LA VITA
Della nascita di Francesco non si conosce con certezza né il giorno, né il mese e neppure l’anno. Comunemente, si accetta il 1182 come anno della sua venuta al mondo. Sia alla nascita che al fonte battesimale, il padre Pietro di Bernardone dei Moriconi, era assente, e la madre, la nobil donna Pica Bourlemont, d’origine provenzale, gli mise il nome Giovanni. Al ritorno dal viaggio di lavoro in Francia, il padre lo chiamò Francesco. Era una famiglia della borghesia nascente della città di Assisi.
Riceve la prima formazione in famiglia, specialmente dalla madre Pica, molto devota e pia. Intorno ai 6 anni frequenta il primo grado di istruzione per 5 anni. Vi si insegnava a leggere e a scrivere non solo in latino (la propria lingua), ma anche in francese; a cantare inni liturgici e salmodia; e anche a misurare secondo i non facili calcoli del tempo. E molto probabile, invece, che, per la sua elevata condizione economica e per assicurarsi una qualsiasi apertura alla vita sociale o alla carriera militare, Francesco abbia frequentato anche un corso di formazione superiore, presso qualche abbazia vicina.
La crisi
Prima del crollo definitivo di un progetto, c’è sempre un barlume di speranza, in cui l’uomo resta completamente solo con sé stesso, solo con la propria ambiguità, solo con l’essere di cui non si è potuto realizzare. Alla prima occasione, riemerge all’improvviso un guizzo dell’ideale desiderato. La campagna antimperiale, promossa dal papato nell’Italia meridionale, offrì a Francesco la possibilità di arruolarsi, per il raduno in Puglia. Così, tutto impettito nella lussuosa armatura militare a cavallo, e con profonda commozione e vivida speranza, prese commiato dai suoi cari in pena, dagli amici invidiosi e dalla ridente città natale. Il viaggio della speranza durò un sol giorno: nella tappa-sosta di Spoleto.
Episodio di Spoleto
Che cosa è accaduto? Difficile dirlo. Solo congetture.
Le Fonti ricorrono al soprannaturale con l’espediente della visione in sogno. Altre ipotesi: un improvviso riacutizzarsi della malattia; qualche dispetto di commilitone; la riflessione sulle finalità dell’arruolamento per guadagno e non per ideale; un ripensamento sull’inutilità della guerra per risolvere i problemi sociali... Questi e altri pensieri avranno turbinato nell’animo di Francesco, durante la prima notte della sua avventura militare. Il ritorno inatteso e solitario fa scalpore in Assisi. Un mormorio di curiosità e di dicerie passa di porta in porta e da bocca a bocca. I genitori assoporano l’amarezza della delusione. Francesco è provato dalle contrastanti emozioni, da cui si sente circondato dentro e fuori casa.
Al rientro da Spoleto, divenne più riservato solitario e taciturno, ma anche più attento alle esigenze degli altri e più prodigo verso i poveri. Cominciò a percepire una maggiore sensibilità verso la caducità della vita e delle cose. Questo “distacco” gli permetteva di essere libero-da e dare un diverso gusto alla vita, con uno spiccato bisogno interiore di stare solo con sé stesso e di abbandonare ogni altra occupazione. Onde, la ricerca di luoghi solitari e impervi. Al distacco dalle cose, Francesco aggiunse anche il “silenzio” dalle cose, aprendosi all’origine della loro esistenza, tanto da provocare in lui profonda gioia interiore, e contribuire a dimenticare anche le precedenti sofferenze. Nel cuore di Francesco era tornato la gioia: aveva trovato il segreto che lo rendeva “libero” da ogni cosa e “aperto” a ogni realtà.
Bacio al lebbroso
Ne è un esempio l’episodio del “lebbroso”. Nel contado di Assisi erano abbastanza evidenti i segni della guerra: lutti miseria malattie carestia disordine morale... La mancanza di adeguate strutture per la prima assistenza concreta costringeva alcuni ad “arrangiarsi”, girovagando per le campagne deserte, in cerca di qualcosa per sopravvivere o per tranquillizzare l’animo esacerbato dalla lotta fraterna tra ricchi e poveri. Disumana, invece, era la condizione del malato di lebbra, lasciato solo con sé stesso in balia del suo male. In un momento della sua crisi, Francesco si aggirava per le campagne in cerca di tranquillità interiore, e si incontrò con un lebbroso. Superata l’istintiva ripulsa, lo abbracciò e gli consegnò il denaro che possedeva. Con questa nuova gioia, fece il pellegrinaggio a Roma, in S. Pietro, come “finto” povero.
