Seconda parte del Focus di approfondimento dedicato al Conte Grandi.
2. Dallo squadrismo rivoluzionario al Governo
Dopo la Vittoria si congeda e si trasferisce ad Imola, riprendendo gli studi, che termina con una tesi in economia politica: La Società delle Nazioni e il libero scambio, dove esprime già quel convincimento che avrà anche da Ministro degli Esteri: per ottenere la pace europea è necessario incidere sull’economia evitando un eccessivo protezionismo e favorendo la circolazione di beni e denaro.
Rimasto deluso e intristito dalla decaduta situazione morale e materiale del paese appena uscito vittorioso dalla Grande Guerra, preferisce inizialmente dedicarsi all’attività forense e giornalistica più che alla politica:
“Non domandavamo – né aspettavamo – di essere ricevuti nelle nostre città sotto una pioggia di fiori (…) ma l’essere ricevuti come dei colpevoli per aver fatto il nostro dovere in guerra, questo no, assolutamente no.”
La Nazione appariva infatti a quei prodi tornati dalla pugna di gran lunga peggiore di quella che avevano lasciata:
“Furono anni grigi, cupi, feroci. Francia e Inghilterra avevano mancato alle loro promesse di alleati e l’Italia si trovò con la vittoria mutilata. Un sentimento si stava diffondendo rapidamente tra gli Italiani di tutte le classi, come una specie di malattia epidemica; l’Italia non ha vinto, ma ha perduto la guerra.”
In questo stato di cose si visse tra il 1919 e il 1920, il tremendo biennio rosso. I soldati venivano derisi, vilipesi. Vennero esaltati invece i disertori. Lo stato liberale in disfacimento era un relitto lontano dalla realtà di tutti i giorni, impotente. La dirigenza socialista dal canto suo, dopo aver capitolato di fronte alle violente correnti massimaliste abbacinate dalla rivoluzione sovietica, rifiutava di partecipare in modo efficace e deciso allo Stato, nonostante le pressioni della stessa Monarchia, e continuava nell’assurdo e criminoso dogma di tener distaccato il concetto di popolo da quello di patria. I socialisti ebbero addirittura la sfrontatezza di candidare e far eleggere alla Camera nientemeno che Misano, un uomo condannato per diserzione.
L’epica dannunziana Marcia di Ronchi e l’Impresa Fiumana, con tutto il bagaglio di idealità noto come Fiumanesimo, costituì l’unico riferimento positivo di quel biennio per tutti coloro che si opponevano al disfacimento nazionale.
Per il resto, tutto andò sempre più alla deriva e in molte province, massime quelle emiliane, iniziò un regime di violenza allucinante, orchestrato dalle bande rosse massimaliste, decise a instaurare la dittatura del proletariato sull’esempio dei sovieti. Le Camere del Lavoro divennero strumento di coercizione forzata dei lavoratori; i contadini furono oggetto di sopruso e boicottaggio; gli scioperi generali furono imposti con la forza e con la violenza, distruggendo ad uno ad uno i comparti economici della Nazione, con nocumento generale di tutta la popolazione. Molti iniziavano a reagire, anche semplicemente a livello personale. La guerra civile era già una realtà in tante parti d’Italia.
Di fronte a ciò occorreva perciò una reazione, forte, decisa, organizzata a livello locale e a livello nazionale. Dino Grandi si rese subito conto della necessità di detta reazione, ma era ancora incerto se impegnare tutto se stesso sul fronte giornalistico o più complessivamente attraverso una vera e propria azione politica.
