Signor Presidente,
Signore e Signori,
ancora una volta, ed è la quinta, un appassionato di quella Signora che viene denominata Storia, cioè maestra della vita [esattamente «Historia est testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», come scrive Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) nel suo “de Oratore”], ha l’onore di parlare a Voi nel nostro benemerito Circolo.
Ringrazio, innanzitutto e nuovamente, il Presidente ed insigne Collega, avvocato Benito Panariti, tutti indistintamente i membri del Consiglio Direttivo, di cui mi onoro fare parte, e con particolare riferimento all’amico, ing. Domenico Giglio, che mi hanno, indegnamente, ma nuovamente voluto qui quest’oggi per cercar di ricordare, preciso “cercar di ricordare”, e come al solito senza alcuna pretesa, l’Ordine Religioso del padri Scolopi - quale Maestri della nuova Italia -, di cui credo e spero apprezzerete la Tradizione e l’evoluzione.
L’idea della odierna “conversazione” mi è essenzialmente venuta pensando ad un importante anniversario dell’Ordine delle Scuole Pie: il centocinquantesimo della nascita del padre Luigi Pietrobono (1863-1960), insigne dantista e, per lunghissimi anni, esattamente quasi cinquantadue, docente, rettore e preside del Nobile Collegio Nazareno, la prima scuola dell’Ordine medesimo fondata, nel 1630, direttamente da San Giuseppe Calasanzio (1556-1648), fondatore, a sua volta, dell’Ordine. Istituto che, probabilmente, al termine del corrente anno scolastico, e dopo ben trecentoottantatre anni, chiuderà alla didattica per forse trasformare il vetusto, ma di gloria onusto, palazzo nel largo omonimo al centro dell’Urbe in un albergo a cinque stelle.
Nelle conclusioni cercherò di soffermarmi con poche e sentite parole al riguardo.
Il mio modesto “excursus” così procederà: un quadro generale delle origini dell’Ordine ed un suo molto sintetico compendio; cenni all’educazione scolopica nel Risorgimento; padre Luigi Pietrobono, e quindi le conclusioni.
§ 1. Origini e sintetico compendio dell’Ordine delle Scuole Pie
Il 6 marzo 1617, il papa Paolo V [Camillo Borghese (nato nel 1552), 1605-1621] con il breve “Ad ea per quae” arricchiva la Chiesa di Dio di una nuova famiglia religiosa, la “Congregazione Paolina delle Scuole Pie”, alla quale conferiva il compito di insegnare gratuitamente ai fanciulli i primi elementi, e cioè l’aritmetica, il latino, ma soprattutto la dottrina cristiana, e quindi di educarli cristianamente.
Fondamentale fu l’incontro del Calasanzio con il cardinale Michelangelo Tonti (1566-1622), riminese di nascita, arcivescovo di Nazareth in Barletta, che era succeduto allo stesso titolo in Palestina, fin da quando questa, alla fine del Secolo XII, era stata occupata dai turchi e l’arcivescovo nazareno si era rifugiato a Barletta nella diocesi di Trani. La Santa Sede quindi assegnò la chiesa di Santa Maria di Nazareth, poco fuori la città, erigendola in Metropolitana con diritti, titolo e dignità arcivescovile.
Il Tonti quindi, detto “il Cardinale Nazareno” (con codesto nome volle che fosse chiamato il Collegio alla cui fondazione diede vita con la sua munificenza) fece ottenere a San Giuseppe Calasanzio che la Congregazione Paolina, in data 18 novembre 1621 e con il Breve “In supremo apostolatus” del papa Gregorio XV [Alessandro Ludovisi (nato nel 1554), 1621-1623], diventasse l’”Ordine dei Chierici Regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie” (gli Scolopi, Piaristi), con voti solenni e, in forza del Breve “Ad uberes fructus” (1622), con i privilegi degli ordini mendicanti.
Con il Breve “Sacri apostolatus ministerio”, il 31 gennaio 1622, furono approvate le Costituzioni, alle quali, nel tempo, vennero affiancate le Regole.
La sua prima sede fu in due modeste stanze presso la sagrestia della Chiesa di Santa Dorotea in Trastevere. Così scrisse San Giuseppe Calasanzio in una lettera del 20 maggio 1644 (Ep. 4185): «[…] Quanto al principio delle scuole, io mi ritrovai con altri due o tre della Dottrina Cristiana che andavamo in Trastevere a fare certe scuole che si facevano in S. Dorotea, nelle quali, perché gran parte delli scolari pagavano ogn’uno tanto al mese e delli compagni chi veniva la mattina chi veniva la sera, mi rivolsi quanto morse il Parrocchiano, che ci prestava una saletta e una camera bassa, di metterle in Roma conoscendo la povertà grande che vi era per haver io visitato, essendo la compagnia delli SS. Apostoli, sei o sett’anni tutti li rioni di Roma, e delli compagni ch’avevo in Trastevere, uno solo mi seguitò….. […]».
Giuseppe Calasanzio (in spagnolo “Josè de Calasanz”) nacque a Peralta del Sal, città tra l'Aragona e la Catalogna nel 1556: compì i suoi studi a Lérida, Valencia e Alcalá de Henares e, nel 1583, venne ordinato sacerdote. Dopo una crisi interiore, nel 1592, decise di recarsi in pellegrinaggio a Roma, e vi si stabilì.
Si dedicò a varie opere di carità fino a quando, colpito dalla miseria morale e materiale della popolazione infantile, decise di dedicarsi completamente all'educazione della gioventù povera. Nel 1597, come abbiamo visto, presso la chiesa di Santa Dorotea in Trastevere aprì la prima scuola popolare gratuita d'Europa. Per l'insegnamento quindi, con l'approvazione orale di papa Clemente VIII [Ippolito Aldobrandini (nato nel 1535), 1592-1605], nel 1602 istituì una congregazione di sacerdoti secolari senza voti.
L'avvio dell'opera non fu facile: tra il 1604 e il 1612 (anno in cui la scuola venne trasferita presso la chiesa di San Pantaleo) si avvicendarono all'insegnamento nella scuola oltre ottanta maestri, ma di questi solo quattro o cinque rimasero a lungo legati al Calasanzio.
