L'editoriale di ottobre MMXXI.
Ripartiamo. Dopo una pausa editoriale più lunga del previsto, torniamo a pubblicare on line la nostra rivista mensile, sempre al servizio della Patria. Parallelamente, riprendiamo anche gli eventi che caratterizzano, con successo, il nostro circolo: in particolare, l'appuntamento con le "Rubriche del Re" del nostro Andrea Carnino. Ci sono poi tanti altri progetti ambiziosi che vorremmo realizzare, soprattutto vorremmo tornare ad organizzare eventi in presenza, giacché crediamo che nessun fenomeno "internettiano", per quanto efficace e ben fatto esso sia, possa sostituire la preziosa fisicità della dimensione sociale umana, ovvero gli eventi in "carne ed ossa".
Ripartiamo anche con il secondo ciclo di eventi danteschi "Terra e Cielo". Ovviamente, nell'anno dantesco, non possiamo non tornare a parlare del Sommo Poeta.
Dante è universalmente riconosciuto come “Padre” della Lingua italiana. Ma, più in generale, è Padre d’Italia. E proprio “Dante, nostro padre. Il pensatore visionario che fondò l’Italia” si intitola il lavoro di Marcello Veneziani pubblicato da Vallecchi, concepito come antologia del pensiero, della poetica e della visione del mondo del Sommo Poeta. In particolare, nel capitolo di questo saggio dedicato alla nascita della lingua italiana, l’autore si sofferma in modo magistrale sul tema fortemente identitario della speculazione linguistica dantesca: “Non è solo un trattato di filologia, il De vulgari eloquentia che Dante scrisse dall’esilio tra il 1303 e il 1305, lasciandolo incompiuto. E’ invece un atto d’amore nei confronti dell’Italia e della madrelingua, e insieme il tentativo di tessere l’unità della nazione tramite la lingua, viaggiando tra le sue differenze…”.
E’ così che si delinea la fisionomia storico-geografica ed affettivo-culturale del nostro parlare. La nostra è una delle “lingue romanze”, o “neo-latine” perché derivate dal Latino (con cui anche lingua ladina condivide alcuni tratti). Le sue origini risalgono alle esperienze della “Scuola siciliana”, una corrente filosofico-letteraria nata alla Corte di Federico II con vari esponenti come Giacomo da Lentini e Cielo d’Alcamo. L’esperienza di questo Movimento “ghibellino”, insieme alla produzione poetica religiosa di San Francesco (il cui “Cantico delle Creature” è considerato il testo poetico più antico della letteratura italiana), furono alla base della nascita dell’ “italiano”, ed influenzarono notevolmente la successiva produzione artistica del “dolce stil novo”, di cui Guinizelli, Cavalcanti e Dante furono i principali artefici.
Lo stesso Dante conferì alla giovane lingua una dignità nazionale componendo il summenzionato De vulgari eloquentia; in tale opera, il Sommo Poeta riflette sulla necessità di un nuovo strumento linguistico: dopo aver passato in rassegna i tre gruppi regionali in cui si divide il parlare europeo, centro-settentrionale (o germanico), orientale (o greco) e sud-occidentale (o romano), definisce quest’ultimo diviso in altre tre lingue: francese (lingua d’oil), provenzale-catalano (lingua d’oc), italiano (lingua del sì). Il volgare italiano si articola poi in quattordici dialetti maggiori, sette a destra e sette a sinistra dell’Appennino, i quali a loro volta si differenziano in se stessi: Dante ne pone in risalto il provincialismo e la disarmonia e conclude che nessuno è degno di essere ritenuto il volgare ideale. Effettivamente, è forte nel Vate l’aspirazione a combattere i pregiudizi dottrinali e campanilistici in favore della formazione e della crescita di una lingua nuova, destinata ad unire gli abitanti della penisola ed a illuminare il loro cammino.
Una tale lingua raffinata e nazionale non sarà data però dall’insieme e dall’accostamento delle voci più eleganti tratte dai diversi dialetti; per Dante essa è già sorta attraverso le liriche dei poeti colti di Sicilia e di Toscana, che l’hanno plasmata con l’ingegno e con l’arte, così come ne fanno testimonianza le canzoni di Cino da Pistoia e di Dante stesso.
Scrive Veneziani: “Dante ritiene che mancando un centro sovrano, una sede regia, a cui far riferimento, la lingua volgare resta affidata ai poeti, che sono i depositari della miglior italianità lessicale: <<Il nostro illustre volgare va pellegrino come uno straniero e trova ospitalità nelle case più umili giacché manchiamo di una reggia>>. Tocca dunque ai poeti, tramite la lingua, fondare la nazione, dar voce all’italianità. Tocca al loro ingegno sopperire alla mancanza di un principe, di un regno, di una curia”.
Così, la riflessione filologica di Dante non ha solo uno scopo letterario e dòtto, bensì anche e soprattutto politico-culturale e diventa un inno alla visione monarchica ed identitaria della nazione italiana. Il poeta, alla ricerca di un volgare “illustre, cardinale, regale e curiale” che “è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna”, sostiene: “… se noi Italiani avessimo una reggia, esso [il volgare italiano, nda] prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve necessariamente abitare nella reggia a praticarla, e non vi è altra dimora degna di un così nobile inquilino…”. E continua: “se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata – come quella del re di Germania – tuttavia, non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, così le membra di questa sono state unite dalla luce della grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli Italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa”.
Per dirla con Veneziani, il Dante del De vulgari eloquentia sottolinea “il nesso vitale e spirituale tra patria e lingua”.
Ma aggiungiamo noi che, sulla scorta di quanto asserito da Dante stesso, solo una prospettiva monarchica rende solida la patria, concretizzando quel legame che, tramite la lingua, stringe in un comune destino tutte “le genti del bel paese là dove ‘l sì suona”.
Giovanni FLAMMA