La classica goccia che fece traboccare il vaso e lo spinse definitivamente all’azione politica fu un evento ben preciso, datato 17 Ottobre 1920. Era mezzogiorno ed egli usciva dal suo studio forense di Imola per rientrare a casa dei suoi genitori. In un centro cittadino piuttosto affollato, due sconosciuti lo aggredirono alle spalle e gli spararono. Grandi riuscì a divincolarsi e a non essere colpito dai proiettili. Si diede subito alla fuga, ma un ulteriore gruppo di forsennati cercò di sbarrargli il cammino minacciandolo di morte. Imboccata una via laterale prima di scontrarsi con quei delinquenti, si rifugiò in una casa che aveva la porta aperta. Là abitava una donna anziana, che lo nascose e lo protesse: infatti ai persecutori che vennero ad interrogarla, ella negò di aver visto alcun uomo. Il motivo dell’aggressione fu subito chiaro: Grandi era accusato di essere fascista (per quanto egli ancora non fosse iscritto al movimento, ma si fosse limitato ad apprezzarne alcune idealità).
Il fatto finì per essere citato alla Camera, poiché ricollegato a scontri precedentemente avvenuti a Bologna. Lo citò Federzoni, illustre deputato Nazionalista e futuro esponente Fascista, invocando la funzione naturale e legittima di difesa dello Stato, che non può ammettere tali empietà. Fu però interrotto da un deputato socialista, un certo Giacomo Matteotti, che ebbe la sfrontatezza e la volgarità di dire “E’ un fascista”. Come si può ben notare il famoso uccidere un fascista non è reato dei tempi degli anni di piombo risale a molti decenni prima. Facciamo notare che Giacomo Matteotti oggigiorno è uno dei personaggi più gettonati nell’intitolazione di vie in tutto il Paese, mentre tanti altri Italiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi sono colpevolmente dimenticati; lasciamo comunque al lettore ogni giudizio in merito.
Dopo questo avvenimento increscioso, Dino Grandi si decide: è ora di passare all’azione politica. E il movimento giusto era il Fascismo, a patto che si mantenesse incontaminato dal gretto liberalismo borghese e riuscisse a realizzare finalmente quel sindacalismo nazionale la cui via maestra era stata dettata dal compianto Corridoni, e che avrebbe dovuto preludere alla vera democrazia nazionale, produttivistica, corporativa (iniziava proprio allora a circolare il germe dell’idea corporativa) e apartitica. A quel tempo Mussolini non era però affatto convinto dell’importanza del sindacalismo e vi erano all’interno dell’eterogeneo movimento Fascista correnti con idealità apertamente antisindacali e esclusivamente “barricadere”, come quella cremonese di Farinacci, che Grandi non riteneva per nulla corrette e chiamava il massimalismo del Fascismo.
Tuttavia il feroce eccidio di Bologna del 21 novembre, quando i rossi assaltarono il consiglio comunale, gli fece rompere definitivamente gli indugi: nell’aula consigliare fu assassinato l’Avvocato Giulio Giordani, mutilato di guerra, grande esponente dell’Italia proletaria combattente e suo personale amico, e furono feriti altri degnissimi consiglieri. Per salvare la libertà e impedire lo sfacelo della Nazione non restava che una cosa da fare: accettare la guerra civile, entrare nel Fascio di Combattimento, combattere e vincere.
Due giorni dopo l’eccidio, un migliaio di nuovi Fascisti bolognesi, tra cui Dino Grandi e il futuro Rettore dell’Università Giorgio Del Vecchio, sfilarono per le vie della città in perfette formazioni militari.
Nasce così lo squadrismo, sorto come spontanea reazione armata alla violenza bolscevica. La guerra civile divampa sempre più e Grandi non si sottrae alla lotta, diventando l’organizzatore dello squadrismo bolognese, come Balbo lo fu di quello ferrarese, Muti di quello ravennate e Farinacci di quello cremonese.
Ormai a violenza si risponde con violenza in una spirale d’odio e di vendetta. Lucidamente e con obiettività invidiabile, sconosciuta ai più (basti pensare ai fautori del mito resistenziale), Grandi narrerà di quei giorni sanguinosi in questi termini:
“I massimalisti non cedevano, ma ad ogni episodio i Fascisti reagivano facendo seguire la rappresaglia che d’allora in poi sarà chiamata ‘spedizione punitiva’. In tutte le guerre, particolarmente nelle guerre civili, la parte soccombente è chiamata ad assumere tutta la responsabilità delle violenze, mentre la parte vincente assume le sembianze dell’agnello di pace.”
