Abbiamo un dovere morale, al quale nessun vero italiano può sottrarsi: ricordare la tragedia delle Foibe e dell'Esodo delle genti istriane-fiumane e dalmate, come "segno di un doveroso atto di rispetto e di umana solidarietà". Vogliamo fare tutto ciò pubblicando la lettura magistrale tenuta dal Cavalier Giovanni Ruzzier, all'Istituto Tecnico Aeronautico di Forlì il 4 giugno 2019.
Sono Giovanni Ruzzier, nato a Pirano in Provincia di Pola il 28 novembre 1934, sono esule istriano, profugo italiano in Patria con tanto di certificato prefettizio, già Comandante la Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Rimini nella quale Città ho stabilito la mia residenza dopo il congedo.
Mi preme ringraziare il Preside, i vostri insegnanti e tutti voi per avermi proposto alla vostra benevola attenzione, mentre rivolgo il mio più vivo ringraziamento per aver voluto ricordare con la mia presenza la tragedia delle Foibe e dell’esodo delle genti istriane-fiumane e dalmate, segno di un doveroso atto di rispetto e di umana solidarietà.
Ha detto Orwell: “Libertà è il diritto di dire alla gente quello che non vuole ascoltare”. Partiamo da questo pensiero.
L’Istria era parte integrante della Venezia Giulia, regione così chiamata nel 1863 dal goriziano Graziadio Isaia Ascoli per rimarcare il carattere fondante: prima romano e poi veneziano.
E’ la patria dell’autore del primo, in assoluto, messaggio risorgimentale, frutto del pensiero e della penna di Gian Rinaldo Carli di Capodistria, il quale nel 1765 sulla rivista milanese “Il Caffè” rivolgendosi ai suoi, connazionali, ancora tutti sotto il giogo straniero, scriveva: "divenghiamo finalmente italiani per non cessar d’essere uomini".
Gli slavi vi giunsero intorno al IX secolo. Furono sempre minoranza e si stanziarono nelle campagne e nelle periferie delle città.
La regione è stata sempre italiana per lingua, cultura, tradizioni, usi e costumi, anche se amministrativamente è stata unita al nostro Stato soltanto al termine della I Guerra Mondiale, per noi IV Guerra di Indipendenza.
Si pensi che fra i volontari dei primi moti risorgimentali a Nola, nel 1821, troviamo il grande poeta, Pasquale Besenghi degli Ughi, nativo di Isola d’Istria. Si osservi che nel 1848, all’epoca della sfortunata I Guerra di Indipendenza, 4 dei 5 deputati eletti per il Parlamento di Vienna sono italiani: Antonio Madonizza di Capodistria, Carlo de Franceschi di Pisino, Michele Facchinetti di Visinada e Francesco Vidulich di Lussimpiccolo.
Nel 1861, quando nasceva il Regno d’Italia, la Dieta Provinciale Istriana, riunita a Parenzo, dovendo designare una delegazione da inviare al Parlamento di Vienna, rispondeva “Nessuno”, cioè rifiutava qualsiasi connubio politico, tanto da venir ricordata come “la Dieta del nessuno”.
Mi è caro ricordare che il 21 ottobre 1894 il popolo di Pirano, mia città natale, impediva con una animata e fitta sassaiola che venisse apposta sulla porta del Tribunale una tabella bilingue italo-slava decretata dal Governo austriaco, con conseguenti arresti culminati in pesanti condanne, ma la targa bilingue non fu mai messa in opera.
Alla vigilia della I Guerra Mondiale, nel 1914, nonostante decenni di politica austriaca tesa in tutti i modi, complice il clero sloveno e croato, a favorire l’insediamento slavo in funzione anti italiana, la maggioranza dei comuni istriani (37 su 50)erano amministrati da italiani.
E’ in questa epoca che il napoletano Matteo Renato Imbriani, deputato al Parlamento di Roma, conia il termine “Irredentismo”, per indicare quel movimento che mirava a riunire allo Stato unitario i territori ancora soggetti all’Austria dopo la 3^ Guerra di Indipendenza.