Preghiera al Crocifisso
Ai piedi del Cristo crocifisso, per es., la preghiera si trasformò in contemplazione, fino all’immedesimazione: Francesco si trovava come sospeso tra la profondità della sua psiche e la trascendenza di Dio: “Sommo e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio, e dammi fede retta, speranza certa e carità perfetta, saggezza e conoscimento, o Signore, affinché io faccia il tuo santo e verace comandamento” (Preghiera davanti al Crocifisso, in K. Esser, Gli Scritti di S. Francesco d’Assisi, Ed. Messaggero, Padova 1982, pp. 452-453).
L’invocazione di Francesco al Crocifisso segnò il momento decisivo della sua crisi. Anche l’espressione “ripara la mia casa che è in rovina”, gettò indicibile gioia nel cuore di Francesco, che si sentì investito della missione di riparare la cappella di S. Damiano. Anche l’episodio di Foligno perfeziona la sua volontà che lottava tra due sofferenze: quella per il disagio provocato all’ambiente familiare; e l’altra per l’ostacolo non superato a riparare la casa del Crocifisso per mancanza di fondi.
Intensificò, perciò, raccoglimento e preghiera. Grande giovamento ricevette dall’ascolto di alcune espressioni evangeliche, diventate di moda per la diffusione ad opera dei movimenti pauperistici. Si ricordano alcune che dividono il cuore: “Se uno non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 26); “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14, 33); “È più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei Cieli” (Mt 19, 24); “Chi avrà lasciato casa fratelli sorelle padre madre figli campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eternal” (Mt 19, 29); “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello sorella e madre” (Mc 3, 35).
La dura decisione
Mentre Francesco era tutto intento a gustare l’immensa gioia interiore, proveniente dalla Parola del Signore, ecco che gli venne notificato, dai messi dei Consoli di Assisi, la citazione di comparizione, avanzata dallo sconsolato padre, Pietro di Bernardone. Senza punto scomporsi e valendosi di una consuetudine, diffusa tra gli eremiti e i penitenti, si autodichiarò servus ecclesiae, sottraendosi così alla giurisdizione dell’autorità civile. Nella piazza, dove il Vescovo amministrava la giustizia, si presentò Francesco tra l’emozione di alcuni e la curiosità di molti. E compì la “dura” decisione della sua conversione.
La prima esperienza apostolica
Il campo della primitiva esperienza è Assisi. Gli ascoltatori sono i suoi concittadini. Nel vederlo e ascoltarlo, alcuni consideravano Francesco un fallito e un pazzo, altri si lasciarono commuovere dalla sua scelta. La parola di Francesco usciva dal cuore per potenza e ricchezza d’amore. All’amore non si resiste, si risponde solo con amore. E Francesco, con parola semplice e d’amore infuocata, riusciva a risvegliare negli ascoltatori più benevoli quella scintilla d’amore divino, insito in ogni cuore, che dalla curiosità porta all’ammirazione e alla sequela.
I primi compagni
Il primo gruppetto era composto da 5 amici, di cui due sacerdoti, Pietro e Silvestro; due laici, Bernardo ed Egidio; e lo stesso Francesco. Dopo l’esperienza in Assisi, per la quale era sufficiente l’autorizzazione del Vescovo per predicare il verbum exortationis, Francesco fu come spinto da un impulso interiore a travalicare i confini del contado, per espandere la fragranza della sua gioia nelle località limitrofe. Improvvisò così una piccola spedizione missionaria, inviando gli amici a due a due per le vicine città.
Nel momento della verifica ad Assisi, Francesco si accorse delle reali difficoltà cui andava incontro il suo ideale e cominciò a pensare ai problemi di organizzazione. Come proposta viene fuori la necessità di dare al gruppo una organizzazione interna e garantirne la struttura giuridica. Per attuarla si decise di andare dal signor Papa, per chiedere la conferma al loro “propositum vitae”. Così, il gruppetto andò a Roma, ottenendo la conferma orale da parte di Innocenzo III.