Infatti se è vero che a Fascismo vittorioso i responsabili delle violenze saranno allora additati esclusivamente i nemici del Fascismo, è ancor più evidente che dopo la seconda guerra mondiale esclusivamente ai fascisti sarà attribuita la responsabilità delle violenze, e agnelli di pace saranno chiamati senza discriminazioni i nemici del Fascismo.
Ma si tratta di pura mitologia, poiché:
“La verità è che la guerra civile è violenza, e questa non esiste mai da una parte sola.”
Mussolini, pur con una visione politica molto meno sindacalista di quella grandiana, apprezza subito l’abilità organizzatrice del politico di Mordano e in poco tempo Grandi diventa uno degli uomini di punta del movimento. La sua guida porta allo squadrismo felsineo una connotazione marcatamente sindacale e corporativa, agraria e contadina, decisa a sottrarre il mondo del lavoro al monopolio dittatoriale socialista. Nonostante la contrarietà degli antisindacali, tra cui Arpinati, riesce nel marzo del 1921 a costituire la Camera Sindacale del Lavoro della Città e della Provincia di Bologna, primo nucleo dei Sindacati Nazionali Fascisti, che nel giro di poco tempo avrebbero avuto centinaia di migliaia di iscritti (tra questi operai della terra, portuali e marittimi, impiegati, operai industriali, ferrovieri, tramvieri, postelegrafonici e così via) e sarebbero arrivati nel 1922 a superare il milione.
La sua azione si rivolge perciò contro le Camere del Lavoro, accusate di essere la sede di una vera e propria sopraffazione tirannica dei lavoratori: alla violenza socialista perpetrata contro i contadini e gli agrari, Grandi risponde con l’organizzazione degli assalti di difesa dello squadrismo, invocando ordine e disciplina nelle campagne bolognesi, in parallelo al ferrarese Balbo e al ravennate Muti.
Egli sviluppa in questo periodo originalissime idee, espresse in particolare sul periodico l’Assalto, relative alla promozione di una democrazia produttivistica sindacale apartitica, antesignana di un corporativismo molto spinto, che avrà un influsso decisivo sulla costituzione del Regime Fascista. Infatti nel futuro sistema Fascista il Partito avrà un ruolo del tutto diverso rispetto a ciò che avviene in altri regimi monopartitici (basti pensare al nazionalsocialismo tedesco e al comunismo russo). Esso non avrà il compito di indirizzare la linea politica del governo, né tantomeno quello di imporre l’organizzazione degli organi dello Stato: nell’impostazione grandiana, accolta in gran parte da Mussolini, il Partito deve assolvere più che altro a una funzione tecnica, diventando il luogo naturale di discussione e unione politica del Popolo d’Italia.
Secondo Grandi, in prospettiva il concetto di partito sarebbe stato superato dallo Stato produttivistico e in un futuro prossimo i partiti si sarebbero addirittura potuti sciogliere tutti, tanto che lo stesso Fascismo inteso come Partito fu considerato da lui un fenomeno transitorio, che doveva preludere alla vera e autentica Patria popolare, priva di fazioni e di partiti: questo sarebbe stato il Fascismo apartitico del futuro, riunente appieno tutti i fasci della Nazione, senza esclusione alcuna. Nettamente contrari a questa visione del Fascismo sarebbero rimasti sempre i farinacciani, legati a un’idea del Partito come strumento dittatoriale di educazione delle masse, e i futuri staraciani, legati a loro volta a un concetto “invasivo” del Partito come organo deputato a indirizzare tutti gli aspetti della vita degli Italiani, spesso anche quelli più privati.