“2107 furono gli “irredenti” accorsi nelle fila dell’Esercito e della Marina del Regno d’Italia, dando prova di amor patrio e di eroismo, consapevoli che, in caso di cattura, li aspettava il capestro.
Come non ricordare il sacrificio di Nazario Sauro da Capodistria , di Fabio Filzi da Pisino e del trentino Cesare Battisti e, permettetemi di ricordare i miei concittadini ai quali nella piazza principale di Pirano, ora in Slovenia, è dedicata una lapide ancora esistente sul posto, unica testimonianza rimasta intatta dalla feroce repressione e dalla pulizia etnica del Maresciallo Tito. Da cinque anni, su mia iniziativa, il 4 novembre il Console Generale d’Italia a Capodistria va a deporre una corona di fiori e lo scorso anno, per la prima volta, il Sindaco del Comune di Pirano, a sua volta, ha deposto una corona con i colori nazionali sloveni, una nobile iniziativa che indica nella cerimonia il rispetto dovuto ai Caduti di tutte le guerre, indipendentemente dalla loro nazionalità. 302 furono i Caduti “irredentisti” sul campo e 12 furono insigniti della massima ricompensa al Valor Militare.
Il 4 novembre 1918 vide il coronamento del sogno di tanti poeti, pensatori e politici: da Dante a Carducci, a Verdi, Mazzini, Garibaldi, Camillo Benso conte di Cavour a Vittorio Emanuele II Padre della Patria. Il Tricolore sabaudo garriva al vento delle nostre contrade.
E venne il Fascismo. Molti sloveni e croati aderirono spontaneamente al Partito Nazionale Fascista, ricoprendo anche cariche pubbliche, dimenticandosene al momento opportuno. Il Fascismo creò certamente malumori specie quando decise di “italianizzare” i cognomi sloveni e croati, di proibire l’uso della loro lingua nelle scuole, nelle chiese, errore questo che fu un boomerang, perché andava ad inficiare la cultura e la identità di abitanti di etnia slovena e croata, ma si badi bene, cittadini onesti ed operosi del Regno d’Italia.
Poi la II Guerra Mondiale e si arriva al mai troppo vituperato 8 settembre 1943 e con esso il mai troppo deprecato arrivo delle orde slavo-comuniste di Tito cui seguì un ignobile, iniquo Trattato di Pace, firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi da noi chiamato ”diktat”. In quella circostanza le 21 Nazioni firmatarie, fra cui l’Italia, stabilirono che fra l’Italia e la Jugoslavia avrebbe dovuto nascere uno stato cuscinetto denominato Territorio Libero di Trieste, il cui Governatore avrebbe dovuto essere indipendente cioè di uno Stato che non aveva contenziosi con i due Paesi e, stabiliva che nel caso tale TLT non trovasse una soluzione politica, l’intero territorio sarebbe ritornato a far parte dello Stato italiano. Il TLT fu diviso in due zone: la Zona A amministrata dagli anglo-americani e la Zona B amministrata dagli jugoslavi, divise da una linea di demarcazione.
La Zona A si estendeva da Duino a Lazzaretto di Muggia e comprendeva Trieste e Gorizia, quest’ultima tagliata a metà da un confine improvvisato, come fu tagliato a metà il suo cimitero, confine munito di torrette minacciose da dove i “graniciari” sparavano su chiunque cercasse di oltrepassare il confine.
La Zona B si estendeva da Capodistria a Cittanova ed all’interno comprendeva la città di Buie. Il resto dell’Istria fu inglobato nella Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia.
Il Trattato di Pace sancì la cessione alla Jugoslavia delle province di Pola, Fiume e Zara e parte di quelle di Trieste e di Gorizia.