Al fine di assicurare un futuro alla sua scuola, il Fondatore pensò di legare la sua congregazione all'ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio di Giovanni Leonardi (1541-1609) e papa Paolo V sancì l'unione delle due famiglie religiose il 13 giugno 1614; ma l'insegnamento non era tra le finalità principali dei leonardini e l'unione non si rivelò proficua né per loro né per le scuole, così nel 1616 il Calasanzio fondò una nuova scuola in quel di Frascati e chiese al pontefice di sciogliere l'unione (cosa che avvenne il 6 marzo 1617).
La congregazione del Calasanzio prese il nome di Congregazione Paolina dei Chierici Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie ed egli medesimo, unitamente ai suoi primi quattordici compagni, vestì l'abito religioso nella cappella di Palazzo Giustiniani il giorno della festa dell'Annunciazione (25 marzo) del 1617. Il 18 novembre 1621 (breve “Sacri apostolatus”) papa Gregorio XV elevò la congregazione a ordine regolare, e, come detto, il 31 gennaio 1622 (breve “Ad uberes fructus”) ne approvò le costituzioni.
Vennero aperte scuole popolari a Mentana, Moricone, Magliano, Narni, Norcia, Fanano, Carcare, Genova e Savona, quindi a Napoli (1626) ed a Firenze (1630); nel 1631 venne aperta la prima scuola all'estero (a Mikulov, in Moravia) e nel 1642 vennero stabilite altre due comunità in Polonia.
Mentre l'ordine cresceva di prestigio l'ormai anziano Fondatore, già tenuto in sospetto per la sua vicinanza a Tommaso Campanella (1568-1639) ed a Galileo Galilei (1564-1642), venne accusato dai religiosi Mario Sozzi e Stefano Cherubini di ribellione ai legittimi poteri e convocato davanti al Santo Uffizio.
San Giuseppe Calasanzio venne sospeso dalla carica di Preposito Generale del suo ordine e sostituito dal gesuita Silvester Petra Sancta (1590-1647), visitatore apostolico, assistito dal padre Cherubini.
Il 16 marzo 1646, con il breve “Ea quae”, papa Innocenzo X [Giovanni Battista Pamphili (nato nel 1574), 1644-1655) ridusse gli scolopi da ordine esente a congregazione di sacerdoti secolari soggetti alla giurisdizione dei vescovi locali (come la congregazione dell'Oratorio).
Al riguardo si disse pure di voci di violenze sui fanciulli da parte di isolati educatori, ma il tutto senza alcun tipo di fondamento.
Papa Alessandro VII [Fabio Chigi (nato nel 1599), 1655-1667] ricostituì i Chierici delle Scuole Pie come congregazione di voti semplici con il breve “Dudum” del 24 gennaio 1656 e papa Clemente IX [Giulio Rospigliosi (nato nel 1600), 1667-1669] con il breve “Iniuncti nobis” del 23 ottobre 1669 ripristinò integralmente l'ordine.
I primi decenni del Secolo XVIII rappresentarono il periodo di massima fioritura dell'ordine, grazie anche alle bolle “Nobis quibus pastoralis officii “del 1731 e del 1733 di papa Clemente XII [Lorenzo Corsini (nato nel 1652), 1730-1740], con le quali agli scolopi venne concessa l'autorità di insegnare ovunque anche le scienze maggiori.
Nel 1708 venne aperta una scuola a Capodistria, nel 1715 a Rastatt, nel 1717 a Budapest, nel 1720 a Vilnius, nel 1728 a Madrid, ed a Saragozza e a Valenza, nel 1752 a Praga, e nel 1759 a Milano.
Verso la fine del secolo l'Ordine attraversò una fase critica, iniziata nel 1783, quando cioè l'imperatore Giuseppe II (1741-1790), nei suoi domini, separò dallo stesso le tre province scolopiche; la stessa sorte toccò alle province di Napoli e Puglia, nel 1788, ed a quelle spagnole, nel 1804, quando Carlo IV (1746-1819) ottenne da papa Pio VII [Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti (nato nel 1740), 1800-1823], con la bolla “Inter graviores”, la quale stabilì che le province stesse e di tutti gli ordini religiosi venissero governate da vicari generali.
I rivolgimenti politici ed i conflitti bellici di quegli anni causarono la chiusura di altre scuole e la dispersione di altre comunità.
La ripresa iniziò sotto il pontificato del Beato Pio IX [Giovanni Maria Mastai-Ferretti (nato nel 1792), 1846-1878], che era stato allievo degli scolopi nel collegio di Volterra.
Maggiori artefici della rinascita dell'ordine furono i prepositi generali Mauro Ricci (1926-1900) ed Alfonso Maria Mistrangelo (1852-1930), che promossero la riunificazione di tutte le province separate.
Il Mistrangelo fu il primo sacerdote scolopio che fu elevato alla dignità della porpora cardinalizia, e ciò nel Concistoro del 6 dicembre 1915 indetto dal papa Benedetto XV [Giacomo Della Chiesa (nato nel 1854), 1914-1922].
Come ho poc’anzi detto il fine dell'ordine è l'istruzione e l'educazione umana della gioventù, sia mediante la scuola, sia che attraverso altre attività finalizzate alla formazione integrale della persona.
Oltre alle tradizionali scuole, gli scolopi gestiscono anche istituti per ciechi e sordomuti. In alcuni casi gli scolopi assumono anche il ministero parrocchiale, specialmente nelle zone povere di clero, e si dedicano alle missioni.
Il governo dell'ordine è affidato a un preposito generale (la carica in origine era vitalizia, ma fu portata a un sessennio per volere di Alessandro VII) coadiuvato da quattro assistenti: preposito ed assistenti sono eletti dal Capitolo Generale che si riunisce ogni sei anni.
La sede della Casa Generalizia è presso la chiesa di San Pantaleo, alla piazza de' Massimi in Roma.
Il carisma specifico e proprio del Fondatore, come abbiamo visto, consiste nel formare e istruire i fanciulli ed i giovani, specialmente quelli poveri ed abbandonati, fin dai primi elementi della cultura e, in primo luogo, insegnare loro la pietà e la dottrina cristiana, e precisamente il motto calasanziano è quello della “Pietas et Litterae”.
