IL CONCETTO DI PATRIA E DI MORTE IN UGO FOSCOLO

Oggi, 10 settembre, cade l’anniversario della morte (1827), nel villaggio inglese di Turnham Green, del poeta Ugo (nato “Niccolò”) Foscolo, nato nell’isola jonia di Zante, allora veneta [nota anche come Zacinto (in lingua greca “Ζάκυνθος”)] il 6 febbraio 1778.


Ugo Fosco fu uno dei maggiori ed immortali esponenti della nostra letteratura del periodo tra il XVIII ed il XIX secolo, in cui sorgevano e si affermarono le prime correnti neoclassiche e romantiche del periodo napoleonico e prima della Restaurazione, dovuta al Congresso di Vienna (1814-1815).

Egli ci ha, senza dubbio, insegnato a ricercare la comunità d’intenti e affetti [«(…) Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha nell’urna: (…)», Sepolcri, 41-42]. Ma l’aspetto fondamentale e principale che reperiamo sicuramente nel poeta veneziano è il concetto di Patria.

La sua terra natale, patria (cioè “terra dei padri”) era appunto l’isola di Zacinto, greca ma veneziana per lingua e tradizioni. Quando alla fine del XVIII secolo giunse a Venezia, che allora era una repubblica e costituiva uno dei tanti stati dell’Italia di allora, egli tenne una prolusione al Senato sul significato della patria. Codesta è la terra cui ci si sente di appartenere, perché ciascuno di noi condivide le memorie storiche, quindi la lingua e soprattutto le tradizioni del popolo che vi abita (il ricordo di Dante ed il suo De vulgari eloquentia è d’obbligo).

In seguito, traditi gli ideali democratici e di libertà compiuti da Napoleone, ed il conseguente esito mortale della Repubblica di Venezia, Foscolo cominciò a ragionare che la patria degli italiani doveva essere l’intero territorio dell’Italia.

Le divisioni che esistevano allora fra gli stati regionali della nostra Penisola, pensava Foscolo, non erano assolutamente divisioni fra nazioni diverse, ma solo, esclusivamente e meramente politiche e territoriali all’interno di una stessa nazione, quella italiana appunto.

La nazione e la patria degli Italiani era una sola: l’Italia, che doveva essere semplicemente unita e quindi formare a ciò il popolo: gli Italiani.

A quel punto amare il proprio luogo natale (Zacinto) significava amare tutta l’Italia e viceversa l’amore per la Patria (Italia) significava amare anche la patria nativa.

Il Foscolo, agnostico e pessimista e quasi materialista, fu, con eloquente contraddizione, un limpido assertore della storicità; né già di erudizioni, aneddoti o tanto meno esempi storici, ma proprio di storia oggettiva e sostanziale, e richiamò gli italiani alle storie, e volle che anche codeste, come la poesia ed il giudicar di poesia, penetrassero nel cuore e nella coscienza degli italiani ed egli stesso cercò di dare un esempio con la sua vita di cittadino, di soldato, di artista, di dotto, di amico e d’innamorato [nei programmi di letteratura italiana dell’ultimo anno di Liceo (Classico maggiormente) si dedicava sempre una lezione agli “amori del Foscolo”].

Una vita che egli sentì solo sua.

Una vita portata ad esempio da tutta la gioventù del nostro Risorgimento.

Foscolo fu un militare e cittadino. Al riguardo è bene ricordare il detto epigrafico di Carlo Cattaneo (1801-1869), che il Foscolo, quando altro non poté fare per l’Italia, le dette, col suo esempio, una nuova istituzione di somma efficacia per l’avvenire: l’esilio (brillantemente evidenziato in quel capolavoro giovanile Le ultime lettere di Giacomo Ortis).

Ed anche qui il paragone con Dante è d’obbligo.

