelta, riguarderà sempre uomini di parte, con una precisa sensibilità e provenienza, sponsorizzati da una parte, espressione di una parte, con l’obiettivo di fare gli interessi di quella parte. Che magari nell’esercizio della loro funzione presidenziale, una volta eletti, potranno anche fare al meglio tale lavoro (e ognuno, va detto, nella storia repubblicana, l’ha fatto e interpretato diversamente, da Pertini a Cossiga, da Napolitano a Mattarella). Ma il tema resta: un uomo per essere realmente indipendente, garante del bene comune e degli interessi generali, deve essere “terzo”. Ma è un cane che si morde la coda. Quando la politica ricorre a un terzo, uscendo dal seminato politico, lo pesca o potrebbe pescare tra la magistratura, la diplomazia, i tecnici. Ci immaginiamo una Repubblica rappresentata da un pm (sarebbe una Repubblica manettara), o da un tecnico che risponde unicamente alle lobby, o da un dirigente dei servizi segreti? Nessuno è veramente neutrale. Ergo, la Repubblica non è in grado di risolvere il problema e bisognerà assistere a ogni scadenza presidenziale a questa insopportabile saga delle nomination e dei giochi sotterranei da palude partitocratica. Da questo punto di vista, ha ragione la Meloni, meglio una Repubblica presidenziale: il capo dello Stato eletto dal popolo. Ma pure qui, domanda: il sentiment dell’opinione pubblica, porterebbe al migliore, al competente o al demagogo del momento, secondo la pancia del Paese? Anni fa avremmo eletto Di Pietro, oppure ancora Draghi, che ha condannato all’apartheid una parte della popolazione (i no vax), o lo stesso Mattarella che ha condannato a più riprese l’Italia sovranista preferendo chiaramente l’Italia europeista (scelte legittime, ma di fatto divisive). Oppure per provocazione, qualcuno avrebbe scelto Magalli.

Rimane la monarchia costituzionale, separando costituzionalmente lo Stato, sottraendolo alla conflittualità e agli appetiti dei partiti, dal governo frutto del voto popolare e figlio di maggioranze che vanno e vengono.
In fondo, la regina Elisabetta, non appartiene a nessun partito, è garanzia di terzietà, e tutti, laburisti e conservatori possono riconoscersi (non è questa una precondizione di unità nazionale e stabilità delle istituzioni?).
Non è per caso questo che si chiede anche a un presidente, appalesando un mai risolto complesso monarchico della Repubblica?
Un concetto che ha capito, ad esempio, il costituzionalista Cassese: “Meglio una monarchia, purché borbonica e non sabauda”.
Ironia a parte, la crisi è di sistema e la via d’uscita è molto difficile.


Fabio TORRIERO