Il 21 maggio 1988 muore a Bologna Dino Grandi, due settimane prima di compiere l'età di 93 anni. Egli fu uno dei politici Italiani più importanti del XX secolo: eroe di guerra, ideologo, costruttore e organizzatore del Fascismo, teorico della politica, artefice del prestigio Italiano all’estero e del rinnovamento dei codici giuridici nazionali. Spesso viene citato il suo nome in modo superficiale, facendo esclusivo riferimento agli avvenimenti del 25 luglio 1943, allorché fu promotore del noto ordine del giorno che sfiduciò Mussolini al Gran Consiglio del Fascismo. Egli fu invece un personaggio di grande levatura, con idealità originali e capace di straordinarie intuizioni politiche e socio-economiche, la cui vita fu lunghissima e ricca di avvenimenti.
Prima parte
1. Dalla nascita alla Grande Guerra
Dino Grandi nacque il 4 giugno 1895 a Mordano, in Provincia di Bologna, da Lino e Domenica, in una famiglia schiettamente rurale. Il padre era un eccellente amministratore di grandi tenute e poderi, considerati modello di efficienza agricola. Di orientamento liberalmonarchico, a suo tempo era stato seminarista, ma, dismessa la tonaca, aveva maturato un leggero anticlericalismo. Nonostante ciò, il giovanissimo Dino Grandi mostrò subito una notevole e spontanea religiosità, tanto da diventare un assiduo frequentatore della parrocchia.
Egli frequentò il liceo a Ferrara, divenendo presto entusiastico sostenitore delle opere di D’Annunzio e Marinetti. Le sue letture filosofiche preferite erano Croce e Nietzsche e fu subito affascinato dagli ideali del socialismo Cristiano di Romolo Murri, cui aderì con convinzione profonda. Le altre figure fondamentali per la sua formazione furono Andrea Costa, primo socialista ad entrare in Parlamento e altresì amico del padre, Alfredo Oriani, poeta e scrittore del celebre La Rivolta Ideale, e il gruppo filosofico e letterario legato al giornale La Voce di Papini e Prezzolini, che raccoglieva, come scrisse lo stesso Prezzolini, le minoranze di tutte le maggioranze insoddisfatte e stanche. Un decisivo influsso su di lui ebbero altresì Pareto e Sorel.
Inizialmente Grandi apprezzò assai anche l’opera di Salvemini, ma in seguito ne fu molto deluso, sia per la di lui chiusura preconcetta al Fascismo sia per via di meschini attacchi personali che lo stesso Salvemini riservò a lui e alla sua famiglia: addirittura, ai tempi in cui il figlio di Grandi voleva iscriversi ad Harvard, dove Salvemini insegnava, minacciò proteste per impedire l’iscrizione in quell’università del figlio di un esponente fascista. Grandi lo considerò perciò un uomo che non ebbe da Dio il dono della tolleranza e della bontà. In seguito, importante per lui fu la figura del giurista Vittorio Scialoja, al cui fianco avrebbe a suo tempo rappresentato l’Italia presso la Società delle Nazioni.
Sin dai tempi del liceo, Grandi individuò l’obiettivo della futura politica nazionale, ciò che sarebbe stato la costante stella polare della sua azione: coniugare gli aspetti positivi proposti dal socialismo, individuati nell’ascesa delle classi popolari verso il benessere economico e la responsabilità politica, con gli ideali patriottici e religiosi, depurando lo stesso socialismo dagli schemi assurdi e pseudoscientifici del marxismo e da tutti i suoi distruttivi corollari massimalisti. L’imperativo della sua idea politica fu perciò ricongiungere le masse allo Stato, costituire quella che egli chiamava democrazia nazionale, attraverso il sindacalismo pure nazionale. Si sarebbe così realizzato quel “fare gli Italiani” rimasto incompiuto durante il Risorgimento. In queste idealità sono già in nuce le caratteristiche del Fascismo e del suo corporativismo. Questi nobili scopi furono via via più chiari a molti intellettuali dell’epoca appena precedente la Grande Guerra, tra i quali particolarmente apprezzato da Grandi fu Mario Missiroli, che scrisse nel 1913 il notevole Monarchia socialista.
