Intervista a Marcello Veneziani a cura di Fabrizio Vincenti per il Primato (novembre 2022).


Non è ottimista. Ma non per questo si è chiuso, come molti altri intellettuali, nella sua torre d’avorio. Marcello Veneziani, ricordando un po’ il Montanelli che invitava a turarsi il naso e votare Dc, alle scorse politiche si è speso pubblicamente per il centrodestra. Ma non lo ha di certo fatto né per opportunismo, né, tantomeno, illudendosi che la vittoria di Meloni potesse garantire chissà quali cambiamenti. Marcello Veneziani ha manifestato lucido realismo, tutto qui, cercando forse di salvare il poco salvabile. Senza farsi illusioni e indulgere nella retorica della «destra finalmente al governo» che rischia solo di essere l’ennesima bruciatura per chi, da decenni, ha solo raccolto sonore fregature. Per lo scrittore e saggista, il nuovo governo rischia di poter (o voler) fare ben poco. Anche dal punto di vista del cambio di paradigma politico e culturale. A partire dalla collocazione internazionale – quasi sempre in ginocchio – dell’Italia e dal recupero di tutta la sua memoria storica.

Sulla Verità ha scritto a chiare note che non si vuole (e non vuole) illudere: farà davvero poco di destra questo governo?

«Al di là delle intenzioni e della buona o malafede, i margini per incidere veramente e per cambiare radicalmente sono molto ristretti. Ho fatto ricorso all’immagine della matrioska per far capire che la bambola del governo è dentro una serie di bambole più grandi – istituzionali, europee, atlantiche, economiche e globali – e dunque ha un raggio limitato d’azione. Se a questo aggiungiamo l’assenza di un forte e preparato gruppo dirigente e di un lavoro precedente di formazione, strategia e selezione, allora si deve realisticamente dedurre che è meglio non coltivare illusioni. Certo, sarebbe bello essere smentiti, ma in partenza bisogna avere i piedi per terra e giudicare dalle condizioni reali di partenza».

Nel libro dei sogni invece cosa si aspetterebbe da un governo di centrodestra?

«Oltre la capacità di affrontare con efficacia le emergenze sociali ed economiche di questo momento, mi aspetterei quel che è purtroppo impraticabile, viste le condizioni di partenza: un ripensamento radicale dell’Italia in ambito internazionale e un ripensamento della stessa Unione europea come è oggi concepita; un capovolgimento dei ruoli tra politica e tecno-economia; un’ardita politica sociale ed economica di riconoscimento dei bisogni e dei meriti; una politica per la famiglia, per le nascite e per l’assistenza degli anziani; una ripresa non retorica, ma effettiva, della memoria storica e della dignità nazionale; una battaglia culturale per smantellare l’egemonia ideologica della sinistra e del progressismo politically correct su tutti i piani. Ma stiamo sfogliando il libro dei sogni».

Come definirebbe, politicamente parlando, il movimento di Fratelli d’Italia?

«È un movimento che si autodefinisce conservatore, seppur di un conservatorismo non liberale e liberista ma sociale, nazionale e tradizionale. Però in virtù delle alleanze interne e internazionali, si presenta come un partito a vocazione atlantica, occidentalista e mercatista. Ha il beneficio e al tempo stesso la fragilità di un partito senza precedenti di potere, che dovrà mettere a frutto e insieme scontare la freschezza dell’inesperienza».

Meloni non ha fatto mistero di appiattirsi totalmente sulle posizioni atlantiste: c’è da aspettarsi almeno una maggiore libertà di azione in sede europea? 

«La posizione atlantista è sconfortante e indebolisce tutta la forza e la coerenza del sovranismo e della politica di dignità nazionale, ma le vanno riconosciute due attenuanti: lo ha dichiarato subito, con la guerra in Ucraina e non ha aspettato adesso per dirsi atlantista e allineata alla Nato e agli Usa; e poi non dimentichiamo che se non avesse accettato quella “servitù” oggi non sarebbe assolutamente in procinto di guidare un governo. Per riuscire a sottrarsi a questa colonizzazione ci vorrebbero spalle larghe, alleanze solide, strategie lungimiranti… condizioni che attualmente non vediamo; e speriamo che sia un difetto della nostra vista.

