Quarta ed ultima parte del focus dedicato al Conte di Mordano, con un bilancio finale: Dino Grandi è stato un fine politico e diplomatico, uno dei pochi uomini in grado di tirare diritto per le sue convinzioni. Fu sicuramente tra i migliori uomini espressi dal Fascismo, soprattutto dal punto di vista intellettuale e culturale. La sua visione politica è di tutto interesse e molti spunti potrebbero essere ripresi oggidì nella costruzione di nuove idealità capaci di abbracciare gli ideali sociali e nazionali.
5. Al Ministero della Giustizia; la Seconda Guerra Mondiale
Rientrato in Patria, Grandi viene nominato Ministro della Giustizia e Culto, Guardasigilli e Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (la quarta carica del Regno).
Rioccupandosi di problematiche interne, Grandi non poté che deplorare la degenerazione che aveva subito il Regime nel giro di pochi anni. I problemi erano veramente tanti: il Partito, da movimento dinamico e fucina del pensiero politico degli Italiani si era trasformato, a causa dello staracismo (ma in realtà il segretario Starace altro non fu che un esecutore pedissequo di Mussolini), in una pseudo-milizia pletorica; l’influenza nazista aveva svilito le autentiche idealità del Fascismo, poiché, come disse Grandi, Fascismo e Nazismo non hanno mai avuto alcunché in comune, se non la connivenza dei due dittatori; l’efficientissima e al contempo complessa organizzazione sociale, politica e costituzionale dello Stato Fascista languiva sotto l’eccessiva dittatorialità umorale ed estemporanea del Duce, in una sorta di regressione filosofica e politica tipica di un cesarismo da basso impero. Per risvegliare le forze autentiche della Patria e del Fascismo occorreva secondo Grandi una decisa sterzata sia in politica interna che in politica estera.
In settembre scoppia la guerra in Polonia: Grandi consiglia a Ciano e Mussolini di denunciare il Patto d’Acciaio, di prendere definitivamente le distanze dall’ideologia nazionalsocialista e di riprendere contatti con la Gran Bretagna: la Germania, opportunista e in cattiva fede, ha tradito l’Italia, poiché aveva promesso che avrebbe assicurato la pace almeno fino al 1943; si è di fatto nella stessa situazione del 1914, quando i tedeschi alleati diedero il via alla Grande Guerra senza consultare l’Italia. Come allora, l’Italia deve avere perciò il diritto di non essere trascinata in una guerra non sua. Della stessa opinione di Grandi sono tanti altri esponenti del Regime e lo stesso Ciano, dopo aver parlato con un durissimo Ribbentrop a Salisburgo, si dimostra sostanzialmente del medesimo avviso.
Mussolini si risolve così per la non belligeranza, ma rifiuta di denunciare l’alleanza per tutta una serie di motivazioni: per un verso egli era assai intimorito dalla potenza tedesca e dimostrandole inimicizia temeva di esserne schiacciato; per un altro egli si sentiva in dovere di non voltare le spalle al popolo tedesco che l’aveva acclamato come un profeta sin dal 1937; inoltre egli si illudeva di poter ancora proseguire una politica altalenante per poter trarre il massimo profitto dagli avvenimenti. Secondo Grandi la non belligeranza, per poter essere veramente proficua, sarebbe però dovuta durare molto a lungo. In una lettera a Mussolini egli così scrisse nell’aprile inoltrato del ‘40:
“Non è giammai ‘tardi’ per una Nazione dall’entrare in guerra. L’Italia non è di potenza pari a nessuna delle altre protagoniste dell’attuale dramma europeo, ma ‘può’ tuttavia – in determinate condizioni – costituire il ‘peso determinante’ per la soluzione del dramma nel quadro dei propri interessi nazionali e di quelli dell’Europa. (…) Da quella che sarà la posizione definitiva della Russia, potrà essere giudiziosamente considerata la posizione futura dell’Italia. Allora soltanto si vedrà. Ma fino a quel momento, restiamo come siamo: neutrali, non belligeranti, astenuti. Le formule non contano, purché l’Italia rimanga fuori. Intanto però prepariamoci ed armiamoci sul serio.”