Oggi l’Istria e quasi totalmente croata ed in minima parte slovena. Prima di parlare di quella che fu la tragedia delle Foibe e dell’esodo, ritengo doveroso precisare che prima dell’arrivo delle truppe di Tito, prima della fine della guerra – maggio 1945 – sul fronte orientale, a tutela della nostra terra e del confine della Patria, il ruolo più importante fu svolto, in funzione anticomunista dai militari del Battaglione “Fulmine” della X MAS alla Selva di Tarnova, resistenza volutamente dimenticata, che durò fino alla fine del mese di aprile 1945.
L’8 settembre 1943 gli slavo-comunisti, approfittando dello sbando generale, iniziarono la loro lugubre carneficina. Italiani, colpevoli solo di essere tali venivano prelevati notte tempo e fatti sparire. La scusante: gli italiani avevano effettuato molteplici rappresaglie contro le popolazioni slave, eppure pensate che lo “storico” Giacomo Scotti, italiano che preferì cantare le lodi a Tito, che tuttora vive in Croazia e che recentemente ha pubblicato un libro, ravvedendosi, nel quale descrive l’orrore del campo di concentramento jugoslavo dell’Isola Calva (Goli Otok)ha scritto testualmente “”” E’ innegabile che i più gravi misfatti in Jugoslavia non furono compiuti dagli italiani, ma dagli stessi jugoslavi (cetnici, ustascia, domobrani) e dai tedeschi.
L’occupazione jugoslava durò fino al 13 ottobre 1943 ed interessò tutto il territorio giuliano escluse Trieste, Pola, Fiume e Zara. Poi i tedeschi rigettarono oltre confine gli slavi e instaurarono nella regione l’Adriatishes Kunsteland, divenendo le nostre terre un “protettorato” tedesco dove vigevano le leggi del III Reich.
Una seconda e più tragica occupazione slava avviene dal 1 maggio al 15 giugno 1945 e interessa tutta la Venezia Giulia. Trieste ricorda i 40 giorni di occupazione titina i primi morti della nuova “redenzione” uccisi nel corso di una pacifica manifestazione a favore della Madre Patria.
Quello che accade successivamente rientra in una persecuzione premeditata che purtroppo non ha mai avuto fine. La Venezia Giulia vive nel terrore e le notizie sono terrificanti e corrono da una Foiba ad un’altra.
Questi i fatti che sono alla radice dell’esodo, ma consentitemi di farvi conoscere alcune note strettamente personali, cioè vissute.
La Comunità Italiana di Pirano, ora in Slovenia, nell’ottobre del 2014 mi chiese di esprimere il mio pensiero a distanza di 60 anni dal Memorandum d’Intesa di Londra che sancì il ritorno dell’Italia nella Zona A del mai nato Territorio Libero di Trieste.
Le mie considerazioni, sono state recepite e pubblicate su “Il Trillo” organo della Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana che accoglie la Comunità Italiana “Giuseppe Tartini” di Pirano.
Scrissi: “10 febbraio 1947, Parigi: governanti italiani remissivi, incapaci, codardi si presentarono dinanzi ai vincitori arrendendosi alle loro vergognose imposizioni, firmando un “diktat” chiamato Trattato di Pace, accettando che terre nobilissime per cultura, tradizioni e civiltà, italiane da secoli, come l’Istria, Fiume e Zara venissero abbandonate ad un regime dittatoriale. Era il 29 maggio 1945 quando il Segretario nazionale del Partito Comunista italiano Palmiro Togliatti esortava i triestini e gli istriani ad accogliere i partigiani di Tito come liberatori”, invitandoli ad aderire alla Repubblica Federativa Popolare di Yugoslavia come “settimo stato” confederato.
Iniziava, in spregio ad ogni affermazione di ideali, il dramma di migliaia di famiglie, la divisione in due zone di territori, città, case, strade, financo cimiteri. L’unica risposta, che ancora oggi pesa sulla inettitudine dei vari governi italiani che si sono succeduti dal maggio 1945 in poi, fu l’esodo dei 350.000 italiani che dimostrò appieno l’italianità delle nostre terre.