Quando il Calasanzio decise di fondare la Congregazione Paolina dei Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie le attribuì per compito «[…]l'educazione religiosa e la diligente istruzione dei bambini, insegnando loro per pura carità con ordine e divisione in classi, leggere, scrivere, calcolare e tutta la lingua latina e in particolare la dottrina cristiana e il santo timore di Dio […]». «[…]l'obiettivo … è l'educazione dei bambini nella pietà cristiana e nelle lettere umane, di modo che così istruiti possono conseguire la vita eterna.».
La missione è chiara al punto che gli Scolopi, oltre ai tre voti di castità, povertà ed obbedienza aggiungono quello dell'insegnamento rafforzando quello dell'obbedienza. Per svolgere tale compito - vero e proprio itinerario di salvezza - il Calasanzio raccomandava una particolare cura nella preparazione dei novizi e dei futuri maestri. A maggior ragione se destinati ad insegnare ai bambini poveri ed in condizioni precarie di vita quotidiana.
Al Calasanzio si deve infatti l’istituzione a Roma della prima scuola gratuita europea “di lettura e scrittura per i poveri”, sia al livello elementare che medio. L'ultimo ciclo di umanità era di specifica competenza dei Gesuiti, ma il Calasanzio non volle rinunciare alla libertà di offrire ai suoi alunni più meritevoli la possibilità di completare il ciclo di studi per accedere alle Università.
Il Collegio Nazareno si poneva come istituzione ideale per conseguire tale obiettivo.
La suddivisione del corso di studi era in nove classi: la nona (della Santa Croce), destinata agli alunni più piccoli, ma comunque di almeno sei anni, mirava alla alfabetizzazione più semplice. La seconda parte del corso, articolata in quattro classi, mirava, nell'ottava (o del Salterio), alla lettura meccanica (anche di testi latini), nella settima quindi alla lettura corrente del vernacolo, cioè il linguaggio popolare proprio di ciascun luogo, e quindi con la comprensione del testo nella sesta. La quinta classe, divisa in tre sezioni, aveva nella prima un corso di scrittura, nella seconda di aritmetica, e nella terza, frequentata solo da chi avrebbe continuato gli studi, di grammatica, latino e calligrafia.
Si aggiunse poi la classe di musica, che poteva indirizzare i ragazzi al lavoro nelle varie "Cappelle" musicali.
Nel secondo ciclo si studiava la grammatica latina, la sintassi e la conversazione. Si leggevano i Dialoghi di Juan Luis Vives (1492-1540), pensatore, umanista e pedagogista del Rinascimento, quindi l’opera di Cicerone.
Usciti dalla seconda classe, gli alunni potevano iscriversi al Collegio Romano, oppure continuare con la prima in cui si insegnava retorica e ci si poteva preparare agli studi universitari.
Nel programma pedagogico-didattico apparve con evidenza il valore del tutto nuovo attribuito alla matematica, la scienza del futuro, ed alla lingua volgare. È chiaro il desiderio di occuparsi dell'essenziale, di ciò che realmente serve nella vita. Anche il metodo di insegnamento doveva rispecchiare codesto principio.
L'istruzione religiosa presentava tre aspetti: la catechesi normale e regolare, le pratiche di pietà e di vita cristiana, l'educazione morale, civile e sociale. La catechesi non presentava particolari novità, se non l'uso di un manuale, riservato ai più piccoli, scritto direttamente dal Calasanzio, da imparare a memoria, un po’ come, secoli dopo, fu il “Compendio della Dottrina Cristiana” comunemente denominato “Catechismo di San Pio X” (del 1905) [Giuseppe Melchiorre Sarto (nato nel 1835), 1903-1914].
La pratiche di pietà prevedevano in primo luogo la preghiera, nelle varie forme, e in particolare «per La Chiesa Cattolica, la propagazione della fede, la pace tra i Principi cristiani» (a proposito della “Coroncina della dodici stelle”, scritta dal Calasanzio in onore della Vergine Maria).
Alla base dell'educazione morale, il Calasanzio poneva i principi del metodo "preventivo". Molta importanza dava alla confessione ed alla frequenza dei Sacramenti, da preferire senz'altro alle punizioni, anche se meritate.
Nei vari Regolamenti si raccomandava il rispetto, la disciplina, le buone maniere ed il controllo, da estendere anche nei locali esterni alla scuola.
La successiva apertura ai nobili, ed a chi poteva pagare, diventò occasione per instillare nei ragazzi il senso di uguaglianza e di fraternità, privilegiando il primato dell'ingegno e dell'integrità dei costumi.
Alcuni aspetti del metodo educativo di San Giuseppe Calasanzio, come il tendere alla scuola pubblica, ed in particolare riferendosi a quello pedagogico, mi ricorda molto l’oratore Marco Fabio Quintiliano (35-40 c.a-96), anch’esso spagnolo di origini, che ebbe in assoluto, e per primo, una cattedra di retorica statale stipendiata dallo stato. Con la sua opera più famosa, l’”Institutio Oratoria”, Quintiliano scrisse un vero e proprio trattato di pedagogia in cui delineava tutte le fasi della preparazione scolastica e culturale per il futuro oratore, partendo proprio dall’infanzia.
Un altro trattato di pedagogia è, senza dubbio, le “Avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi [pseudonimo di Carlo Lorenzini (1826-1890)], che fu alunno degli Scolopi a Firenze.
Il Fondatore, beatificato da papa Benedetto XIV [Prospero Lorenzo Lambertini (nato nel 1675), 1740- 1758] nel 1748, è stato canonizzato da papa Clemente XIII [Carlo Rezzonico (nato nel 1693), 1758-1769] nel 1767 e quindi è stato dichiarato, nel 1948, da papa Pio XII [Eugenio Pacelli (nato nel 1876), 1939-1958] patrono delle scuole popolari cristiane di tutto il mondo. Tra gli altri scolopi innalzati all'onore degli altari figura, senza dubbio, Pompilio Maria Pirrotti (al secolo Domenico Michele Giovan Battista Pirrotti 1710-1766), canonizzato da papa Pio XI [Ambrogio Damiano Achille Ratti (nato nel 1857), 1922-1939] nel 1934.