In questo periodo Mussolini era sostanzialmente del suo stesso avviso e coltivava la speranza di una nuova Monaco, dove, come nel Patto del ’38, avrebbe potuto giuocare un ruolo ancor maggiore, quasi di giudice delle altre potenze. Infatti è molto significativo che il Duce preferisse ancora in questo periodo destinare ingenti fondi e materie prime alla progettata Esposizione Universale del 1942 piuttosto che all’esercito, fatto ben strano per chi si prepara a una guerra. Come ricorda lo stesso Grandi:
“Mussolini non pensava di entrare in guerra a fianco dell’alleata Germania. Non pensò a preparare l’esercito. Credette ad una guerra breve e non alla vittoria tedesca, bensì ad una pace di compromesso, qualsiasi, nella quale avrebbe giocato il ruolo di Monaco.”
Non molti giorni dopo, in maggio, la Germania invadeva però la Francia, su cui otteneva una strabiliante vittoria. Molti, in primis Mussolini, rimasero sbalorditi e si illusero che da una “guerra breve” (perché così sembrava confermarsi) l’Italia avrebbe potuto trarre grossi vantaggi, mentre con una prolungata neutralità si sarebbe attirata le ire di Berlino.
Anche il Re Vittorio Emanuele III, pur diffidando dei tedeschi (ma diffidenza provava pure verso gli inglesi e ancor più verso i francesi), era incerto sul da farsi e sperava che il “fiuto del Duce” si sarebbe concretizzato anche quella volta in un successo. Temeva altresì che la non belligeranza alla lunga non avrebbe portato alcun frutto, tanto che confidandosi col suo Aiutante di Campo Puntoni disse:
“D’altra parte il più delle volte gli assenti hanno torto!”
Per Dino Grandi, ma anche per altri, come Balbo e Bottai, si sarebbe dovuto attendere ancora per vedere lo sviluppo degli eventi, ma la politica estera Italiana era ormai troppo indirizzata in senso filo-tedesco per poter tergiversare a lungo senza inimicarsi tutte le potenze in gioco.
Si giunse così alla dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia del 10 giugno 1940. Per evitare ogni divisione politica e compattare la Patria in armi, il Presidente Grandi pronunciò alla Camera un discorso dai toni aggressivi e bellofili.
All’apertura del fronte greco, Grandi, come altri Ministri e Consiglieri Nazionali, su pressione del Duce, decide di partire volontario (caso unico per un Presidente della Camera) per la Grecia. Nonostante l’ardimento Italico, gli scarsi mezzi a disposizione sono evidenti e Grandi tocca con mano la totale impreparazione militare e l’inadeguatezza dei Comandi, spesso caratterizzati da troppa superficialità. Anche l’arroganza degli alleati tedeschi lo indispettisce non poco. Grandi si rende subito conto della gravità della situazione e in seguito dirà:
“I fatti erano quelli e piuttosto chiari.”
I tedeschi chiamati in aiuto salvarono momentaneamente la situazione in Grecia, ma quando Grandi rientrò a Roma nell’aprile del 1941 era talmente scoraggiato da temere il disastro: l’Italia infatti rischia una sconfitta dopo l’altra e viene salvata esclusivamente dall’intervento dell’alleato tedesco. Grandi decide di esprimere tali e tante perplessità al Duce stesso, che però continua ad essere convinto di avere in mano la situazione, e al Re, che si rivela sostanzialmente attendista.
Nel frattempo Grandi si dedica altresì al suo compito di Ministro della Giustizia, ottenendo risultati straordinari. Nel suo quadriennio di ministero, egli diede mano e compimento alla riforma dei codici, processo iniziato vent’anni prima, proseguito da Rocco e poi sospeso. Avvalendosi della collaborazione dei maggiori esperti di diritto indipendentemente dalle idee politiche (compresi esponenti dell’antifascismo) procede alla riforma dei codici di Procedura Civile, del Codice di Navigazione e del Codice Civile, ultimato brillantemente nel 1942 e a tutt’oggi in vigore. Tra i giuristi che collaborarono col Ministro figurano, tra gli altri, Calamandrei, Carnelutti, Lefebvre, Redenti, Conforti, Antonio Scialoia (figlio del già citato Vincenzo), Vassallo, Azzariti, nonché l’ebreo Vivante. Già contrario alle leggi razziali sin dal ‘38, ottiene che non siano inserite nel Codice Civile, ma restino nella legislazione transitoria ordinaria.