La fondazione dell’Ordine
La prima Regola, presentata da Francesco nel 1221 per l’approvazione da Roma, è detta non bollata, perché non ricevette alcuna conferma da parte del Papa. In un momento molto provato della sua vita, Francesco riuscì, con la collaborazione di frati esperti e della stessa curia romana, a scrivere una nuova Regola, che Onorio III approvava con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223. Così, dal 1223 nasceva la Regola bollata dell’Ordine dei Frati Minori, che regola a tutt’oggi la vita dei francescani.
L’amore per la Terra Santa
Nel primo Capitolo Generale dei Frati Minori del 1217, Francesco divise il mondo da evangelizzare in “province”: tra le undici appare anche quella di Terra Santa, che comprendeva Costantinopoli e il suo impero, la Grecia e le sue isole, l’Asia Minore, Antiochia, la Siria, la Palestina, l’isola di Cipro, l’Egitto e tutto il resto del Levante. Fu affidata alle cure di Frate Elia, figura preminente nella nascente fraternità, sia per il suo talento organizzativo, sia per la sua vasta cultura. Nel 1219, lo stesso Francesco volle visitare almeno una parte della Provincia di Terra Santa. Durante la sua presenza tra i Crociati, sotto le mura di Damietta, incontrò il Sultano d’Egitto, Melek-el-Kamel, nipote di Saladino il Grande.
Il Natale di Greccio
Amore e fantasia in Francesco vanno sempre insieme, per il suo animo naturalmente poetico. Lo si evidenzia principalmente nel Natale del 1223, in cui lo spirito poetico spinge Francesco a rappresentare l’evento storico dell’Incarnazione, che gli ricordava la discesa sulla terra dello stesso Dio, rivestito di umiltà povertà e innocenza, quasi a simboleggiare i tre voti della scelta esistenziale. Rappresentazione che spiritualmente si può leggere anche come un peana di ringraziamento per il dono ricevuto dell’approvazione della Regola dalla Chiesa, pochi giorni prima (29 novembre!). Così, nel bosco di Greccio, Francesco rievoca per la prima volta la rappresentazione natalizia: nasce il Presepe! Della sua vita, forse, questo sembra l’“episodio più delicato e anche più ardito”, da cui prende inizio l’arte nuova della pedagogia “realistica”, sganciata dall’imperante simbolismo: la rievocazione dei fatti evangelici o la Bibbia dei poveri.
L’ “ultimo sigillo”
Il Natale non è disgiunto dalla Pasqua: ontologicamente la Pasqua precede e perfeziona il Natale. Di conseguenza, il Natale rivissuto da Francesco non poteva non proiettarsi verso la Pasqua, che, per sé, è sempre preceduta dalla sofferenza della Croce. Così, senza saperlo, Francesco si prepara a ricevere il “sigillo” pasquale sul sasso della Verna. Le sue richieste di “sentire nell’anima” la Croce, e di provare “nel cuore” la gloria della risurrezione vengono inaspettatamente assecondate dal Cristo, che, per lui, inventa il dono delle Stimmate. E così, Francesco, dal 14 settembre 1224, divenne un alter Christus. Il divin Poeta immortala l’evento con la terzina: “Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarono” (Paradiso, XI, vv. 106-108). Il termine “sigillo”, raffigurante l’Agnus Dei, secondo l’uso dei lanieri, garantiva l’autenticità della merce soltanto dopo il terzo o “ultimo sigillo”. Applicato a Francesco voleva significare che, con le Stimmate o “ultimo sigillo”, la sua santità non aveva bisogno di altra autenticazione.
Dopo l’episodio delle Stimmate, Francesco è certamente stanco e sofferente. Il Vicario Generale frate Elia, insieme al Vescovo Guido di Assisi cercarono di farlo riposare e curare. Venne ospitato a San Damiano da Chiara e le sue Sorelle. E qui, Francesco compose il suo capolavoro Il Cantico delle creature o, meglio, Il Cantico del Creatore.