Altro aspetto dell’Ordine è quello di come sono particolarmente sentite la devozione eucaristica (sia i religiosi che gli studenti dedicano parte del loro tempo all'adorazione eucaristica), e quella a Maria, quale madre di Dio (le preghiere comuni vengono fatte terminare con l'invocazione “Sub tuum praesidium”).
Non a caso lo stemma di ciascuna Casa degli Scolopi è diviso esattamente a metà. La prima metà è dedicata alla Madonna con in alto il monogramma in lingua latina “A M” (“Ave Maria”) ed in basso quello in lingua greca “Μ Θ” (“Μήτηρ Θεόυ” “Madre di Dio”). Mentre la seconda metà dello stemma è quello proprio della casa scolopica a cui si riferisce.
§ 2. Cenni all’educazione scolopica nel Risorgimento
Abbiamo da poco celebrato, e con ottimo successo, il CL Anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, e, a nostro parere (sino al 2020, CL Anniversario di Roma Capitale d’Italia) questo spirito non deve andare assolutamente disperso.
Quindi, nella seconda parte, di questa mia “conversazione” ho pensato di inserire degli accenni all’educazione scolopica negli anni della proclamazione del Regno d’Italia.
A centocinquantatre anni da codesta proclamazione, allorchè il Parlamento Subalpino pose ufficiale suggello a quella volontà, tutta popolare, di creare un’Italia una e libera e, naturalmente, con Roma Capitale, è doveroso aggiungere ai “grandi spiriti”, che abbiamo apprezzato e conosciuto, i quali fecero l’Italia, anche altri uomini, non da meno dei primi, i quali contribuirono, nel silenzio modesto, al travagliato cammino dell’unità della Patria.
Uomini che si basarono esclusivamente su attività altamente educative.
E’ lo spirito che aleggiava nelle Scuole dei Padri Scolopi.
Furono “preti” anche gli Educatori del nuovo patriottismo che aleggiava nella c. d. “Nuova Italia”, ma anche “clericali”. Scuole codeste, dove si insegnava ad amare Dio e la Patria italiana; dove si mirava «ad infondere negli animi dei giovani un amore grande per la verità, la morale, la religione, la patria», come era scritto nel Regolamento interno del Collegio Calasanziano di Urbino, quando vi era allievo il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912).
Il sentimento patrio o la passione patriottica che vibrava nelle libere e trainanti composizioni musicali, o nella poesia civile e popolare, o nella pittura ricche di contemporaneità, o sulle piazze delle nostre città, o sui campi di battaglia, riscaldava anche le fredde aule delle scuole religiose, da dove non pochi eroi risorgimentali uscirono coscienti del novello Verbo di italianità e pronti per lo stesso a battersi e morire. Era in quei piccoli ambienti che si viveva, si seguiva e si provava la vera ed autentica Storia d’Italia, con i suoi trionfi, ma anche con le sue sconfitte, nonché le sue vergogne e le sue glorie.
Gli allievi frementi la vivevano insieme ai loro Educatori, giovani o vecchi. Lasciati poi gli studi ed i collegi, la servirono nobilmente e con coerenza, cooperando e contribuendo all’avvento dei tempi nuovi per l’Italia.
La storia è realtà, ed il vero non si smentisce, anche se qualcuno ha ritenuto affermare, con inutili intenzioni esclusiviste, che la scuola statale italiana, come struttura, e specialmente a livello dell’istruzione primaria, fu opera dei liberali e la sua difesa fu tutt’uno con la tutela dei valori che animarono il Risorgimento italiano.
Certamente da quegli uomini non si poterono condividere le deviazioni religiose, le quali purtroppo ed apertamente accompagnarono lo sviluppo storico di quel Risorgimento, che invece era stato sentito dal popolo profondamente religioso e cristiano, differenziandosi dai movimenti culturali e sociali dell’Illuminismo francese e dalla rivoluzione del 1789.
Quando l’Italia liberale ritenne farsi senza Chiesa, talvolta contro, non tanto per la questione storica e religiosa di Roma Capitale, quanto per quel sopravvento illuministico, massone, ed areligioso della politica e dei politici del tempo, gruppi numerosi di Sacerdoti Educatori e Maestri, attraverso le voci della cultura e della civiltà, continuarono ad amare ed a celebrare la Patria. Né dimentichi di una suggestiva e profonda pagina del Vangelo, quasi con la passione di Apostoli, seppur con sussiego di letterati, si adoperarono a conservare la concordia degli spiriti e l’equilibrio delle esigenze, attraverso la difesa di quei valori perenni, che sono l’indispensabile premessa al fine supremo da raggiungere, con efficace saldezza, l’unità e l’indipendenza politica.
Le millenarie fratture nel corpo e nello spirito della Patria Italiana influivano in maniera sinistra sull’avveramento del sogno unitario. Ebbene si dia merito all’onestà: se nell’esercizio normale del loro apostolato, uomini religiosi ed ecclesiastici si inserivano nella politica o tenevano discorsi sacri e profani e poetavano o facevano scuola. Uno il loro scopo, ma non quello di accrescere gli attriti e le divisioni, di indebolire e di combattere giustificate aspirazioni, bensì quello di dimostrare la validità e l’importanza, sul cammino della libertà e della dignità nazionali, di conciliare sempre gli inscindibili binomi Religione e Patria, Dio e Cesare.
Gli Scolopi non furono soli, ma furono tra i primi negli slanci unitari del Risorgimento.
Ad essi era affidata molta gioventù italiana, e non potevano formarla al di fuori od in contrasto con il sentimento e la volontà di tutto un popolo. Quel concetto di sintesi e di armonia, che aveva fatto intuire e creare al Calasanzio quanto di più umano e cristiano si poteva desiderare al fine di soddisfare i bisogni sociali e religiosi dell’uomo, aveva guidato ancora nei secoli futuri i di lui figli; talvolta causa di tattiche imprudenti e da parte esterna di non sempre sereni giudizi.
Al fine di rievocare questi particolari momenti e personaggi delle scuole scolopiche non sarebbe sufficiente l’odierna “conversazione”.