Sostenitore della Guerra di Libia, vista in termini pascoliani come un ridestarsi dell’Italia proletaria, il politico di Mordano si avvicinò alla Lega Democratica Nazionale, di ispirazione murriana. Come disse egli stesso, i suoi aderenti erano Cattolici senza essere clericali, socialisti senza essere marxisti, nazionalisti senza peccare di sciovinismo.
Diplomatosi nel 1913, dati i numerosi e variegati interessi, Grandi ebbe forti dubbi sull’indirizzo universitario da intraprendere: valutò le facoltà di medicina e di lettere, ma alfine si risolse per giurisprudenza, nell’ateneo bolognese.
Allo scoppio della Grande Guerra, diciannovenne, divenne in breve tempo la voce principale dell’interventismo rivoluzionario universitario bolognese, iniziando un’intensa attività giornalistica.
Entrato nella redazione del Resto del Carlino su richiesta di Nello Quilici, amico di Italo Balbo, fu talmente apprezzato che fu chiamato dallo stesso Quilici a Roma come giornalista parlamentare.
In verità la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia lo colse con Quilici proprio a Vienna, dove i due si stavano occupando di giornalismo, letteratura e filosofia (stavano tra l’altro approntando una traduzione dell’Introduzione alla vita beata di Fichte). Grandi ci ha lasciato un quadro molto interessante e malinconico dello stacco che vi fu tra la Vienna del 1914 e quella del 1919:
“L’ultimo ricordo che portai con me della Vienna asburgica fu una serata all’Opera, dove si rappresentava il ‘Cavaliere della Rosa’ di Richard Strauss. Il grande teatro sfolgorava di colori e luci, nei palchi dorati si affollavano donne, ufficiali con luccicanti decorazioni sopra uniformi bianche, nelle logge di centro e di proscenio arciduchi e dame di corte. L’ultima visione di una ‘felix Austria’, di una Vienna ottocentesca, gaia, felice. Il Prater pieno di bambini, di fontane, di coppie di innamorati; il Ring di carrozze che si incrociavano; il Danubio di bagnanti. Cinque anni più tardi, nel 1919, dopo il crollo dell’Impero, sarei ritornato in uniforme di capitano degli Alpini nella stessa Vienna tragica, squallida, affamata; nei palchi dorati dell’Opera non più principi, arciduchi, dame, cavalieri, ma ciechi di guerra, mutilati in stampelle in lacere divise e sul Ring, dove per secoli era passata orgogliosamente la gloria degli Asburgo, poveri ufficiali col petto decorato di croci al valore stendevano la mano domandando l’elemosina con le lacrime agli occhi.”
A Roma è il periodo del grande scontro politico tra interventisti e neutralisti, quelli che Grandi nel 1985, moltissimi anni dopo, definì i mesi drammatici della indecisione e della passione, ovvero quei dieci mesi misteriosi nei quali sta non soltanto la radice e la ragione di quanto è avvenuto negli anni che seguirono, ma altresì la radice e la ragione dei problemi insoluti che affaticano e tormentano oggi, esattamente come settant’anni or sono, ma in termini più drammatici, la vita attuale dell’Italia.
Egli, nel corso dei mesi matura sempre più l’idea interventista, prima a Roma, dove continua a lavorare con Quilici come giornalista parlamentare, poi a Bologna, dove scrive con Caroncini per il settimanale L’Azione. Dopo l’adesione di Mussolini all’interventismo e la sua espulsione dal Partito Socialista, vicende che Grandi seguì nella sua qualità di giornalista parlamentare, si ha il primo contatto epistolare tra i due. Grandi gli scrive tra l’altro:
“Voi avete da combattere contro una borghesia insufficiente di propositi e di azioni, piena soltanto di retorica e di menefreghismo, contro una democrazia furba e trustaiola, contro la nuova chiesa socialista professante il dogma della vigliaccheria e contro da ultimo tutti gli imbecilli scimuniti che staranno con voi e contro di voi. Ma avrete tutti i giovani, i giovanissimi, che pieni di inquietudine e di sdegno per quest’Italia fallita si preparavano, appena affacciati alla vita nazionale, all’acre rinunzia della loro speranza. Voi combattete in nome di questi, della nuova generazione ventenne che sarà domani al primo posto nelle trincee, e che si riattacca con fede e con orgoglio ai primi fratelli del Risorgimento.”
Il futuro Duce, ringraziandolo, gli scrisse:
“Ma bisogna combattere e farsi lapidare se occorre.”