La morte
Gli ultimi due anni di Francesco furono certamente segnati con più profondità da “sorella sofferenza” sia per le Stimmate e sia per tutte le altre malattie del corpo. Nella primavera del 1226, mentre si trovava a Siena, sententosi mancare, dettò un “piccolo” Testamento. Dopo, mentre si trovava nel convento delle Celle a Cortona, ne fece scrivere un altro, l’ultimo, e volle che fosse legato alla Regola. Dalle sorgenti del fiume Topino, nei pressi di Nocera Umbra, dove si trovava, Fancesco si fece trasportare ad Assisi, alla Porziuncula, per esalare l’ultimo respiro al tramonto del 3 ottobre 1226. Il suo corpo, dopo aver attraversato Assisi e sostato in San Damiano, venne sepolto nella chiesa di San Giorgio, da dove, nel 1230, la salma venne trasferita nell’attuale basilica, due anni dopo la sua canonizzazione da parte di Gregorio IX con la bolla Mira circa nos del 19 luglio 1228, fissando la festa liturgica al 4 ottobre.
Il secondo Ordine o Clarisse
Tutta Assisi parlava delle “bizzarie” del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”. Nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di San Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio, e, sicuramente, in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara. Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi del suo ideale di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio. Nella notte seguente la domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola, dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva. Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore. Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare. Successivamente, Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove, nel 1215, a 22 anni, Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò per le “Povere donne recluse di San Damiano” una prima Regola di vita, nel 1215, sostituita da quella di Chiara, approvata il 9 agosto 1253 da Innocenzo IV. Il secondo Ordine costituisce l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano.
Il terz’Ordine secolare (OFS)
Il Terz’ordine francescano, dal 1978 Ordine Secolare Francescano, è l’estensione dell’ideale francescano al mondo laicale. I primi laici francescani sono ritenuti i beati: Lucchese e Buonadonna da Poggibonsi, contemporanei del Fondatore. Proprio con riferimento alla loro conversione e all’abito penitenziale che ricevettero da Francesco, alcuni riconoscono la nascita del Terz’ordine francescano a Poggibonsi, in provincia di Siena. Nell’arco di quasi otto secoli di storia, la Regola dell’OFS ha registrato tre interventi ufficiali da parte di Roma: Nicolò IV con la bolla Supra Montem (18 agosto 1289); Leone XIII con la costituzione Misericors Dei Filius (30 maggio 1883); e PaoloVI con il breve Seraphicus Patriarcha (24 giugno 1978), che vige tutt’ora.
Il Terzo Ordine Regolare (TOR)
In parallelo all’OFS, si sviluppa anche il Terzo Ordine Regolare (TOR), una forma comunitaria di vita di perfezione con la professione dei consigli evangelici e con un apostolato aperto a tutte le necessità esistenziali dell’uomo: dal servizio pastorale a quello assistenziale educativo e scientifico. La prima approvazione ufficiale del TOR risale a Bonifacio VIII con la bolla Cupientes cultum (11 luglio 1295); Giovanni XXII, con la bolla Altissimo in divinis (18 novembre 1323) ribadisce l’approvazione ecclesiastica; Niccolò V, con la bolla Pastoralis officii (20 luglio 1447), approva la federazione delle fraternità in un Ordine centralizzato, con un unico Ministro e un Consiglio generale; Leone X con la bolla Inter caetera (20 gennaio 1521) diede al TOR la Regola propria, separandolo definitivamente dall’OFS; Pio XI, con la bolla Rerum conditio (4 novembre 1927), approva una nuova Regola; Giovanni Paolo II con il breve Franciscanum vitae propositum (8 dicembre 1982) sancisce la Regola attuale.
GLI SCRITTI
Sembra uno scherzo della storia: Francesco d’Assisi, autodefinitosi “homo sine litteris”, venga celebrato anche fra i poeti e i maestri di spirito. I suoi Scritti, oltre a essere destinati all’insegnamento interno dei suoi frati, soddisfano anche il gusto estetico. L’afflato dell’arte, benché istintivo, echeggia nel linguaggio semplice scorrevole e carezzevole, almeno di alcuni dei suoi Scritti, come la Salutatio virtutum (Il saluto alle virtù), il De virtute effugante vitio (La virtù per allontare il vizio), il Cantico delle creature, che esprimono un sicuro e indiscusso valore poetico e anche artistico. Tutti gli Scritti, eccetto il Cantico delle creature, sono vergati in un latino parlato, abbastanza idoneo a esprimere sentimenti di natura spirituale e mistica nella loro delicata gamma espressiva.