Certamente sarebbe un compito a me molto gradito, da ex-allievo del Nobile Collegio Nazareno, ostentare “aperture” verso forme più liberali di assetti politici e sociali, bensì perché dagli onesti si riconosca ancora una volta la spudoratezza del menzoniero ed inutile slogan «Le clericalisme: voilà l’ennemi» («il clericalismo: ecco il nemico»). E perché nel clima rinnovato della pacificazione non siano mai dimenticati gli umili, non meno fecondi artefici del Risorgimento italiano, che spesso si è soliti far venir meno.
L’oblio è ingiusto, ma ritengo che il tempo trascorso dall’Unità avrà abolito in gran parte, in Italia, le “illiberali” discriminazioni di un tempo.
Voluminosa è la bibliografia conservataci e comprendente gli anni fra i più cruciali di quella Storia d’Italia, dal 1846 al 1861.
Scorrendola si rileva quasi una passione romantica echeggiante l’incerta e difficile situazione dei tempi fra una parola di dolore o di speranza, di sfiducia o di incitamento, di rabbia o di entusiasmo.
In codesto clima risorgimentale che ho cercato sinteticamente di far comprendere, i personaggi scolopi o legati ai medesimi sono diversi e tutti degni di menzione.
Sicuramente il primo che mi viene alla memoria è il padre Geremia Barsottini (1812-1884), che fu un insigne critico letterario, ma soprattutto il maestro di retorica di Giosuè Carducci (1835-1907) a Firenze negli anni scolastici 1850-51, e forse di alcuni di quei giovani universitari pisani che, nel 1848, a Curtatone e Montanara, donarono all’Italia il fiore della loro giovinezza.
Sicuramente anche l’opera di Vincenzo Gioberti (1801-1852) fu influenzata dal pensiero del Barsottini, che egli chiamò, nel 1849, l’”Uomo Europeo”.
Infatti il Gioberti nell’Ordine, nella storia e nel metodo dei Calasanziani, aveva trovato piena rispondenza con i suoi ideali di conciliazione tra religione e scienza, fra Chiesa e Patria, fra disciplina e libertà. Codesti pensieri sono evidenziati in una lettera del 14 gennaio 1848 al Rettore del Collegio Scolopico di Carcare.
La visione del Nostro è, e non dovrei dirlo, contro il primato dei gesuiti, ricorrendo la figura dello Scolopio Liberale.
E come non ricordare un altro grande Educatore ligure, il padre Atanasio Canata (1811-1867), nato nella bella e ridente città di Lerici.
Di lui fu scritto che aveva l’animo ricco di tre grandi ideali ed amori: “Dio – Patria – i Giovani”.
Egli ebbe come alunno sicuramente Goffredo Mameli (1827-1849) i cui versi del nostro inno “Fratelli d’Italia” sorsero tra i banchi del collegio scolopico di Genova, e quindi nella casa torinese dell’amico Lorenzo Valerio (1810-1865), futuro senatore del Regno d’Italia, e musicato dal maestro Michele Novaro (1822-1885).
Ma sicuramente, senza alcuna ombra di dubbio, gli attuali versi dell’inno medesimo furono rivisti ed ampliati dal padre Canata.
Altro personaggio illustre, allievo dello stesso sacerdote, è Giuseppe Cesare Abba (1838-1910), scrittore, docente, preside, ma soprattutto garibaldino, il quale, nel suo libro “Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille”, ricordò patriotticamente il suo antico maestro di Carcare.
L’incisiva semplicità delle prime rapide note è ancora viva nell’edizione, sebbene sia ravvisabile una paziente elaborazione letteraria del “piccolo capolavoro”, come lo definì Giosuè Carducci e sollecitò il nostro a ricavarci qualcosa di più. E sicuramente divenne un libro che, con “I Mille” di Giuseppe Bandi (1834-1894), scrittore, patriota e giornalista, è certamente il più significativo della copiosissima letteratura garibaldina fiorita, in un clima di leggenda, di già contemporaneamente alle imprese stesse [come gli scritti di Giuseppe Guerzoni (1835-1886), di Jessie Jane Meriton White (1832-1906) e di Alexandre Dumas (figlio) (1824-1895)].
Un discorso a parte andrebbe fatto anche per il Beato Pio IX, il quale formò la sua gioventù ed i suoi ideali nel Collegio Scolopico di Volterra, nonché il suo futuro ministro degli interni, Pellegrino Rossi (1787-1848), precursore dell’Europa unita.
Ed ancora due uomini politici, allievi entrambi nel Collegio di Savona, Paolo Boselli (1838-1932), economista insigne, più volte Ministro, tra cui anche della Pubblica Istruzione, nella cui veste, nel 1884, pareggiò le scuole del Collegio Nazareno.
Quindi Luigi Einaudi (1874-1961), primo presidente della Repubblica Italiana.
Concludo con il padre Alessandro Serpieri (1823-1885), scienziato e sismologo, il cui nome è legato al Collegio di Urbino ed a Giovanni Pascoli il quale, sotto la sua insigne guida, dal 1862 al 1871, crebbe alla vita, alla poesia, alla Patria.
§ 3. Luigi Pietrobono
Luigi Pietrobono nacque ad Alatri, in provincia di Frosinone, il 26 dicembre 1863, figlio di Francesco, valente artigiano, che, in gioventù aveva preso parte alla difesa della Repubblica Romana, e di Filippa Merluzzi, tipica donna ciociara, buona, affettuosa e timorata di Dio.
Anche il Nostro, come altri illustri confratelli che ricorderò a breve, era figlio di una terra foriera di antiche tradizioni, che è la Ciociaria.
Si indirizzò immediatamente, entrando a far parte dell’ordine degli Scolopi, verso il calasanziano ideale di sacerdote e di educatore, maturandolo con sempre più consapevole coscienza vocazionale dal collegio, all’università, alla scuola.
Si laurea in lettere nel 1887, in filosofia nel 1889, e, nel Nobile Collegio Nazareno di Roma, è docente già dal 1887 al 1905, quindi preside e docente, una prima volta, dal 1905 al 1906, ed, una seconda volta, dal 1906 al 1936, quindi anche Rettore, dal 1906 al 1910, e dal 1915 al 1918.