Esuli in Patria, accolti con diffidenza, umiliati, costretti molti a vivere per ben 10 anni nei campi profughi, eppure orgogliosi di essere italiani. A seguito del Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, l’on. Giuseppe Saragat scriveva: “E’ stato inflitto agli italiani della zona B un regime totalitario, un regime in contrasto con ogni principio del diritto” e l’On. Pietro Nenni alla Camera dei deputati dichiarava: ”consideriamo storicamente aperto il problema della nostra frontiera orientale. Frontiera che va fissata molto al di là di Capodistria”.
L’infamia ebbe la sua squallida conclusione con il famigerato Trattato di Osimo del 10 novembre 1975 che sancì definitivamente le frontiere tra Italia e Yugoslavia. A pagare il prezzo di queste assurde decisioni politiche furono gli Istriani, i Fiumani, i Dalmati costretti ad abbandonare le città dove erano nati e cresciuti, dove operavano in generosa fraternità di intenti nel rispetto di tutto e di tutti, con un grande incommensurabile amore per la propria terra, per il proprio lavoro, per la loro Fede”. Questa è stata la mia risposta a distanza di 60 anni dal 1954.
Devo aprire una dolorosa parentesi; ed è quella dell’arrivo degli esuli in Patria. Il piroscafo Toscana effettuò numerosi viaggi imbarcando da Pola, il 95% della popolazione. Ebbene questi nostri fratelli che tutto avevano lasciato alle spalle, giunti ad Ancona ed a Venezia vennero accolti dai sostenitori del PCI al grido di “fascisti, andatevene” fino ad arrivare a sputare su quelle fragili persone, uomini, donne, vecchi e bambini di ogni ceto sociale che sperava di trovare non l’impossibile, ma la comprensione e la solidarietà questo sì. E, visto che siano in Emilia-Romagna non si può non ricordare il “treno della vergogna”. Attenzione: siamo nel 1947. Era il 16 febbraio quando da Pola partirono i convogli verso Ancona dove gli esuli furono protetti dall’Esercito dai connazionali militanti di sinistra che non mostrarono alcun gesto di solidarietà. Il 17 febbraio 1947, su carri bestiame, tra la paglia all’interno dei vagoni, lasciarono Ancona in direzione Bologna e qui, dove la CRI e la Pontificia Opera di Assistenza avevano preparato un punto di ristoro giunsero verso mezzogiorno del 18 febbraio, con un viaggio durato quasi 24 ore. Dai microfoni della stazione fs di Bologna venne diramato questo avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno venne preso a sassate da giovani che sventolavano la bandiera rossa con la falce ed il martello, ci fu un lancio di ortaggi, mentre alcuni facinorosi rovesciavano il latte destinato ai bambini sulle rotaie. Il treno ripartì e raggiunse Parma dove finalmente gli esuli poterono essere rifocillati. Addirittura nel 1952, badate bene alle date, al campo profughi denominato “Silos” di Trieste, che accoglieva oltre 1000 famiglie, ci fu un principio di incendio, per fortuna prontamente domato dai Vigili del Fuoco, mentre sulla antistante piazza i “compagni” di casa nostra gridavano ”lasciateli bruciare”!
La mia personale avventura ha inizio nel giugno del 1948. Apro una parentesi, siamo in piena occupazione jugoslava, due anni prima, nel 1946, era transitata nella città di Pirano, così come nelle altre città istriane, con un codazzo di macchine, la Commissione Internazionale di Controllo delle Nazioni Unite che doveva stabilire l’italianità o meno delle nostre terre. La mia città fu preventivamente invasa da migliaia di persone trasportate con tutti i mezzi, camion, corriere, carretti trainati dai buoi, tutti inneggianti alla Yugoslavia, tutti con in mano bandiere jugoslave e slovene, lascio immaginare quale è stata la conclusione cui sarà poi giunta la detta Commissione. Gli abitanti della città chiusi in casa!