Nel loro insieme, gli Scritti rivelano una forte carica emotiva, derivata più dall’esperienza spirituale che da tensione estrinseca. Per questo, lo stile denota un carattere meno razionale che emotivo, più rivolto all’aspetto immediato della verità rivelata che alla sua comprensione, più impegnato all’esaltazione di Dio presente nella natura che alla stessa realtà oggetiva. La natura assurge a “segno” e “simbolo” della realtà divina, con la conseguenza che del mondo Francesco ha più una visione religiosa che scientifica, più mistica che reale.
Cantico delle Creature
Altissimu, onnipotente, bon Signore, | Altissimo, onnipotente, buon Signore, |
Ad te solo, Altissimo, se konfano, | Solo a Te, Altissimo, si addicono, |
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, | Sii lodato, o mio Signore, con tutte le tue creature, |
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: | Sii lodato, o mio Signore, per sorella lune e le stelle; |
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento | Sii lodato, o mio Signore, per fratello vento |
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, | Sii lodato, o mio Signore, per sorella acqua, |
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, | Sii lodato, o mio Signore, per fratello fuoco, |
IL PENSIERO
Il pensiero di Francesco si presenta molto variegato e di difficile sintesi organica e sistematica. Attraverso l’analisi tematica della frequenza di parole chiavi nei suoi Scritti, emerge un corpus di idee essenziali che contengono una sicura Weltanschauung (concezione del mondo e della vita) originale e geniale insieme. Questa concezione della vita e del mondo spazia dalla teologia alla filosofia, dalla valutazione positiva della natura alla necessità di un impegno sociale, dalla necessità del lavoro come mezzo normale di sussistenza alla scelta della povertà volontaria come ideale di umanesimo e al proposito della pace fondata più sul dialogo che sulla forza. Questo corpus di idee può essere raggruppato in quattro istanze: teocentrinche cristologiche ecclesiali e filosofiche.
Istanze teocentriche
Le idee teologiche sono facilmente catalizzabili intorno ai misteri principali della fede cristiana: Dio, Cristo, Maria, Chiesa, Eucaristia. Il pensiero di Francesco in queste verità è espresso in uno stile piano e semplice, più intuitivo che dimostrativo, spesso anche poetico: si snoda senza seguire alcun modello precostituito, né si organizza intorno a schemi prestabiliti. Del poeta, manifesta sensibilità, intuizione e immaginazione, riuscendo a trasformare i sentimenti veri e profondi in immagini vive ed efficaci; del mistico, invece, vive l’esperienza meravigliosa della paternità di Dio in tutte le sue implicanze spirituali.
Dall’uso dei titoli divini, si ricavano utili indicazioni su Dio in rapporto all’essere (unità semplicità incorporeità perfezione eternità santità), all’intelletto (onnipotenza, onniscienza, sapienza) e alla volontà (giustizia amore e misericordia). Come linguaggio, Francesco utilizza sia quello catafatico o positivo sia quello apofatico o negativo: con il primo esprime la vasta gamma dei sentimenti verso Dio; con l’altro, i limiti nel parlare di Dio, in quanto “è misterioso” (Giud 13, 18), ossia ineffabile per eccellenza. I titoli più suffragati: Pater, Dominus Deus, Omnipotens, Altissimus.
Francesco ha di Dio una visione unitaria e originale ben marcata, che investe la sua semplicità radicale, percepibile solo nella visione mistica della vita. La realtà empirica è considerata meno naturalisticamente che teologicamente, nel senso che l’incanto del mistero di Dio illumina l’essere in tutti i suoi spessori. Francesco è come “incantato” da questa luce ineffabile di Dio. Il suo linguaggio più positivo che negativo spiega anche il senso metaforico dell’uso dei nomi divini, che si riferiscono quasi sempre all’agire di Dio ad extra, e mai in quello ad intra. La visione teocentrica che emerge è rappresentabile nello schema: la fede in Dio Padre conduce alla scoperta del Figlio di Dio Incarnato, la cui sequela riconduce a Dio Padre attraverso l’opera dello Spirito Santo.