Padre Luigi non sarà un cattivo sacerdote; certo non profumerà di ascetismo ma si metterà al servizio della Chiesa e diverrà un coraggioso combattente della Fede in tempo di acceso anticlericalismo massonico.
Amava ripetere:«[…] sono un cattolico, ma liberale: e questa è la mia colpa, che in certe sfere non trova perdono; il guaio è che non ne sono pentito.».
La carriera che il Nostro iniziò giovanissimo nel Collegio Nazareno, e non fu la conseguenza di promozioni all’interno dell’Ordine perché Scolopio, ma al riconoscimento delle sue capacità, della sua intelligenza, della sua non comune cultura.
Al Nazareno il Pietrobono dedicò i suoi anni migliori e l’unica sua ambizione fu di vedere l’Istituto fiorire in maniera corrispondente alla sua secolare tradizione.
Non sempre, però, codesto suo desiderio potè essere soddisfatto, in quanto conflitti di competenza, ostracismi, ma soprattutto invidie tra confratelli, interventi dell’autorità ecclesiastica, ritiro di religiosi dal Collegio, costrinsero il Nostro a lasciare il Nazareno per accettare il rettorato del Collegio “Conti Gentili” di Alatri (ove, attualmente, ha sede il Liceo “Luigi Pietrobono”) per poi tornare a Roma.
Hanno inizio qui i suoi studi su Dante che porterà avanti lungo sessanta anni di attività, per tutta la vita e che possono essere datati già dalla sua tesi di laurea su “La teoria dell’amore in Dante Alighieri”, che fu immediatamente pubblicata (1888) sulla rivista “La filosofia nelle scuole italiane”, rivista fondata da Terenzio Mamiani della Rovere (1799-1885), filosofo ed uomo politico.
L’indagine di Pietrobono viene sostenuta, più che da altre tesi, dalle suggestive letture di Giovanni Pascoli e dal vasto riesame dell’opera di Dante che queste avevano avviato, mostrando che il poema doveva essere inteso come il dramma della redenzione umana, cosicché, solo comprendendone tutto il profondo ed unitario pensiero che lo sostanzia, se ne poteva attingere l’arte.
Pietrobono, superando i residui limiti estetici del Pascoli e ponendosi in alternativa polemica, sia con le indagini sul lirismo di Dante, portate avanti dall’estetica, sia con quelle, altrettanto disgregatrici dell’unità morale dell’opera, perseguite dalla critica positivistica, costruisce sul vaglio dell’intera opera di Dante, un’organica visione strutturale del poema.
La “Commedia” è per il Pietrobono la profezia del Veltro: messaggero di speranza al mondo traviato e disorientato. Egli interpretò l’unica profezia “ante eventum” della Divina Commedia come quasi che il Veltro fosse Gesù.
Il Veltro è necessario perché gli uomini medesimi possano essere felici; essi dalla c. d. “donazione di Costantino” non hanno più potuto godere non solo della pace dello spirito, ma neppure di quella terrena.
La colpa di Costantino è pari a quella di Adamo.
Dante diviene così l’annunciatore di un disegno divino, e la Commedia il poema del dramma umano, meditato nella sua genesi, osservato nel suo storico processo, orientato nella sua finalità di riscatto e di redenzione.
Luigi Pietrobono si qualifica, in tal modo, come “il migliore e più avveduto seguace del Pascoli” (Barbi) anche se, così critico ed in totale indipendenza, dal Pascoli medesimo si distacca nella concretizzazione analitica di un’identica linea di interpretazione esegetica.
Con il Pascoli, che aveva conosciuto al Collegio Nazareno nel 1897 quale Commissario Governativo per gli esami di Licenza Ginnasiale e Liceale, Pietrobono scambia costantemente i risultati della propria indagine ed alla sua poesia, per l’affettuosa amicizia che lo lega all’uomo, dedica una vigile attenzione critica, seguendola, sollecitandola, ed a volte, oltre che sostenendola, e con passione nonchè coraggio, difendendola.
E’ del 1907, infatti la lettera aperta di padre Luigi al filosofo Benedetto Croce (1866-1952) “Sulla poesia di Giovanni Pascoli” pubblicata da “Il giornale d’Italia”, in cui, dissentendo apertamente con il riduttivo giudizio espresso da questi sul poeta romagnolo, illumina i caratteri specifici di questa nuova poesia, ricevendo dal Croce, pur nel fondamentale dissenso critico, uno spassionato elogio quale «colto e fine ingegno, guida ben informata, esperta e affettuosa».
Esce, nel 1918, presso l’editore Zanichelli Bologna, un’antologia commentata di cinquantasei poesie di Pascoli che, successivamente, accresciuta e riveduta, resta tutt’oggi un riferimento d’obbligo.
Nella poesia di Pascoli Pietrobono sa cogliere, attraverso la sottile elegia del sentimento del mondo, l’angoscia dell’uomo moderno volto umilmente alla conoscenza del mistero che è dietro le cose, per riconquistare, ed in questa ricerca è la tensione che accomuna i due uomini, il trascendente significato dell’esistenza.
Il suo costante fervore intellettuale orienta lo Scolopio intanto verso un fedele rapporto con la romana Accademia dell’Arcadia di cui, con il nome pastorale di Edelio Echeo, lo troviamo già socio nel 1894.
Nel 1924 fa parte di una ristretta commissione per la riforma dell’Arcadia e, partecipando da quel momento al governo dell’Accademia, ne rafforza l’impegno reinserendola, anche con la propria attività, nella viva dialettica della cultura italiana.
Dal 1926 vi inizia i suoi corsi sulla Divina Commedia, su Pascoli, Leopardi e Manzoni fino a che, nel 1940, nominato dal Ministero dell’Educazione nazionale, ne diviene Custode generale.
Gli anni della sua custodia, durata fino al 1953, anno in cui, ormai stanco, rassegna le proprie dimissioni, sono fervidi di lavoro ed egli vi profonde tutte le sue energie di uomo di cultura e di educatore.
E’ quest’ultima soprattutto, «avendo trascorsa la maggior e miglior parte della vita nella scuola», la missione più intensamente avvertita da Luigi Pietrobono in tutta la sua vita e che egli sostiene, fino alla fine, con lucida fede e mirabile saggezza.