Diventato il punto di riferimento del mondo del lavoro emiliano, Grandi viene eletto Deputato nel maggio del ‘21; tuttavia non avendo avuto l’età richiesta per quell’elezione (30 anni; egli ne aveva soltanto 26), viene un anno dopo dichiarato decaduto dal seggio.
Nell’insediamento della legislatura avviene un fatto curioso: i Fascisti, essendo un gruppo parlamentare nuovo e assai composito, non sanno quale posto prendere. Grandi propone di andare nella parte alta della sinistra, per diventare, recuperando un linguaggio che rimonta alla rivoluzione francese, la montagna della sinistra; alla fine Mussolini decide per l’estrema destra, poiché preferisce stare di fronte ai suoi vecchi compagni del Partito Socialista, piuttosto che star loro alle spalle.
Dopo le elezioni, Grandi continua ad essere la guida delle organizzazioni sindacali Fasciste con prospettive rivoluzionarie antiborghesi. A capo dei più accesi squadristi rivoluzionari emiliani e romagnoli, ostili ad ogni accordo con gli avversari, accolse assai freddamente il patto di pacificazione coi socialisti invocato da Mussolini, dicendo:
“Con il patto i rossi rialzano la cresta!”
Il giovane Grandi espresse questo suo pensiero in un articolo de l'Assalto il 6 agosto 1921, contestando aspramente la nuova linea morbida. La sua tenace opposizione, che potrebbe apparire identica a quella contemporanea di Farinacci, era in realtà di tipo molto diverso. Se per Farinacci il motivo era sostanzialmente barricadero, cioè occorreva ottenere la rivoluzione con la forza, spazzando via l’orda rossa ad ogni costo, per Grandi il motivo era sindacale: il patto di pacificazione, che prevedeva una sorta di consegna delle armi, avrebbe lasciato le neonate organizzazioni sindacali Fasciste senza protezione, alla mercé della violenza rossa, poiché i massimalisti non accettavano affatto il patto di pacificazione. Per difendere i lavoratori occorreva perciò ancora “mostrare i muscoli”.
Mussolini gli rispose tre giorni dopo sul Popolo d’Italia esigendo un chiarimento ed affermando che la Rivoluzione necessitava di un momento di tranquillità che preludesse alla vittoria finale, mettendo in conto anche un’eventuale scissione dell’ala oltranzista di Grandi o perfino le proprie dimissioni dal Movimento dei Fasci. Fu allora che Mussolini scrisse:
“Il Fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anch’io posso fare a meno del Fascismo.”
A questo punto si è quasi alla rottura e il Fascismo Emiliano è tutto con Grandi, e c’è chi pensa che questi sostituirà Mussolini a capo di tutto il Fascismo. Anche Farinacci, su posizioni identiche a quelle di Grandi (benché, come visto, mosse da prospettive diverse), viene indicato da altri come possibile nuovo capo.
Tuttavia l’unico ad avere un appoggio non limitato a specifiche province rimane Mussolini e sia Grandi che Farinacci non manifestano alcuna esplicita volontà di estrometterlo. Su un punto rimangono però fermi, e con essi tanti altri tra cui Balbo: il patto di pacificazione non deve passare.
Il 16 agosto del 1921 Grandi riunisce l’ala oltranzista a Bologna, che decide all’unanimità di chiedere a Mussolini la rescissione del patto; Mussolini risponde con le dimissioni dalla commissione esecutiva dei Fasci: il Fascismo rischia di perdere Mussolini. Di fronte a tale inaspettata crisi, Grandi e Balbo si rivolgono a D’Annunzio sperando in un suo intervento pacificatore, ma trovano il Vate non desideroso di gettarsi nell’agone politico.
Al congresso Fascista di Roma del novembre 1921 si paventa il definitivo annuncio della scissione, ma Grandi rifiuta di disgregare le forze del Fascismo e nel suo discorso si dimostra disponibile al compromesso, proponendo a Mussolini alcuni punti d’accordo, ribadendo però la sua contrarietà al patto di pacificazione. Mussolini risponde accettando le condizioni di Grandi. Il Congresso termina con le parole di Grandi:
“(…) il terzo congresso Fascista ha lo scopo di unire tutti perché soltanto con un blocco compatto, soltanto con una collaborazione sincera e fraterna di tutte le forze intellettuali si potranno raggiungere gli scopi prefissi.”