Istanze cristologiche
Dai titoli e dai relativi contesti in cui vengono utilizzati, si evince che Francesco è conquiso e affascinato dal mistero della divinità di Cristo. I titoli più utilizzati: Dominus, Filius Dei, Deus verus, Corpus et sanguinis Domini. Dalla visione d’insieme, si evince che Francesco ha una conoscenza del mistero cristologico, come rivelazione del mistero trinitario che si realizza storicamente in Cristo e continua nella Chiesa, fino al termine del tempo. La centralità del Cristo è considerata più nella luce della divinità e dell’uguaglianza con il Padre nello Spirito Santo, che in quello dell’Incarnazione.
L’idea principale che si deduce è quella di una visione dell’amore divino verso l’uomo che fa aprire Francesco al sentimento di riconoscenza e ringraziamento, di adorazione e benedizione verso Colui che solo piace a Dio, perché lo ama come Dio. Interessante notare: il titolo di Sapientia, che, benché usato una sola volta, costituisce come il fondamento a tutti gli altri titoli nella costruzione della vita cristiana e religiosa. La sua mancanza, infatti, è la causa di chi non si converte, di chi non crede, di chi non segue il Cristo, di chi si allontana dalla retta via, di chi non osserva ciò che ha promesso, perché non ha conosciuto l’amore, ossia “il Figlio di Dio, che è la vera Sapienza del Padre” (Epistola ai Fedeli II, 67). L’esperienza religiosa di Francesco appare, perciò, come immersa nell’oceano dell’altissimo e ineffabile mistero di Dio, dal quale trae alimento, vita e gioia.
Istanze ecclesiali
Dagli Scritti di Francesco emerge con evidenza l’unità teologica del suo pensiero. Anche nei titoli “ecclesiali” o del “Regno di Cristo”, attraverso la trilogia dei misteri – Chiesa, Eucaristia e Vergine Maria – ne è una testimonianza eloquente. Questa trilogia è considerata da Francesco meno come verità isolate che estensione nel tempo dell’azione di Cristo. Per quanto riguarda, per esempio, il mistero della Chiesa, messa in discussione da alcuni movimenti pauperistici ed ereticali, Francesco manifesta il suo modo di sentire la Chiesa, attraverso l’uso e la frequenza di titoli - santità e romanità - che denotano profonda fede sia alla gerarchia costituita e sia alla realtà misterica insegnata.
L’Eucaristia rappresenta per Francesco meno un mistero di devozione e di adorazione che la sintesi efficace del disegno di Dio sull’umanità. L’utilizzo dei titoli nell’esprimere questo mistero fondamentale rispecchia il clima di confusione che regnava all’epoca. Come per i titoli ecclesiali, così anche per quelli eucaristici, la preoccupazione di Francesco è di ordine teologico e disciplinare, perché intende salvaguardare il suo movimento da ogni ingerenza estranea all’ortodossia, e proteggere i suoi frati da eventuali abusi in una materia così delicata.
Da uno sguardo generale ai titoli e alla varietà degli Scritti, in cui vengono utilizzati, si evince che per Francesco l’importanza dell’Eucaristia consiste meno nell’elemento cultuale che nel mistero della presenza reale del Signore, come cuore del disegno di salvezza voluto da Dio. Da ciò, scaturisce anche la venerazione verso il “sacerdote”, visto come colui che confeziona e amministra l’Eucaristia.
Dai due testi mariani, il Saluto alla Vergine e l’Antifona all’Ufficio della passione, si ricava l’impressione che le idee di Francesco derivino più da un atteggiamento di fede vissuta nella dottrina insegnata dalla Chiesa, che da uno studio sull’argomento. Nella loro composizione, Francesco evita di parlare della Vergine Maria come realtà a sé stante, ma sempre in contesto teologico, perché il suo mistero non può essere compreso se non da chi appartiene già a Cristo: è presentata sempre come “dono” di Dio all’umanità. E come tale, Francesco sente irrompente il bisogno di elevare inni di ringraziamento; ed ebbro di gioia invita la stessa Vergine a cantare, insieme alla corte celeste, l’inno di lode a Dio, Uno e Trino. Le due composizioni sono principalmente delle preghiere contemplative, in cui la fede si effonde in esclamazioni di lode, ammirazione e ringraziamento a Dio, da non lasciare spazio al pensiero umano di pensare. Dei titoli, tre sono di natura mariana (Virgo, Domina e Regina), uno ecclesiale (Virgo ecclesia facta), uno cristologico (Mater Domini), e gli altri di carattere trinitario. Tutti ruotano intorno alla “maternità divina”.
