Ciò che è successo negli U.S.A. il 6 gennaio scorso ha una rilevanza eccezionale che non possiamo ignorare: la rivolta che ha infiammato Washington, pur portando con sé molti dubbi circa le torbide dinamiche che l'hanno scatenata, è il drammatico specchio di un continente spaccato. Ma al di là di questo scenario caotico, resta una domanda che inchioda tutti noi: che ne sarà dell'America dopo Trump? Che ne sarà dell'Occidente dopo l' America? "Il balzo del Veltro", con l'aiuto di alcuni amici esperti di geopolitica e simpatizzanti del Circolo Monarchico "Dante Alighieri - Patto per la Patria", intende dedicare il focus di approfondimento del mese di gennaio a questo argomento di stringente attualità. Ne parliamo oggi con Marco Cassini.
L'AMERICA DOPO TRUMP, OVVERO L'AFFERMAZIONE DELLE OLIGARCHIE
In un mondo normale, in un Occidente normale, internamente capace di esprimere élites politiche in grado di dare una direzione almeno a sé stesso, la giornata del 6 Gennaio sarebbe passata più o meno senza storia. In un Occidente normale, o normalizzato, il 6 Gennaio si sarebbe svolta una noiosa procedura di certificazione del risultato delle elezioni nei vari Stati federali degli Stati Uniti d’America, che designano i Grandi Elettori, i quali a loro volta votano il candidato alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America – il POTUS di tanti libri e film che costituiscono la cultura popolare di riferimento di questo “Occidente normale”.
Però questo Occidente Normale, questo pacioso angolo di libertà, di democrazia, di diffuso benessere materiale e di sostanziale soddisfazione (o rassegnazione) spirituale, questo Occidente Normale insomma, non esiste più. Questo Occidente Normale, questa sorta di Mondo Piccolo a crocevia tra Fogazzaro, Guareschi e Tolkien con una spruzzata di tecnologia e di pailettes, non solo non esiste più, ma ha smesso di esistere da un po’ di tempo. I passi che hanno condotto alla sua non prematura dipartita sono molteplici e tutti concentrati in nella metà occidentale di questo sedicente Mondo Libero, dato che l’Europa ormai vive o di riflesso o di risulta le decisioni prese altrove.
Il primo passo di questa progressiva dipartita del famoso Occidente Normale – così somigliante alla patria dell’Ultimo Uomo che vive nella Fine della Storia di Francis Fukuyama – può essere collocato nel tragico 11 Settembre 2001, quando questo Occidente Normale venne colpito al cuore nella Grande Mela. Come un maligno serpente di fumo le conseguenze intossicarono tutti, o almeno l’Occidente, allora sì ancora apparentemente Normale, di sospetto, di paranoia. Ma la globalizzazione doveva essere difesa ad ogni costo, e così fu. La globalizzazione, vera anima dell’Occidente Normale, a dispetto di tutti i grandi proclami solennemente enunciati nei decenni passati, crebbe, si gonfiò a dismisura, fino a quando non impararono a giocarci anche gli “Altri”, gli “Estranei”. Gli “Estranei” non sono altro che la Repubblica Popolare di Cina e l’Occidente, che aveva smesso di essere Normale dal tracollo finanziario del 2007-2008, si trovò con una globalizzazione di segno opposto da una parte e da una sfida frontale a quelli che erano divenuti i suoi valori fondanti durante il periodo dell’unipotenza: non più identità, libertà, spiritualismo e umanesimo, ma sradicamento, polizia del pensiero in nome di un disumano materialismo. Il nuovo concorrente, la spietata dittatura comunista alternativamente scelta come spauracchio o partner commerciale, aveva preso lezioni da alunno diligente e impegnandosi aveva finito per assomigliare terribilmente al maestro.
In Europa il dogma antinazionale non aveva preso piede in modo totalizzante malgrado i vigorosi sforzi posti in essere. Non solo i movimenti nazionali e sociali hanno sempre avuto un elemento di presenza, ma i grandi movimenti politici del dopoguerra, in primis quello socialcomunista e quello cristiano democratico, hanno costituito e costituiscono tuttora un argine al globalismo compiuto. Gli attuali movimenti transnazionali, quello “verde” e quello “liberale”, al contrario, presentano un approccio assolutamente in linea al globalismo, presentandosi anzi come sue derivazioni.