Detto ciò, scende dalla tribuna di corsa e si getta tra le braccia di Mussolini, tra i deliranti applausi di tutti i congressisti. Con la fine del congresso che si temeva lo dividesse, il Fascismo si ritrova invece unito più che mai e trasformato a grande maggioranza da movimento a Partito, il Partito Nazionale Fascista, destinato a guidare il paese per oltre vent’anni, con alla guida Benito Mussolini, il Duce.
Dal Congresso del ’21 fino alla Marcia su Roma, Grandi, convinto ormai che il Fascismo debba consolidarsi in modo organico, abbandona completamente l’intransigentismo degli anni precedenti. Egli si va infatti convincendo che lo squadrismo, fino ad allora necessario ed indispensabile, dovrà nel tempo lasciare spazio alla politica, poiché il Fascismo dovrà maturare e riuscire a fare la sua rivoluzione per gradi, all’interno dello Stato costituzionale.
Infatti, alla vigilia della Marcia su Roma del 28 Ottobre 1922, è molto dubbioso sulla sua opportunità e i giorni che la precedono, sin dalla cosiddetta Sagra di Napoli sono assai concitati sia all’interno del Partito, dove si hanno idee anche molto diverse circa l’eventuale attuazione della marcia, sia all’esterno, in particolare nel mondo liberale governativo.
Alla fine Mussolini organizza in modo militare la composizione delle squadre che dovranno marciare su Roma: tutte le camicie nere faranno capo a un Quadrumvirato, composto da De Vecchi, Bianchi, Balbo e De Bono; Capo di Stato Maggiore dei Quadrumviri sarà proprio Dino Grandi. Il tutto sarà perciò organizzato al di fuori degli organi di Partito. Pur in disaccordo su quest’ultimo punto, nonché ancora poco convinto sull’opportunità dell’insurrezione, nella veste di Capo di Stato Maggiore dei Quadrumviri Grandi è tra gli organizzatori della Marcia su Roma ed è anche uno degli artefici, insieme a De Vecchi, Federzoni e altri, dei continui contatti tra Partito, Casa Reale, Chiesa, Esercito, Parlamento e Governo, grazie ai quali, si ottiene un vero e proprio trionfo. Il progetto di stato d’assedio viene rifiutato dal Re, che, dopo una serie di tentativi infruttuosi di formare un gabinetto Salandra o Orlando, affida l’incarico di governo direttamente a Mussolini.
Improvvisamente si passa dal possibile caos a un completo ordine e si registra un giubilo generalizzato nella popolazione, che, unitamente alle Camicie Nere, si riversa nelle vie di Roma inneggiando per la prima volta alle due figure che guideranno per oltre vent’anni lo Stato Italiano: il Re e il Duce. La Rivoluzione, legalizzata al momento giusto dal saggio Sovrano, ha avuto pieno successo:
“Giornata davvero indimenticabile. Se è vero che Roma non si commuove se non alle cose straordinarie, dalla commozione entusiastica con cui Roma ha accolto e salutato stamane le cinquantamila camicie nere che per quattro giorni avevano atteso nei bivacchi di Tivoli, di Monterotondo, di Santa Marinella e che sono entrate nella capitale durante la notte; dall’ordine perfetto con cui tra ali di popolo festante la milizia fascista inquadrata dai propri ufficiali, è sfilata per ore e ore in perfette formazioni militari davanti al Capo dello Stato e al nuovo Presidente del Consiglio che era a fianco del Re sul balcone del Palazzo Quirinale; dalla disciplina con cui senza il minimo incidente, i reparti fascisti, obbedendo agli ordini di Mussolini, hanno lasciato nel pomeriggio e nella sera la capitale per fare ritorno nelle province, bisogna davvero concludere che abbiamo assistito ad una vicenda straordinaria, ad una giornata memorabile.”