Il risultato è straordinario e il diritto e la magistratura Italiana diventano un esempio per il mondo:
“E’ con orgoglio che io parlo della magistratura Italiana. Aggiungo che nei quattro difficili anni in cui ho avuto l’onore di dirigere l’amministrazione della giustizia ho tratto forza, coraggio e speranza dalla magistratura, nella quale ho riscontrato ad ogni momento una autentica riserva di probità, saggezza e patriottismo. Ho sempre considerato la magistratura come una specie di casta sacerdotale alla quale era inibita, per la sua missione, qualsiasi connivenza con l’attività politica, così come per i religiosi e per i militari.”
Il paragone con la situazione attuale è impietoso: interessante notare come la magistratura al tempo del Fascismo dovesse essere strettamente apolitica, mentre al tempo dell’attuale democrazia è totalmente politicizzata.
Grandi nel 1941 viene altresì nominato per merito Professore di Diritto Civile dell’Università di Roma, ma egli ricusa con modestia, non sentendosi un vero scienziato del diritto.
Le sue grandi benemerenze verso la Patria gli vengono riconosciute universalmente. Il Re lo crea nel 1939 Conte di Mordano e nel marzo del 1943 lo insignisce del Collare della SS. Annunziata.
6. La caduta del Regime
Precipitando gli eventi, Grandi si risolse a cercare una soluzione drastica: la Libia e le Colonie erano perdute, la Sicilia stava subendo l’invasione e Mussolini pareva ormai privo di volontà e totalmente succubo di Hitler. Secondo una testimonianza di Badoglio infatti, Mussolini aveva più volte confidato al Re di volersi ormai sganciare dalla Germania per chiedere l’armistizio e aveva perfino fissato una data entro cui attuare il piano: il 15 settembre del ’43. Il Duce aveva anche in mente per l’autunno una rotazione di cariche e probabilmente un rimpasto di governo, con Grandi nuovamente al Ministero degli Esteri (sembra che volesse comunicarlo al Sovrano lo stesso 25 luglio dopo la famigerata notte di discussione al Gran Consiglio). Grandi sarebbe altresì dovuto succedere a Suardo come Presidente del Senato e Bottai l’avrebbe sostituito a sua volta come Presidente della Camera.
Nell’incontro di Feltre del 19 Luglio, Mussolini avrebbe dovuto comunicare definitivamente ad Hitler che l’Italia avrebbe dovuto chiedere l’armistizio, ma Hitler, presenti anche il Ministro degli Esteri Bastianini e il Generale Ambrosio, come racconta Badoglio, “non lo fece nemmeno parlare”.
Di fronte all’inazione del Duce, Grandi si risolse a muoversi autonomamente e presentò al Gran Consiglio del Fascismo l’ordine del giorno che determinò la caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943. Gli eventi di quei giorni non sono per la verità stati mai chiariti, poiché i protagonisti o morirono prima di poterli raccontare con precisione, o si chiusero nel riserbo, o effettuarono rivelazioni lacunose, di seconda mano, parziali, se non palesemente contraddittorie. C’è addirittura chi sostiene che il tutto fu l’applicazione di un piano segretissimo concordato tra tutti i protagonisti (Re e Duce compresi). Ma non è lo scopo di questo articolo addentrarsi sull’intricata tematica “25 luglio”, su cui è stato scritto tutto e il contrario di tutto.
In ogni caso, nell’idea di Grandi, l’unico modo per salvare la Patria era costituire un nuovo governo di unità nazionale che si stringesse attorno al Re Imperatore, che fosse accettato da Fascisti e Antifascisti e che fosse guidato da un’alta personalità “neutrale”, come il Maresciallo Caviglia. Anche Mussolini avrebbe dovuto appoggiare l’iniziativa e ritirarsi spontaneamente. Questo nuovo governo avrebbe dovuto denunciare le leggi razziali e rivolgersi contro i tedeschi, accusati essi stessi di essere traditori a causa dei loro continui soprusi, delle loro false promesse e della loro arroganza. Il nuovo Governo avrebbe dovuto altresì garantire piena continuità costituzionale col precedente attraverso il Parlamento.
Il progetto si dimostrò utopistico e irrealizzabile. Peraltro nella realtà dei fatti non vennero rispettate neppure le più elementari norme costituzionali e il Gran Consiglio non redigé l’elenco di nomi che il Sovrano avrebbe dovuto valutare per scegliere il nuovo Presidente del Consiglio.