Anche intorno al mistero della Madonna, Francesco è attratto dalla sublimità del mistero di Dio, Uno e Trino, e in lui contempla tutta la pienezza della divinità realizzata nel Cristo storico e nel Cristo della fede. Il contesto cristologico, pur essendo meno appariscente, è profondamente presente, tanto da costituire il centro della vita di Francesco. Interessante è l’aspetto ecclesiale dei titoli mariani, specialmente attraverso la bella espressione “Maria, quae es Virgo ecclesia facta” (Maria è la Vergine fatta Chiesa), come a dire: Maria è venerata come la prima Chiesa consacrata da Dio, e in senso storico e in senso spirituale. Oggi, potrebbe corrispondere al titolo di “Madre della Chiesa”.
Istanze filosofiche
Di fronte al mistero di Dio, Francesco tiene ben distinta la conoscenza dalla dimostrazione della sua esistenza. L’idea di Dio nasce in lui da un’esperienza originaria, che si chiarisce e definisce in atteggiamento religioso. Lo conferma il suo linguaggio, la cui caratteristica fondamentale conserva ancora una mentalità simbolico-mitica e mistico-poetica. In diversi luoghi dei suoi Scritti, si parla di una conoscenza di Dio, in cui si possono distinguere tre aspetti diversi e complementari: conoscenza di Dio in sé, conoscenza di Dio nell’uomo e conoscenza di Dio nel mondo. Brevemente.
Conoscenza di Dio in sé
Il leit-motiv della conoscenza di Dio in Francesco è la fede nella “creazione”, che, da un lato, manifesta la sua indiscussa certezza nella potenza creatrice divina, e, dall’altro, rivela il limite ontologico della natura umana. Pensiero espresso chiaramente nella Regola non bollata (Rnb): “I frati annuncino agli increduli la parola di Dio, perché credano in Dio onnipotente Padre Figlio e Spirito Santo come creatore di tutte le cose” (Rnb 16, 7); “Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il Signore Iddio onnipotente, nella trinità e unità, Padre Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose” (Rnb 21, 2); “Onnipotente, santissimo, altissimo e sommo Iddio, Padre santo e giusto, Signore e Re dell’universo, per te stesso ti rendiamo grazie, perché, per la tua santa volontà e mediante l’unico Figlio tuo nello Spirito Santo, hai creato tutte le cose spirituali e materiali, e noi, fatti a immagine e somiglianza tua…” (Rnb 23, 1ss).
Quale il fondamento filosofico di questa conoscenza?
La risposta di Francesco impressiona per semplicità e profondità, ma anche per difficoltà ermeneutica: “Considera, uomo, in quale condizione ti ha innalzato il Signore Iddio: ti creò formandoti a immagine del suo diletto Figlio per il corpo, e a sua immagine per l’anima” (Ammonizione, 5, 1). Come l’immagine tende per sua natura a ritornare alla propria origine, così anche l’essere umano diventa uomo, quando, trascendendo sé stesso, tende a identificarsi con la realtà di cui è immagine.