Dopo la guerra civile, il Paese si è stretto così attorno a Mussolini e non domanda altro che pace e lavoro. Al nuovo Governo partecipano praticamente tutti salvo i socialisti e Grandi contribuisce in particolare alla formazione del Gran Consiglio del Fascismo, da allora organo consultivo di raccordo costituzionale tra i poteri dello Stato, e si dedica, su incarico di Mussolini, all’opera di normalizzazione cercando di contrastare il fenomeno del rassismo, deriva personalistica dello squadrismo locale, assai perniciosa per le stesse idealità del movimento. Grandi, con una grande attività oratoria e giornalistica nel bolognese e nel ferrarese, ottiene cospicui risultati.
Nel 1924 nuove elezioni: il PNF trionfa e Grandi è eletto nuovamente Deputato e diventa subito Vicepresidente della Camera, ad appena 29 anni; nello stesso anno si sposa con l’amata Antonietta Brizzi, sua conterranea. Questa donna, colta e bellissima, sarà un’eccellente moglie, che accompagnerà Grandi nella sua futura attività diplomatica.
Nel discorso fatto da lui a nome della maggioranza Fascista vi è l’espressione del più puro ideale:
“La politica è sintesi, ed è per questo che noi sentiamo che lo stato unitario nasce, dopo la sua tragica secolare vicenda, dalla composizione di due antitesi sino ad oggi inconciliabili: socialità e nazione. Soltanto da questa necessaria interpretazione storica poteva sorgere in Italia quella democrazia in potenza che si chiama fascismo.”
Perfino l’estrema sinistra risultò imbarazzata, condividendo evidentemente parte del discorso. Anche Mussolini era in quel periodo tutto orientato alla pacificazione e dal balcone di Palazzo Chigi disse:
“Periscano tutte le fazioni, anche la nostra, purché sia fatta salva la Patria.”
Anche in Parlamento, Mussolini pronunzia il famoso “discorso della conciliazione” e sono intavolate trattative con tutti i socialisti, salvo naturalmente l’ala oltranzista di Matteotti, che rifiuta per principio ogni tipo di dialogo.
In effetti due grandi oppositori insorgono contro questi tentativi di pacificazione: Farinacci e Matteotti, i due estremisti. Il primo, esponente dell’oltranzismo squadrista, non vuole avere niente a che fare coi socialisti; il secondo non vuole a sua volta avere niente a che fare coi fascisti: in pratica nessuno dei due vuole aver da spartir nulla con l’altro, sicché di fatto il loro obiettivo è paradossalmente il medesimo, far fallire la pacificazione.
Matteotti pronuncia infatti alla Camera un discorso, come ebbe a ricordare lo stesso Grandi, aspro, astioso, violento, allo stesso modo in cui Farinacci agita violentemente i suoi contro i socialisti.
Si addiviene così al delitto Matteotti, un delitto su cui non si fece mai vera luce. Fu un delitto preterintenzionale? A chi erano veramente legati gli assassini, provenienti probabilmente dal sottobosco squadrista milanese? C’era un mandante? Al di là di ciò che ha voluto far credere la mitologia antifascista, ci sono versioni diverse e non univoche degli stessi fatti. E’ stata ormai assodata la totale estraneità di Mussolini ai fatti, cui peraltro tale omicidio creò problemi politici giganteschi. Infatti gli unici che trassero vantaggio da codesto infame delitto furono paradossalmente proprio i seguaci di Matteotti, oltre naturalmente ai seguaci di Farinacci: entrambi gli estremismi ottennero il definitivo fallimento della pacificazione.