Grandi fu costretto così a rinunciare al piano e rimase estremamente stupito quando seppe che il successore di Mussolini sarebbe stato niente meno che l’ampiamente compromesso Badoglio, che non stimava affatto e giudicava un opportunista e che, tra l’altro, non godeva neppure delle simpatie del Sovrano. Peraltro sembra che gli stessi alleati siano intervenuti nella questione in modo più meno diretto (lo stesso Roosevelt pose il veto a un eventuale coinvolgimento di Grandi in un nuovo governo).
Grandi definì il governo badogliano il governo degli affossatori. Questo governo non seguì alcuna norma costituzionale e fu legalmente illegittimo. Badoglio non fece altro che chiudere il Parlamento, governare per decreti e instaurare una mera dittatura personalistica e militare:
“A questo punto entrarono violentemente in scena i generali di Badoglio, i congiurati del comando supremo, detti anche i congiurati di Palazzo Vidoni (…) Irrispettosi della volontà del Sovrano, il quale intendeva dare alla crisi il carattere costituzionale nell’ambito dello Statuto del Regno, essi avrebbero tentato di far apparire la crisi di fronte al popolo italiano, all’opinione pubblica internazionale, ma soprattutto di fronte al nemico, come opera esclusiva della congiura militare.”
Ciò che avvenne realmente è in sostanza assai diverso da ciò che fu raccontato da due opposte mitologie, la mitologia resistenziale e la mitologia saloina, entrambe create per sostenere le proprie posizioni ideologiche, politiche e militari.
In particolare vi sono quattro punti fondamentali che sarebbe bene fossero noti al grande pubblico:
Nel caos generale che si stava profilando, il 18 agosto Grandi parte con la famiglia verso Siviglia, dove spera invano di poter ancora aiutare la Patria attraverso la diplomazia internazionale, che in quel periodo aveva trovato nelle neutrali Spagna e Portogallo luoghi adatti per cercare soluzioni alla guerra.
Condannato a morte in contumacia dal tribunale di Verona del 1944, installato sotto l’egida nazista per “punire i traditori”, fu altresì ricercato dagli antifascisti che ne volevano giudicare fantomatici “crimini”. Data la situazione, Grandi tornò in Italia solo dopo l’amnistia, nel 1946, abbandonando per sempre ogni attività politica.
7. Il secondo dopoguerra
Dopo la seconda guerra mondiale, Dino Grandi preferisce vivere all’estero, prima in Portogallo e poi in Brasile, dove si occupa con grande successo di agricoltura.
Nei quarant’anni che seguirono non si dedicò più alla politica, ma preferì orientarsi al giornalismo privato e alla scrittura di libri di memorie, difendendo il suo operato dagli attacchi da un lato dei rossi, dall’altro dei reduci della Repubblica Sociale, proclamando di aver agito sempre secondo coscienza per il bene dell’Italia.
Collaborò altresì con la FIAT e continuò a svolgere qualche attività nel mondo diplomatico. Rientrò definitivamente in Patria negli anni ’60, continuando a dedicarsi all’agricoltura in una sua fattoria del Modenese, giudicata un modello di impresa agraria. In tarda età preferì però risiedere nel centro di Bologna.
All’età di novant’anni, nel 1985, concluse la riorganizzazione delle sue Memorie, intitolate “Il mio Paese. Ricordi autobiografici”. Così scrisse nel presentare l’opera:
“Ho 90 anni. La grande avventura della vita sta per finire. L’ambigua visitatrice non può tardare. In guerra e in pace essa mi fa la corte da 70 anni senza ghermirmi, sin da quando, ventenne, nel 1915 attraversai la frontiera alla testa del mio plotone di alpini. Ora il tempo è arrivato; vorrei riceverla con buone maniere come la ricevette il Gattopardo nel bel romanzo di Tomasi di Lampedusa. Chissà! Agli uomini non è dato di conoscere quando e come si muore. Vorrei come epitaffio queste parole: ‘Senza rimorsi, senza rimpianti, senza rancori’.”
Morì il 21 Maggio del 1988.