In essa sa cogliere i valori stessi dell’insegnamento evangelico e con il Vangelo medita sul significato ultimo della storia umana esponendo il messaggio, sempre nuovo perché eterno, che si trova racchiuso in quelle pagine, vagliate nell’intimo della coscienza e avvalorato da una risentita intelligenza: «quel che preme si è di entrare nello spirito di Gesù e farlo vivere nelle nostre azioni perché nessuno ha letto più addentro di Lui nei cuori umani e ne ha interpretati i bisogni».
E’ del 1925 “La morale del Vangelo”, del 1943 “Dolore e Amore”, del 1949 “Col nostro maestro Gesù”: è il verbo della carità e della libertà che si coglie in queste pagine, ideali sempre perseguiti dalla sua indomita coscienza di cristiano e di ciociaro e nei quali può essere sintetizzato il significato stesso della sua vita e della sua attività: «quel che duole maggiormente si è che i popoli cristiani non abbiano ancora acquistato chiara coscienza della inviolabilità ella persona umana e si lascino miseramente tiranneggiare: ignorano che al mondo non vi sono né re, né imperatori, né presidenti, né ministri che abbiano diritto di far violenza ad uno spirito immortale».
Contemporaneamente all’Arcadia ed agli impegni scolastici, padre Luigi era presente (e sin dal 1918) anche alla c. d. “Fondazione Besso” del Largo Argentina in Roma [eretta a nome di Marco Besso (1843-1920) il finaziere e filantropo triestino di già presidente delle Assicurazioni Generali] in cui il suo lavoro non consisteva soltanto nel tenere lezioni su Dante e le di lui opere, ma anche nel consigliare e suggerire al Besso medesimo iniziative culturali ed a preparare programmi.
Le lezioni del Pietrobono iniziarono nel gennaio 1923 per concludersi nel giugno 1949.
Nel 1936, padre Luigi Pietrobono lascia la presidenza e l’insegnamento, e due anni dopo il Nazareno. Non fu un auspicato arrivederci, e neppure un voluto addio, ma un sofferto e non desiderato abbandono.
Dal Nazareno il suo preside uscì in silenzio, non volle assumere posizioni ridicole o esprimere oltraggiosi pronunciamenti.
Padre Luigi si limitò a scrivere una lettera al presidente della Commissione Amministratrice della Scuola per lamentarsi che «[…] nessuno sia venuto a stringermi la mano o a dirmi arrivederci, ad eccezione dei bidelli che mi guardavano muti con gli occhi pieni di lacrime».
Si ritirò a vivere nella casa della sorella alla via Flaminia in Roma.
Al Nazareno ci tornò altre volte, tra cui il 30 maggio 1939 in cui fu scoperta una lapide dedicata alla prima Regina d’Italia, Margherita di Savoia (1851-1926) che venne posta nella parete di sfondo dell’Aula Magna, la quale prese il nome dalla stessa, e ciò in ricordo del suo augusto contributo che dette al Pietrobono per organizzare le prime “lecture Dantis” a Roma.
Certamente la scuola fu per Padre Luigi una scelta di vita, speranza e rifugio nei momenti difficili, quando la realtà esterna lo tediava con le sue brutture e con le sue cattiverie; la scuola fu la vocazione e la missione di un’intera esistenza.
Una sua lapidaria frase riassume quale posto avesse occupato l’attività nella quale aveva profuso la bontà del di lui cuore e quella immensa lucidità dell’intelligenza: «[…] cinquantadue anni d’insegnamento senza interruzione è l’opera di cui mi compiaccio sopra ogni cosa. La scuola mi ha confortato e consolato. Se tornassi a vivere, comincerei da capo.».
Il Re Umberto II (1904-1983), tramite il suo Ministro Falcone Lucifero (1898-1997) faceva pervenire il 29 dicembre 1958 i «fervidi auguri per il novantacinquesimo compleanno» dello Scolopio, che così rispose: «Eccellenza, nella mia tarda età, con la vita modesta che meno, quasi sempre raccolto nella solitudine del mio studio, chi avrebbe potuto mai immaginare che avrei ricevuto un attestato di così preziosa benevolenza di Sua Maestà il Re? [....] Non Le so dire di quali e quanti sentimenti mi sia sentito invadere il cuore e quali parole di ammirazione e ringraziamento mi abbia messo sulle labbra.».
Sicuramente una risposta, come sempre, toccante e ricca di umiltà.
Padre Luigi Pietrobono muore a Roma il 27 febbraio 1960.
§ 4. Conclusioni
E’ stato, e lo riconosco, un “excursus” molto rapido e molto sintetico, come è d’altronde nel mio stile, anche e soprattutto per non appesantire questo cortese, qualificato ed attento pubblico.
Ma ancora poche parole sono necessarie per ricordare quelli che furono sacerdoti celebri nell’Ordine ed anche ex alunni degni di menzione.
Tra gli scolopi ricordiamo, senza dubbio, il padre Francesco Donati (1821-1877), poeta e critico letterario, maestro di Giovanni Pascoli ed amico di Giosuè Carducci; il padre Eugenio Barsanti (1821-1864), geniale inventore del motore a scoppio; il padre Giovanni Antonelli (1818-1872), fisico, astronomo, ingegnere, inventore e studioso della strade ferrate, sua vera passione e peculiarità; il padre Domenico Chelini (1802-1878), insigne matematico e fisico; il padre Stanislaw Konarski (1699-1773), il quale rinnovò totalmente in Polonia la scuola scolopica e non solo, ma anche quella dell’intero paese, e, tutt’oggi, viene considerato uno dei grandi della Nazione; altri due grandi ciociari, il padre Pasquale Vannucci (1882-1974) di Ceprano, insigne critico letterario, ed il padre Quirino Santoloci (1913-1969) di Pofi, preside (per oltre 25 anni), rettore del Nazareno e quindi Provinciale, di cui quest’anno cade il I centenario della nascita.