In proposito Grandi pronunziò alla Camera un discorso esemplare:
“Ci troviamo davanti a un triste episodio di ferocia individuale ed anarchica per il quale nessuna spiegazione e nessuna attenuante è possibile. L’onorevole Matteotti era un avversario, e la sua opposizione non fu sempre equanime e serena. Ma questa constatazione, che io faccio al di sopra di ogni rancore e di ogni ragione polemica, non turba e non diminuisce di una sola linea la nostra riprovazione e il nostro sincero dolore. Coloro che hanno così delittuosamente operato, o signori, chiunque essi siano, non possono e non debbono considerarsi nei ranghi di un partito politico qualsiasi (…) Bisogna pur dire che gli aggressori dell’onorevole Matteotti non hanno compiuto un delitto contro il socialismo; essi lo hanno bensì compiuto – e gravissimo – contro il fascismo (…) ma il fascismo, o signori, non entra in tutto ciò (…) noi dichiariamo che, con la stessa inflessibile energia con la quale domandiamo siano puniti i responsabili, con la medesima inflessibile energia noi agiremo contro tutti coloro che da questo fatto tristissimo intendessero per avventura inscenare una meschina speculazione di parte.”
Ma purtroppo i due massimalismi avevano vinto: della pacificazione non se ne fece più nulla.
Nel nuovo gabinetto, il Duce affidò la carica di Sottosegretario agli Interni a Dino Grandi, mentre Ministro diventava Federzoni. I due dovettero affrontare il periodo più difficile per il Fascismo di governo, poiché la sinistra inscenò un’interminabile sequenza di violente campagne, sulla stampa e in Parlamento, atte a pregiudicare con qualunque mezzo il Fascismo e il Governo.
Fu così l’inglorioso Aventino.
In settembre le campagne di violenza diedero i loro frutti insanguinati e il deputato fascista Casalini, sindacalista operaio ed eroe di guerra, veniva assassinato da mano antifascista. A fatica Grandi e Federzoni riuscirono a contenere la marea fascista desiderosa di vendicare il camerata. Rischiava così di ricominciare la spirale delle violenze.
Alla fine dell’anno avvenne un episodio decisivo per la trasformazione del Fascismo di governo in regime a partito unico: il 30 dicembre 1924 vi fu il cosiddetto pronunciamento dei consoli, allorché un gruppo di Consoli della Milizia organizzati da Farinacci irruppe nel gabinetto di Mussolini a Palazzo Chigi, ponendogli un ultimatum: o si decideva ad instaurare misure di repressione decisiva contro le opposizioni o il Partito si sarebbe spaccato. Mussolini cedette e si giunse così al famoso discorso bellicoso del 3 gennaio 1925, che diede il via a una serie di misure repressive.
Inaspettatamente, si verificò un fuggi fuggi immediato e generale di tutte le opposizioni che crollarono come un castello di carte. Avversari rumorosi e superbi sparirono nel giro di pochi giorni e l’inconsistenza degli altri partiti fu imbarazzante. Gran parte della popolazione salutò favorevolmente la svolta intrapresa, sperando che avrebbe portato finalmente un po’ di tranquillità e benessere. Mussolini e buona parte degli ambienti fascisti, incerti sino all’ultimo dell’opportunità di questa prova di forza, ne rimasero talmente stupefatti da ritenere che forse era stata fatta la mossa giusta, poiché gli ultimi avvenimenti avevano dimostrato che il benessere e la pace nazionale si sarebbero potuti perseguire soltanto con un regime a partito unico. Tant’è che Farinacci fu subito nominato Segretario Generale del PNF e iniziò una politica di partito e di governo intransigente e oltranzista. Grandi fu spostato al Ministero degli Esteri e come Sottosegretario agli Interni fu insediato Teruzzi, convinto farinacciano, l’uomo ideale per organizzare in breve tempo un regime monopartitico e dittatoriale.
Vittorio VETRANO
Immagine del titolo: Dino Grandi arringa la folla sindacalista (tratto da “Grandi D., Il mio paese. Ricordi autobiografici”, v. bibliografia).
Continua con la terza parte: "Al Ministero degli Esteri - Ambasciatore a Londra".