Parlavo della mia avventura. Devono sapere che tutto era proibito: niente processioni, si poteva leggere solo la stampa del regime, per una parola contro l’occupatore il carcere, addirittura era stato vietato ai nostri marittimi e pescatori che si trovavano davanti ad un bicchiere di vino di cantare le canzoni dialettali della nostra tradizione.
Era il gennaio del 1949, avevo compiuto da poco 14 anni, frequentavo la scuola media, quando alla sera agenti della Difesa Popolare e della Polizia politica UDBA vennero a casa mia e mi arrestarono, associandomi alle carceri cittadine. Lascio immaginare a voi il turbamento dei miei genitori i quali, ignari, nulla sapevano della mia vita di piccolo, incosciente congiurato.
Infatti, assieme ad altri tre compagni di classe, per ben sei mesi riuscimmo a tenere in scacco la polizia politica, lanciando nelle contrade della città, all’imbrunire, delle bandierine tricolori ricavate da strisciate di colore acquarello e tagliate con le forbici non solo, ma i miei poveri genitori non si erano nemmeno accorti che nottetempo uscivo clandestinamente da casa ed andavo ad affiggere dei piccoli manifesti bordati dal tricolore, scritti a stampatello, che attaccavo ai muri delle case con la colla di farina, farina che rubavo alla mamma.
Arrivò la resa dei conti: il carcere che, per mia fortuna durò poco ma quello che preoccupava i miei genitori era il processo che avrei dovuto subire.
Comprenderete quante preoccupazioni creai alla mia famiglia ma io ero testardo, non accettavo le ingiustizie cui eravamo soggetti e men che meno accettavo la passività degli uomini politici e di cultura che nulla facevano contro l’occupatore.
Vidi mia madre terrorizzata quando, all’ultimo momento, il 3 febbraio 1951, supportato da alcuni professori della scuola, decisi che avrei commemorato al Teatro "Tartini" il grande musicista Giuseppe Verdi nel 50° anniversario della sua morte. La serata andò bene fortunatamente ma lasciò inevitabilmente uno strascico di carattere politico. Ancora una volta avevo osato parlare di italianità. Ero adolescente ma determinato, sprezzante dei pericoli cui andavo incontro ed ai quali esponevo la mia famiglia e, grazie ad un avvertimento, prima di essere arrestato nuovamente, con la complicità di mia madre e di un taxista compiacente il 13 giugno 1951 raggiungevo la Zona A, finalmente libero di poter professare il mio diritto di essere italiano.
Ai ragazzi di altre scolaresche, ai quali in occasioni come questa mi sono rivolto, ho detto loro che li invidiavo perché erano nati e cresciuti in un mondo tutto sommato di pace, come voi che non avete avuto la sfortuna di conoscere le brutture della guerra, i mitragliamenti, i bombardamenti, il fuggi fuggi nelle campagne, non avete avuto la disavventura di vedere ammainare il Tricolore e vedere alzare la bandiera nazista con la svastica con le conseguenti deportazioni, non avete vissuto la tragedia – a guerra finita – di essere oggetti di persecuzioni, di odio, di esecuzioni sommarie, delle foibe.
Nel 1945 iniziano a funzionare i Tribunali del Popolo i cui processi farsa cominciano ad attuare la pulizia etnica, un vero e proprio sterminio di massa. Le persone venivano prelevate notte tempo dalle loro abitazioni, si badi bene che non si trattava solo di fascisti e/o collaborazionisti, questi in realtà erano una minuscola, lo ripeto, una minuscola minoranza da contare sulle dita, ma di preti, funzionari civili, donne, uomini e anche bambini, tutti con destinazione : la Foiba! e tra questi anche sloveni e croati contrari al regime comunista.
Quello che maggiormente lacerava gli animi era la condotta dei comunisti italiani locali e non. E’ opportuno ricordare che tanti “comunisti” in Italia avevano dei conti in sospeso con la Giustizia ed erano stati ammessi a far parte della Polizia Popolare, braccio armato della famigerata OZNA poi UDBA, la polizia politica.