Negli Stati Uniti, al contrario, il cristianesimo democratico e il socialcomunismo non hanno mai attecchito. Il concetto di nazionalismo politico, inteso quale variante statunitense del nazionalismo classico e quindi come distinto sia dalla mera tutela degli interessi nazionali americani, sia dalla teoria dell’eccezionalismo o del destino manifesto, è rimasto completamente assente sin dai primi anni del Novecento. Pertanto è possibile affermare che il nazionalismo americano sia stato assente dalle fasi di incubazione, sviluppo e declino della globalizzazione a guida occidentale.
In opposizione al declino (americano) percepito, e collegato teoricamente con una teoria globalizzatrice che arrogava a non meglio specificate élites il diritto-dovere di riplasmare completamente non solo la civiltà ma anche l’essere umano in quanto tale, e programmaticamente ostile a quella schiatta che dell’Occidente fu fautrice in prima persona, sorse nella “terra dei liberi” e nella “patria dei coraggiosi” un movimento di opposizione, dapprima in parte incarnato dal “Tea Party Movement”, e successivamente rifusosi con sensibili variazioni nel “Trumpismo” e nella “Alt-right”. Il Trumpismo e Trump stesso, affarista molto chiacchierato reinventatosi politico dallo stile molto al di sopra delle righe, avevano come obiettivo invertire il declino dell’Occidente agendo su due piani. Su quello economico, cercando di impedire di trasformare la Cina nella Zona Industriale e Produttiva del mondo, e su quello morale, riportando al centro del discorso pubblico vere e proprie eresie, quali Dio, la Nazione, la Famiglia, la necessità di anteporre il bene comune e l’interesse nazionale all’economia e all’interesse privato.
La presidenza Trump, almeno nel discorso pubblico adottato, si inserisce, a detta di molti, in quel movimento politico-ideologico che è stato descritto come “Neonazionalismo” da Maureen Eger e da Sarah Valdez.
Una tale caratterizzazione a destra, per quanto nei canoni della cultura politica d’oltreoceano, non deve condurre a sopravvalutazioni indebite. Questi quattro anni di presidenza “Trumpista, da una prospettiva patriottica, sono stati esitanti, contraddittori, colmi di brusche battute d’arresto e di stentate ripartenze. La coerenza non è una dote che ci si può aspettare da politici alieni da qualsiasi prospettiva non solo “rivoluzionaria”, ma nemmeno radicata in una visione del mondo che possa dirsi articolata in una direzione autentica.
Se questi quattro anni sono stati solo parzialmente caratterizzati da una svolta patriottica, è pur vero che le innovazioni, non solo nel discorso pubblico ma anche in politiche tese ad assicurare una sopravvivenza industriale agli Stati Uniti, sono state sufficienti ad allarmare ogni ganglio di quella élite che è occidentale solo per un curioso caso della storia, che è transnazionale per vocazione e che fonda la sua ragione di esistere sull’approfondimento e sul consolidamento di una globalizzazione che da schema globale di commercio è passata ad intento palingenetico. Nel 2020 queste classi dirigenti transnazionali hanno concentrato i loro sforzi nella mobilitazione di un fronte quanto più ampio possibile contro la presidenza di Donald Trump. Da un lato militarizzando la cultura, accademica e non, contro il nuovo corso della presidenza americana, dall’altro suscitando e appoggiando politicamente movimenti di protesta violenta esplicitamente tesi a contrastare la tuttora incompleta integrazione delle componenti etniche degli USA. In questi frangenti, l’opinione pubblica, non solo americana, si è polarizzata tra avversari e sostenitori del primo nazionalista alla Casa Bianca.
Stando così le cose, di Occidente Normale non si può più parlare, e il primo mercoledì del gennaio successivo alle elezioni per il Presidente degli Stati Uniti diventa qualcosa di diverso da una noiosa sessione in cui va in scena il rito ormai antico della proclamazione del vincitore. Ed essendo gli Stati Uniti d’America il locus non troppo amenus in cui la potenza dell’Occidente si concentra, vale la pena di prestarvi attenzione.