A Ferrara, nel 1915, pronuncia un memorabile discorso davanti al monumento di Garibaldi, indossando una camicia rossa e invocando la “Guerra di Redenzione”, che vede come possibile e decisiva rivoluzione nazionale.
All’entrata in guerra lascia gli studi e parte volontario. Quella gioventù eroica scalpitava dal desiderio di misurarsi al fronte, ma il gruppo di tremila impetuosi universitari di cui faceva parte Grandi dovette aspettare tre mesi, al corso ufficiali di Modena.
“Tre mesi trascorsi nell’impazienza, per il timore che la guerra finisse troppo presto, non lasciandoci più tempo a combattere e a misurarci col nemico sui campi di battaglia dell’Isonzo e delle Alpi.”
Solo a leggere queste poche righe non possiamo non rimanere estasiati dal carattere e dall’ardimento di quei giovanissimi.
Grandi descrisse in seguito in modo sublime come quella guerra fu vissuta, una vera guerra di popolo, un’autentica guerra rivoluzionaria, coscientemente preparata dal Re, dal Parlamento, dal Popolo Italiano, quella guerra che avrebbe finalmente compiuto il Risorgimento, sancendo l’adesione delle masse popolari allo stato, secondo il vaticinio di Giuseppe Mazzini, di Carlo Pisacane, di Alfredo Oriani.
Egli voleva assolutamente essere assegnato a un reggimento di alpini, come poi lo fu anche Italo Balbo, suo futuro grande amico e camerata. Ma essendo alto e smilzo non aveva la misura di torace richiesta. Nonostante ciò si impegnò a fondo e al termine del corso risultò primo in graduatoria, sicché a titolo di premio la sua domanda fu accolta. Venne assegnato al VI Reggimento, Battaglione Alpini Verona, che aveva il suo centro di reclutamento appunto a Verona. Per un caso del fato, prestò giuramento nella medesima sala dove molti anni dopo un tribunale a lui ostile l’avrebbe condannato a morte, fortunatamente in contumacia.
Guidato dal leggendario Generale Cantore, il Battaglione diede battaglia in Trentino. Grandi indossava sempre sotto la giubba una camicia rossa garibaldina, donatagli dalla fidanzata. Egli fece subito un grande sodalizio col suo Capitano (poi Generale) Vittorio Emanuele Rossi, che considerò un vero e proprio maestro.
Quando il Generale Rossi, molti anni dopo (1965), si trovò in punto di morte, chiamò i suoi antichi soldati sopravvissuti, che si recarono tutti al suo capezzale, a Thiene, Grandi compreso. Il morituro pronunziò le sue ultime volontà: Quando sarò morto portatemi su Monte Pasubio. Vorrei riposare tra le ombre dei miei alpini caduti lassù. Ed ora cantate. Tutti cantarono Sul cappello che noi portiamo ed egli spirò sorridente e felice. Grandi e gli altri lo portarono così nottetempo sulla cima del Pasubio.
Durante le operazioni belliche Dino Grandi diventa amico di Cesare Battisti, presto martire, con cui condivide le idee sociali e nazionali. Nel 1916 viene trasferito al X Gruppo Alpini, sul fronte del Pasubio e in seguito in Venezia Giulia. Grandi si segnala sempre per un notevole eroismo e le sue gesta lo portano alla promozione sul campo a Capitano ed al conferimento di una Medaglia d’Argento, una di Bronzo e due Croci di Guerra.
Dino Grandi alpino nella Grande Guerra
Circa la vicenda di Caporetto, Grandi ha sempre biasimato i disfattisti e gli autolesionisti, ritenendo il rovescio non dissimile a quelli avuti da altri eserciti vittoriosi in quella guerra. Constatò tuttavia che l’affievolimento dell’entusiasmo del ’15, causato anche dai gravi errori compiuti dai nostri Stati Maggiori Generali, stava esitando in un’incrinatura tra Esercito e Nazione.
Ma il Piave li ricompattò in un’anima sola e Grandi fu tra coloro che, ribaltata la situazione, volevano inseguire il nemico fino a Lubiana e fino a Vienna. Egli si trovava coi suoi soldati sui monti del Bellunese fugando il nemico sempre più in là, quando giunse il 4 Novembre, l’armistizio, la Vittoria.
Vittorio VETRANO
Continua con la seconda parte: "Dallo squadrismo rivoluzionario al Governo"