Dell’Ortis scrive lo storico della Letteratura Italiana Francesco De Sanctis (1817-1883):

«La vecchia generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti, professore, cavaliere, poeta di corte. [...] E non si sentì più una voce fiera, che ricordasse i dolori e gli sdegni e

le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi. Comparve Jacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno, uscito dal fondo della laguna veneta, come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l'eroe liberatore di Venezia, e l'eroe mutatosi in un traditore vendeva Venezia all'Austria. Da un dì all'altro Ugo Foscolo si trovò senza patria, senza famiglia, senza le sue illusioni, ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo Jacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: “O virtù, tu non sei che un nome vano”. Le sue illusioni, come foglie di autunno, cadono ad una ad una, e la loro morte è la sua morte, è il suicidio.» (“Storia della Letteratura Italiana”, Rizzoli, Milano 2013, pp. 939-940).

Ma sicuramente l’opera più famosa del Nostro è il carme Dei Sepolcri, dedicata ad Ippolito Pindemonte (1753-1828), poeta, letterato e traduttore. Il poeta spiegò i motivi che lo portarono a scrivere il carme. Fu un’occasione del tutto esterna quella che di un tratto il suo animo ordinò, intorno al nucleo dei Sepolcri, gli affetti e le forme che egli stesso aveva in sé accolti e patiti da tutta la sua esperienza umana di scrittore. L’ispirazione per l’opera nasce nel 1806, quando l’Editto di Saint-Cloud [esattamente: Décret Impérial sur les Sépultures (12 giugno 1804)], che prevedeva la sepoltura dei morti in specifiche zone extra-urbane per ragioni igieniche, venne estesa anche in Italia. In tal modo si escludeva dunque la sepoltura in chiese o luoghi urbani. Nell’opera, oltre alle tematiche, Foscolo riprende da Giuseppe Parini (1729-1799) e da Vittorio Alfieri (1749-1803) anche la metrica, formata da endecasillabi sciolti. Per il Nostro, se la civiltà consiste nel tramandare il sapere, la tomba ne è invece un simbolo: è tramite il ricordo dei nostri maggiori che si prosegue il rapporto con essi. Questo è vero anche sul piano storico. Infatti i defunti di una nazione ne costituiscono l’identità. Inoltre l’essere ricordati concede al defunto la vita eterna. 

Lo stile è solenne ed incisivo, ma non vengono meno certi toni colloquiali tipici di quello epistolare, né quelli sublimi. Tale stile è adatto a risvegliare, nell’Italia imbarbarita, le gloriose virtù civili, delle quali sono emblema le tombe dei Grandi nella Basilica di Santa Croce in Firenze (così dalle urne della Basilica che aduna gli avelli dei grandi italiani l’Alfieri traeva conforto: e proprio da quelle urne trarranno auspicio gli Italiani quando risorga in essi speranza di libertà e di gloria).

Una delle prime novità di codesto carme è la totale assenza del motivo patriottico-risorgimentale, sebbene lo stesso abbia un’attualità e punti sul profondo significato della Storia, della Civiltà, ma soprattutto della Tradizione. Il nucleo principale dell’opera è conciliare la visione materialistica della vita (propria dell’Illuminismo) con quella religiosa. Foscolo si chiede quale sia il senso della morte e quale sia il rapporto tra morti e superstiti. Si deve rinnegare tale valore o sostenere la morte ed i suoi riti?

Questo carme è sostanzialmente innovativo per quel certo intento dimostrativo tramite esempi, ma anche per il suo costante rapporto tra passato e presente. Il carme può comodamente essere diviso in quattro parti:

A) utilità delle tombe;

B) i varii culti dei morti ed il senso della civiltà;

C) le tombe esemplari dei Grandi: la Basilica di Santa Croce (ove sarà giustamente sepolto il Nostro) ed il riscatto futuro dell’Italia, e 

D) il valore morale della morte1.  