Conoscenza di Dio nell’uomo
Nell’aspetto della conoscenza di Dio nell’uomo, Francesco rivela anche la sua visione antropologica: “Tanto vale l’uomo quanto vale davanti a Dio, e non di più” (Ammonizione, 19, 3); “Lo Spirito del Signore abita nel cuore dei suoi fedeli” (Ammonizione, 1, 12); “Costruiamo sempre nei nostri cuori una stabile dimora al Signore Iddio onnipotente” (Rnb 22, 27); “Coloro che vivono nella conversione continua e si nutrono con fede dell’Eucaristia, sono benedetti e beati, perché lo Spirito del Signore riposerà su di essi e nei loro cuori costruirà la sua stabile dimora” (Epistola ai Fedeli, I, 3-6); “Lo Spirito del Signore riposerà su di essi e nei loro cuori costruirà la sua stabile dimora” (Epistola ai Fedeli, II, 48). L’idea principale emergente da questi testi è la certezza che Dio abita nel cuore dell’uomo, come dono, del quale l’uomo non può aver alcun motivo per gloriarsi, come lui stesso ricorda: “Anche se fossi così intelligente e sapiente, da possedere ogni scienza ed essere in grado d’interpretare ogni lingua e di penetrare nei misteri celesti, non potresti vantarti di queste qualità” (Ammonizione, 5, 5). Riconoscere questo rapporto creaturale significa essere di Dio, appartenere a Dio, ascoltare Dio e ricambiare tale amore.
Conoscenza di Dio nelle cose
Il riconoscimento di Di in sé stesso orienta l’attenzione di Francesco, quasi naturalmente, verso la sapienza divina presente nella realtà dell’universo, come si evince dal Cantico delle creature, che sviluppo è in tre tempi: apertura intuitiva al trascendente teologico, intuizione del trascendente immanente nel mondo, e ritorno laudativo e contemplativo al trascendente teologico. Ogni tempo scandisce un preciso attributo divino: l’Onnipotenza di Dio che ha chiamato all’esistenza ogni creatura; la Sapienza di Dio che conserva nell’ordine le cose create; e l’Amore di benevolenza con cui Dio assiste l’essere creato. Come i tre attributi esprimono la medesima realtà, così anche i tre tempi del Cantico vanno considerati nella loro unità, come l’invocazione iniziale esprime “Altissimu onnipotente bon Signore”: con il termine “Altissimu” viene esprime l’assoluta trascendenza; con l’“onnipotente”, la potenza creatrice; e con il “bon Signore”, l’amore di benevolenza.
In sintonia con la mentalità simbolica del XII secolo, Francesco afferma poeticamente che all’uomo è impedito ontologicamente di parlare in modo positivo e affermativo di Dio: “et nullu homo ene dignu te mentovare”; e ringrazia lo stesso Dio per la consapevolezza che gli ha dato della sua immanenza anche nell’universo: “laudato sie, mi signore, cum tucte le tue creature”. Di fronte all’umana impossibilità di penetrare la trascendenza di Dio, Francesco si concentra sul vestigium Dei, espresso bellamente dal verso: “de te, altissimo, porta significatione”, che richiama la tradizione fondata su Isaia: “se non crederai, non potrai comprendere” (Is 7, 9); cui fa Alano di Lilla (1120-1203): “La lira poetica nella corteccia superficiale della lettera risuona falsamente, ma interiormente manifesta agli uditori il segreto di un significato più elevato, affinché gettata via la scorza della falsità esteriore, il lettore trovi internamente il nucleo più dolce della riposta verità” (De planctu naturae, cit. in Henri De Lubac, Esegesi medievale, ed. Paoline, Roma 1972, II, p. 1340; M.D. Chenu, La teologia nel medio evo, Jaca Book, Milano 1972, p. 175); “ogni creatura dell’universo è per noi quasi un libro, un quadro e uno specchio [di Dio]” (Rytmus, cit. in M. D. Chenu, Op. cit., pp. 184-185); e Ugo di San Vittore che considera il mondo come un “libro scritto dalla mano di Dio” (Didascalicon, cit. in M. D. Chenu, Op. cit., p. 185).
Lo sviluppo dell’immagine della natura-libro porta a considerare non solo l’invisibile sapienza di Dio, anche la diversità dei lettori: chi crede e chi non crede. La chiave di lettura, perciò, è la fede che riesce a leggere il valore ontologico delle cose e a fare il salto di qualità verso la sapienza di Dio; chi non crede, l’“insipiens”, si ferma soltanto all’aspetto esteriore delle cose. La lettura della natura di Francesco è da “sapiens”, cioè non limitata all’essere che appare, ma trascende la dimensione percettiva per penetrare all’interno dell’essere fino a cogliere l’aspetto ontologico delle cose sottraendole ai limiti del linguaggio puramente esperienziale e scientifico.
Autore: P. Giovanni Lauriola ofm, da http://www.santiebeati.it