In Regione Toscana, Fratelli d’Italia vota a favore del riconoscimento dell’antifascismo e della resistenza, considerate come radici della Regione stessa, nel suo statuto: è tutto normale, o qualcuno sta esagerando?

Se si tratta di fotografare una realtà di fatto, di una Regione storicamente “rossa”, egemonizzata dal Pci e poi dal Pd, è un riconoscimento di fatto. Ma che le regioni debbano richiamare un loro statuto ideologico, dichiarare la loro religione civile, è aberrante. Capisco le ragioni della realpolitik e anche per questo non riuscirei mai a militare in un partito politico…

Cosa farebbe se lei fosse Giorgia Meloni il 25 aprile prossimo?

Piuttosto che seguire la linea infame di Fini e Urso sul fascismo come male assoluto, dovrebbe dire “Basta” dopo 80 anni all’uso politico e polemico del fascismo e dell’antifascismo. Se invece le toccherà di commemorare la data (ma ci penserà già Mattarella), si limiti a una sobria nota storica che evidenzi anche le ragioni per cui mezza Italia e più non si è riconosciuta in una festa dominata dalle bandiere rosse e dalla sinistra comunista. Può rilanciarla come festa di pacificazione nazionale e di superamento delle ideologie passate, dal fascismo al comunismo. Devo riconoscere che l’unico tentativo di qualche intelligenza sul 25 aprile fu fatto da Berlusconi premier quando cercò di trasformare la festa della liberazione in festa della libertà; magari fu un escamotage democristiano che riconosceva il ruolo decisivo di liberatori agli alleati più che ai partigiani. Quello fu, a modo suo, un tentativo per consentire a tutti o quasi di riconoscersi in quella festa.

Cambiamo casa politica: alla Lega potrebbero riaprirsi spazi alla destra di Fdi sempre più spostata verso il centro?

Forse, ma non è detto che ciò avvenga e in ogni caso diffiderei delle posizioni assunte solo per ragioni di strategia dei like e calcoli elettorali. Manca alla Lega un retroterra coerente a quei temi. E sussistono nella Lega due linee ben diverse: sposare la linea liberista e mercatista o tornare sulle posizioni nordiste del vecchio federalismo autonomista.

Tre spunti per vincere, o almeno riaprire, la battaglia sull’egemonia culturale della sinistra. 

1)Non avere paura, laddove si hanno personalità affidabili e credibili, di adottare lo spoil system in tutti gli ambiti di cultura, arte e spettacolo sottoposti all’egemonia intollerante della cupola di sinistra;  2) Ovunque vi siano finanziamenti pubblici a fondazioni, associazioni, organismi di sinistra, ridistribuirli in parti eguali con fondazioni, associazioni e organismi di segno opposto (altrimenti si tagliano i fondi); 3) Attivare iniziative a ogni livello, tra informazione pubblica, scuola, università in cui si compensino le letture, le narrazioni, le iniziative, i testi orientati in senso progressista con altri di segno opposto. Non eliminare ma integrare, compensare, come vuole una vera democrazia. Ma so che non si farà, il timore delle mafie culturali è troppo forte, il complesso d’inferiorità pure; meglio compromessi di basso cabotaggio per quieto vivere…

Cosa rimane, se rimane qualcosa oltre alla Fiamma, del Msi di Almirante e di quello di Rauti in Fratelli d’Italia? 

Rimane un’eredità impolitica – ideale, sentimentale e storica – non traducibile nel presente politico. Anche perché la politica del Msi era fondata sulla testimonianza e sulla certezza di restare un’eterna, nobile opposizione, mentre una politica di governo, che esercita un potere nel nome della maggioranza e si rivolge a tutto il popolo italiano e non a una fiera minoranza, dev’essere fondata sull’efficacia. Non si deve testimoniare o evocare, ma si deve fondare, costruire, fare.


Da https://www.marcelloveneziani.com/lo-scrittore/interviste/senza-troppe-illusioni/