Il tema dei Sepolcri non è senza dubbio nuovo. Fu trattato anche dalla poesia inglese, francese e tedesca pre-romantica (proprio sulle tombe e sui cimiteri), ma la differenza consiste nel fatto che Foscolo non lo affronta da un punto di vista religioso, ma civile. Foscolo imposta il carme in modo da trattare tutti i temi che lo hanno sempre interessato: il materialismo, la civiltà, la funzione della poesia, la condizione storica dell’Italia. La visione dei “Sepolcri” è senza dubbio materialistica. Ce ne si accorge sin dai primi versi. Ed alla base del materialismo del Nostro sta proprio nella tradizione illuminista, ma anche e senza dubbio classica, che ha per modello il poeta Tito Lucrezio Caro. Difatti più volte, su sua imitazione, Foscolo sosterrà che: «Il non esservi altro mondo dopo questo toglie ogni principio alla religione, alla quale sogliono fuggire i mortali nelle loro disavventure».

Comunque, nel negare il valore religioso delle tombe, egli elabora una sorta di religiosità laica: le tombe sono segno di civiltà. E’ grazie a questi valori che il sepolcro puo’ far vincere la morte.

Sotto molti punti di vista le teorie di Foscolo ricordano quelle di Giambattista Vico (1668-1744), che vedeva la storia come la meta delle civiltà verso la perfezione.

Ed il carme Dei Sepolcri è ispirato dal pensatore napoletano. Basti leggere i versi (91-96):

«[…] Dal dì che nozze e tribunali ed are/ diero alle umane belve esser pietose/ di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi/ all’etere maligno ed alle fere/ i miserandi avanzi che Natura/ Con veci eterne a’ sensi altri destina […]».

Tutto ciò per dire: dal momento in cui nacque la civiltà.  

L’esempio patriottico suscitato dalle tombe degli antichi, invece, anticipa certamente lo spirito romantico-risorgimentale.

Spesso poi, nel corso dell’opera, Foscolo si chiude in una sorta di individualismo, e dal destino italiano passa a considerare senza dubbio il proprio. E come spiegazione conclusiva della sostanza del carme foscoliano potrebbe essere assunto il verso di Virgilio nelle Egloghe “Et tumulum facite, et tumulo superaddite carmen”, che il Pindemonte poneva come epigrafe sul suo sermone in risposta ai “Sepolcri” stessi.

Questo mio breve pensiero non sarebbe sufficiente ad illustrare l’immensa opera di Ugo Foscolo, tra l’altro, anche fine, acuto, preciso critico dantesco, nonché storico. 

Meglio non posso concludere con un pensiero dello storico della letteratura italiana Francesco Flora (1891-1962): «[…] Rimanendo intimamente italiano e classico (e concepire e sentire con tal fuoco, quanto egli ebbe, l’indipendenza dell’Italia, era un modo di avvertire italianamente il moto europeo volto a far valere il principio della nazione) il Foscolo fu il primo scrittore d’Italia, che nativamente spiccasse il volo dalla chiusa provincia al cielo d’Europa. […] il Foscolo scoprì la profondità di sé medesimo e l’originalità per la poesia italiana che ritrovò in lui la voce veramente universale.».


1  I “Sepolcri” furono studiati ed apprezzati anche da molti scrittori, tra cui Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), il quale nel suo “Il Gattopardo” così descrive, nella “Parte Settima”, la morte del Principe di Salina: «(…) [la morte] era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto».

(Ed il romanzo è tutto qui. I pensieri del Principe di Salina oscillavano nel corso dell’opera tra “έρως” e “θάνατος”, amore e morte.)


Gianluigi CHIASEROTTI


Bibliografia

Artusi P. (1878), “Vita di Ugo Foscolo”, Tipografia di G. Barbera, Firenze, pubblicata da Carta Canta Editore nel 2011 per il CL Anniversario dell’Unità d’Italia, passim.

Croce B. (1963), “La Letteratura Italiana” (per saggi storicamente disposti a cura di Mario Sansone), Edizioni Laterza, Bari, V Edizione, “Ugo Foscolo”, passim

Flora F. (1959), “Storia della Letteratura Italiana”, Arnoldo Mondadori Editore, XI Edizione, Volume IV, “Ugo Foscolo”, passim


Immagine tratta dal sito https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/621778-nasceva-ugo-foscolo-16281/?amp