Tra gli infiniti ex-alunni mi limiterò a San Vincenzo Pallotti (1792-1850), fondatore della Società dell’Apostolato Cattolico, conosciuta come Pallottini; San Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore della Congregazione di San Giuseppe per l’educazione della Gioventù; il beato Bartolo Longo (1841-1926), fondatore del Santuario della Madonna di Pompei; il pittore Francesco Goya (1746-1828); l’ammiraglio e medaglia d’Oro Gino Birindelli (1911-2008), già nostro Presidente, e tantissimi, ma veramente tantissimi altri in tutti i campi e le professioni.
Come ho accennato all’inizio di codesta mia prolusione alla fine del corrente anno scolastico, e dopo trecentoottantatre anni, il Nobile Collegio Nazareno probabilmente chiuderà alla gloriosa attività didattica, culturale ed alla formazione della gioventù con il cambio di destinazione d’uso dell’antico palazzo, e ciò, a nostro modesto parere, contro le volontà testamentarie del cardinale Michelangelo Tonti che indicava i padri Scolopi quali esclusivi direttori dell’Istituto.
Queste le parole relative al Collegio Nazareno nel testamento del cardinale Tonti del 19 aprile 1622: «[…] Illum in scholarem dicti Collegii eligant et praesentent, quam pauperiorem, meliorisque et egregioris indolis, ingenii et morum ac aliis qualitatibus, et conditionibus juxta praescriptam ut supra firmandam constitutionem, praedictorum tamen RR. Patrum Religiosorum Piarum Scholarum, a quibus primo loco examinari debeant, relatione, dotatum, invenerint […]».
Di già, e da anni, nel terzo e nel quarto piano, cioè nelle stanze dell’antico Convitto, e nella terrazza, vi ha sede qualcosa di estraneo alle tradizioni romane di questo palazzo e di altri storici palazzi.
E’ triste, e fa male a noi ex-alunni, che crediamo in certe istituzioni e tradizioni vedere, e dover convivere con tali estraneità.
Personalmente ho collaborato con il Nazareno sin dai tempi in cui ero alunno, poi da ex alunno ho proseguito la mia collaborazione con l’indomabile e pieno di idee padre Armando Pucci (1918-2007) nelle svariate iniziative da lui animate e create [l’”Alunno più buono d’Italia” (1974), il premio letterario “Nazareno” (1976), le riprese delle attività dell’”Accademia degli Incolti” (1978) e della “Congregatio Lauretana Collegii Nazareni” (1979), la più antica congregazione mariana romana voluta direttamente dal Santo Fondatore sotto la cui azzurra protezione è posto il Collegio] attività tutte sotto l’esclusiva egida dell’Associazione Ex alunni, anch’essa restaurata nel 1957.
Credo quindi che la trasformazione in albergo dello storico Palazzo non spetti ad alcun titolo all’Ordine delle Scuole Pie.
Il Collegio Nazareno, punto di riferimento al centro di Roma, non puo’, non deve terminare la sua ultracentenaria funzione.
Al Nazareno sono venuti in visita Papi {Benedetto XIV [10 dicembre 1740]; Clemente XIII [17 aprile 1768]; Pio VI [Angelo Braschi (nato nel 1717), 1775-1799)] [6 ottobre 1796]; Pio VII [10 dicembre 1805]; ben tre volte Pio IX [9 dicembre 1860; 8 dicembre 1863 e 8 dicembre 1868]}, Re ed Imperatori, tra cui Giuseppe II, ma anche uomini politici come Giovanni Leone (1908-2001), il quale visitò il Nazareno da Presidente della Camera, da Presidente del Consiglio dei Ministri ed anche da Presidente della Repubblica, o come Giovanni Gronchi (1887-1978).
Una ulteriore particolare visita e frequenza del Collegio fu quella di San Giovanni Bosco (1815-1888), negli anni 1865 e 1866, e ciò al fine di studiarne il metodo pedagogico, l’organizzazione disciplinare e degli studi.
Don Bosco ne rimase entusiasta.
Tra gli insegnanti ricordiamo, senza dubbio, l’insigne storico Alberto Maria Ghisalberti (1894-1986), il quale tenne la prolusione ufficiale in occasione del centenario dell’Unità d’Italia.
San Giuseppe Calasanzio la volle, come abbiamo visto, Scuola Pubblica, e, come tale, il Nazareno, unitamente al vicino Collegio Romano (ove, come di già detto, potevano iscriversi gli alunni usciti dalla seconda classe), potrebbe divenire un polo culturale del Centro Storico sotto l’egida del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali.
Codesta, a nostro parere, dovrebbe essere la via maestra da seguire in quanto sono difficili da accettare situazioni alquanto farraginose e diverse.
Al riguardo varie sono le iniziative per salvare il Nazareno, come quella del dott. Alfredo Arpaia, Presidente della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, il quale ha scritto al Presidente della Repubblica, al Ministro dell’Interno ed al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica, sottolineando quanto il Nobile Collegio Nazareno, gestito attualmente da una Fondazione, la quale, come tutti gli enti morali è sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’Interno, meriti di essere mantenuto inalterato rispetto al suo compito storico e tradizionale.
A seguito anche di ciò, il senatore Luigi Compagna ha formulato, nella scorsa Legislatura, in una sua interrogazione (atto sindacato ispettivo n. 4-08660) il riferimento all’ente privato che gestisce la scuola e che rivendicherebbe il titolo di usare l’immobile, finora ed esclusivamente a destinazione scolastica, come un proprio patrimonio immobiliare suscettibile di un’altra eventuale destinazione.
Ed ora, richiamando, come è mia consolidata tradizione, i versi di Virgilio (70 a. C.- 19 a. C.) (Georg. III, 284), nella loro perenne e duratura validità: «fugit interea, fugit inreparabile tempus […]», taccio e chiudo codesta mia sommaria e forzatamente molto incompleta esposizione, ma permettetemi di tacere con le seguenti bellissime parole del linguista, dello scrittore, del patriota Niccolò Tommaseo (1802-1874), che non fu assolutamente alunno degli Scolopi ma, in Firenze, li conobbe e li apprezzò: «Scuole Pie, dolce nome che abbraccia la fede e la carità, l’intelletto e il cuore, la parola e l’opera, la compassione e l’amore, gli uomini e Dio…».
Gianluigi Chiaserotti