Per tornare al fatidico 6 Gennaio 2021, il monotono rituale dell’annuncio dei voti è stato rumorosamente contestato da alcune centinaia di attivisti e di sostenitori di Donald Trump. Costoro, spesso agghindati in costumi decisamente originali, hanno facilmente travolto il debole cordone di sicurezza e, disarmati, hanno fatto irruzione nel palazzo del Congresso su Capitol Hill. I tafferugli sono stati duri, causando la morte di un agente di polizia e di quattro dimostranti, tra cui una donna, che aveva servito nell’aviazione statunitense, e il ferimento di altre decine e l’arresto di almeno ottanta persone.
Nonostante gli appelli alla calma diffusi tramite Twitter, Donald Trump non ha ritenuto di dare corso alla repressione della protesta; vi ha però provveduto il Vicepresidente Mike Pence, chiamando la Guardia Nazionale del Distretto di Colombia. Immediate le parole del Presidente-eletto Joseph R. Biden, che ha parlato di un intollerabile attacco alla democrazia.
Se questi sono i fatti, vengono a porsi alcuni problemi a cui si può provare di rispondere. Come si deve valutare un’irruzione del genere? Quali sono le spie che questa vicenda ha segnalato, e quali conseguenze possono essere previste?
Le reazioni alla protesta dei “trumpisti” presso il parlamento statunitense ha suscitato valutazioni diverse. Della dura condanna da parte dei “democratici”, primo fra tutti il Presidente-eletto J.R. Biden, si è detto. Sono le reazioni più logiche e si inseriscono nella condanna delle azioni degli avversari. Ad essere più interessanti sono le reazioni dell’opinione di “destra” o “conservatrice”. Esse sono state di appoggio incondizionato o di sconfessione, sia per la violenza presente (sebbene i manifestanti fossero per lo più disarmati) sia per l’abbigliamento estroverso e originale di taluni partecipanti, prontamente esibiti a favor di telecamera. Se le pelli da sciamano e i cappelli a foggia di testa di bisonte possono forse far sollevare qualche sopracciglio come reazione, non di meno una protesta di tale magnitudine era sostanzialmente inaspettata e difficilmente replicabile in altri contesti. Può quindi essere opportuno soffermarvisi.
In prima battuta è da osservare che schierarsi acriticamente contro ogni manifestazione di popolo "sopra le righe" sia pericoloso. Il motivo è semplice. Una manifestazione che decide di porsi in diretta antitesi con le procedure "democratiche", quale in questo caso è la ratifica del voto dei Grandi Elettori, è un problema politico estremamente rilevante. Nel caso in cui essa sia stata una protesta organizzata, Donald Trump ha tentato un colpo di stato e il fatto che gli USA siano considerati un ordinamento socio-politico alla portata di un colpo di stato è degno di riflessione sia per chi si occupa della sicurezza nazionale statunitense, sia per coloro i quali considerano l’Occidente un pacioso lago in cui la storia continua ad essere finita. Nel caso viceversa in cui sia una protesta spontanea, a maggior ragione è un fatto politico molto grave, perché dei cittadini hanno ritirato la loro fiducia nelle istituzioni fino al punto di contestarle direttamente.
Chiudere ad ogni ragionamento a più ampia prospettiva quindi è fondamentalmente errato, perché non si tratta di “delinquenza”, come pure l’hanno logicamente definita i sostenitori “democratici” e “progressisti”, ma è politica allo stato puro. Un ragionamento che provi ad esaminare i reali movimenti – e che adotti una prospettiva nazionale e sociale – non può nascondersi dietro generiche parole del "rispetto delle istituzioni", perché le istituzioni sono incarnazione ed espressione della nazione. Ora, se questa Nazione è politicamente fondata nella sua legittimità su un elemento essenzialmente civico e non etnico, come è il caso degli USA e come è tendenza generale a diventare il caso anche dell’Europa Occidentale, la revoca della legittimità ad una delle istituzioni fondamentali della Nazione equivale a una messa in dubbio della Nazione stessa. Il meccanismo di legittimità dall’istituzione alla Nazione riguarda la garanzia che questa istituzione offre nei confronti della premessa civica (ideologica) che permette l’esistenza della Nazione: nel momento in cui l’istituzione non è più in grado di garantire il patto sociale da cui deriva la Nazione, quest’ultimo può venire meno, qualora l’istituzione rivelatasi deficitaria sia di importanza capitale. E, in questo momento, l’istituzione contestata è la (scelta della) presidenza dell’Amministrazione USA.