8. Conclusione
Dino Grandi è stato un fine politico e diplomatico, uno dei pochi uomini in grado di tirare diritto per le sue convinzioni. Fu sicuramente tra i migliori uomini espressi dal Fascismo, soprattutto dal punto di vista intellettuale e culturale. La sua visione politica è di tutto interesse e molti spunti potrebbero essere ripresi oggidì nella costruzione di nuove idealità capaci di abbracciare gli ideali sociali e nazionali.
La sua fedeltà alla Patria intesa in senso generale e non coincidente con una cieca fede ideologica, la sua attenzione alla socialità, la sua avversione per il partitismo e per l’eccessiva personalizzazione della politica sono da prendere ad esempio e non sono affatto sinonimo di tradimento, come proclamò ingiustamente il Processo di Verona.
Dino Grandi è stato più Fascista di tanti Fascisti apparentemente fedelissimi che in realtà, con la loro eterna piaggeria verso Mussolini, non hanno fatto altro che trascinarlo nel baratro, divenendo essi stessi la vera causa prima del crollo del Regime.
Tra i tanti personaggi che preferirono l’attendismo o che, al limite, ventilarono opposizioni intellettualistiche atte più che altro a giustificare la propria passività e il proprio sottrarsi a scelte responsabili, Grandi, insieme forse al solo Farinacci (che probabilmente pensava di succedere a Mussolini come Duce stringendo ancor più l’unione coi tedeschi), fu l’unico a ideare un piano (sicuramente non fruttifero e criticabile quanto si vuole, anche perché in realtà non sortì affatto gli effetti previsti e si dimostrò per molti versi controproducente), al solo scopo di trarre l’Italia fuori dalle sabbie mobili in cui stava sprofondando.
L’essersi assunto le proprie responsabilità in ore cruciali costituì paradossalmente la sua condanna politica, poiché da allora né buona parte del mondo legato al Fascismo né buona parte del mondo avverso al Fascismo lo apprezzò.
Ma, del resto, spesso l’isolamento è un destino comune ai grandi uomini.
Su Mussolini, l’uomo cui si sentì più legato in tutta la sua vita, scrisse in tarda età:
“Mussolini è stato un uomo grande; come tutti gli uomini grandi ha commesso tragici errori, ha amato profondamente, svisceratamente la Patria. Il troppo amore per la Patria lo ha accecato: ad un certo momento ha perduto il senso delle proporzioni, ha creduto che l’Italia fosse davvero non solo una grande potenza, ma addirittura una delle nazioni protagoniste del dramma europeo. (…)
Delle glorie e delle sventure di cui è intessuta dal 1915 al 1945 la trentennale storia d’Italia e la storia dell’Europa, siamo responsabili tutti, fascisti e antifascisti, italiani e stranieri, vincitori e vinti. ‘Tutti ne abbiamo colpa’, disse con cristiana umiltà alla fine della guerra, parlando alla Camera dei Comuni, un grande socialista, Bevin, Ministro degli Esteri di Gran Bretagna. Tutti ne abbiamo colpa. Occorre che i morti finiscano di seppellire i morti, che sia sgombrato il terreno dei superstiti relitti della tragica trentennale vicenda, che aperta e libera sia fatta la strada lungo la quale le nuove generazioni cammineranno, protagoniste della loro storia. I giovani vivi potranno allora giudicare serenamente i vecchi che sono e saranno morti. Soltanto allora potrà operarsi quella sintesi fra contraddizioni che si chiama la Storia. La figura di Mussolini potrà risaltare, nel bene e nel male, quale essa in verità fu. Sarà spezzata con coraggio la cortina insidiosa delle menzogne. Poi verrà la leggenda.”
Che la nostra generazione possa finalmente realizzare l’alto auspicio del nobile politico di Mordano.
Vittorio VETRANO
Immagine del titolo: Dino Grandi Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni durante un discorso del Duce (tratto da “Grandi D., Il mio paese. Ricordi autobiografici”, v. bibliografia).
Bibliografia:
Ciabattini P. (2005), Il Duce, il Re e il loro 25 Luglio, Lo Scarabeo Ed., Bologna
De Felice R. (1965-1997), Mussolini e il Fascismo (8 volumi), Einaudi, Torino
Grandi D. (1985), Il mio paese: ricordi autobiografici, a cura di De Felice R., Il Mulino, Bologna
Lodolini E. (1953), L’illegittimità del Governo Badoglio, Gastaldi Ed., Milano