Tale revoca della legittimità da parte della destra trumpista americana non è unica nel suo genere. La presidenza e la sua scelta in quanto tali sono state contestate sia dai critici dell’elezione per tramite dei Grandi Elettori all’indomani della vittoria di Donald Trump nel 2016, sia, assieme ad altre istituzioni sociali americane quali la tutela dell’ordine, dai movimenti di sindacalismo razziale.
La natura degli USA di Nazione fondata sull’elemento civico è in questo caso centrale. Laddove la Nazione fondata sull’elemento etnoculturale è naturalmente esclusiva e non inclusiva, quest’ultima è anche più internamente compatta: per quanto possa essere contestato un apparato statale, l’appartenenza alla stessa comunità nazionale è riconosciuta ai membri della medesima etnia e della medesima cultura, almeno in linea tendenziale. Con il sentimento di appartenenza fondato sull’elemento civico, invece, è possibile una maggiore inclusività, ma al prezzo della necessità che tutti o quasi tutti i componenti della comunità si riconoscano almeno in modo tendenziale nelle istituzioni che garantiscono questo patto sociale.
A fronte di una realtà politica americana così frammentata (con quelli che sembrano poter diventare almeno tre grandi poli politici), si deve registrare una progressiva polarizzazione sociale e geografica della preferenza politica. Questo sviluppo di un tipo di preferenza politica basato su una caratteristica sociale e identitaria determina una saldatura tra linee di faglia sociali e linee di faglia politiche.
Inoltre, la presenza di movimenti contrapposti, che in un modo o nell’altro riescono a collegarsi al vertice e che similmente negano la legittimità ad elementi centrali dell’ordinamento politico americano, induce a ritenere corretta la definizione degli USA come di una “nazione” gravemente divisa.
Il collegamento con il vertice da parte del movimento di destra è realizzato da Donald Trump. A questo proposito, è utile sottolineare come il movimentismo nazionalista americano sia preesistente a Trump e da Trump sia fondamentalmente autonomo, anche se ad egli molto vicino. Il trumpismo cioè è molto più grande di Trump. Scegliendo Trump di essere il referente e il terminale politico di vertice di questo movimento nazional-populista di destra, ha creato una dialettica nei confronti del partito repubblicano e del suo establishment. Dialettica che, con la decisione del Vicepresidente Pence di sgomberare la protesta, sembra essersi evoluta in direzione di un distacco tra il Grand Old Party e questa nebulosa ancora poco organizzata ma di ispirazione “neonazionalista”.
Astraendo dal gioco politico statunitense, e dalle reazioni del centrodestra europeo improntate al desiderio di appeasement con l’attuale inquilino della Casa Bianca, i fatti del 6 Gennaio 2021 sono indice di un problema sistemico di tutta la democrazia liberale. L’erosione dell’egemonia indiscussa, e la reazione netta da parte delle élites che sconfessa i principii ideologici su cui è fondata la democrazia liberale evidenziano una contraddizione che va ben oltre la superficie. Come ben notò Nico De Federicis, la coesistenza tra liberalismo, intrinsecamente oligarchico, principio rappresentativo, mediazione tra il liberalismo e il principio democratico, e principio democratico stesso è sempre stata precaria. Oggi, tra la censura da parte di poteri della comunicazione che, pur essendo privati svolgono un ruolo pubblico, e la montante erosione dei meccanismi a garanzia del pluralismo, sembra che l’equazione si stia risolvendo a favore del principio liberale oligarchico.
14 - 1 - 2021
Marco CASSINI
"La Contea" di Padova