Non va dimenticato che il Partito Comunista italiano guidato da Palmiro Togliatti ci spingeva verso il “paradiso” del comunismo inteso come stato del benessere sociale, dell’uguaglianza, mentre da Monfalcone e da altre città alcune centinaia di famiglie, dichiaratamente comuniste, lasciavano l’Italia per andare a lavorare nei cantieri navali di Fiume, andando vergognosamente ad occupare le case abbandonate dagli esuli. Questi “compagni” pagarono caro il prezzo della loro viltà finendo, dopo la rottura di Tito con il Cominform nei lager jugoslavi, molti trovando la morte, altri rientrando in Italia sono stati costretti dal PCI al silenzio, a non dire nulla di quello che avevano vissuto e subito.
Potrete ben comprendere che i “titini” non avrebbero potuto infierire sui nostri fratelli Istriani Fiumani e Dalmati senza l’ausilio dei delatori presenti sul territorio e conoscitori dello stesso e dei suoi abitanti.
Come non ricordare la tragedia di Porzus del 7 febbraio 1945, l’eccidio a tradimento di 21 partigiani della Divisione Osoppo, massacrati per mano dei partigiani comunisti italiani della Divisione Garibaldi-Natisone!
Nella lunga, interminabile lista degli infoibati sarebbe sufficiente ricordare il martirio di Norma Cossetto, giovane maestrina violentata per una notte intera dagli sgherri titini, prima di essere gettata – viva - nella foiba di Surani, cui l’Università di Padova nel 1949 conferirà la laurea “honoris causa” alla memoria, don Francesco Bonifacio ucciso in “odium fidei”, il sacerdote don Giovanni Dobolò assassinato e infoibato, il dott. Nevio Skull ucciso a Fiume con un colpo di pistola alla testa e gettato dalla finestra ed il medico Mario Blasich, immobilizzato da paralisi, strangolato nel proprio letto: la gran parte di questi misfatti avvengono a guerra finita!
Il 7 maggio 1945 l’Arcivescovo di Gorizia mons. Carlo Margotti viene espulso dalla città perché "contrario al movimento nazionale di liberazione”, mentre don Vittorio Perkan viene ucciso mentre si trova al cimitero per un funerale.
Il 21 maggio 1945, 161 uomini e donne di Pola, con le mani legate dietro la schiena con il filo di ferro, vengono caricati a Fasana sulla nave cisterna “Lina Campanella”. La nave urta una mina nel canale d’Arsa e salta in aria, i naufraghi superstiti vengono mitragliati. L’Adriatico si tinge di rosso!
Immaginatevi una lunga fila indiana. C’è chi prega, chi piange, chi con fierezza pur sapendo di andare incontro alla morte sente l’orgoglio dell’appartenenza all’Italia. La tragedia si consuma con un colpo alla nuca del primo davanti alla Foiba che trascina con se, vivi, tutti gli altri in un urlo di dolore infinito.
Dal 1 maggio al 15 giugno 1945 a Trieste a gruppi di 100, 200, 500 civili e militari furono gettati nella Foiba di Basovizza, oggi monumento nazionale.
Il 10 febbraio 1947, giorno della firma del Trattato di Pace, a Pola, l’insegnante fiorentina Maria Pasquinelli uccide a colpi di pistola il Generale britannico De Winton per protesta contro la firma del Trattato che cede la Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Il 19 luglio 1947 mons. Antonio Santin, Vescovo di Trieste e Capodistria si reca in quest’ultima città per amministrare la Cresima. Viene assalito, insultato e ferito dagli slavi ed anche da parte di una decina di comunisti italiani, uno dei quali – mio concittadino – credo sia ancora vivo nel veneziano.
Il 16 aprile 1950 hanno luogo nella Zona B le elezioni amministrative: Lista unica. Il comportamento degli jugoslavi nei confronti della popolazione è terrificante. Hanno votato tutti, anche chi vi parla, tanto è vero che la percentuale dei votanti è stata del 98,2%. Nel corso della giornata elettorale persone malate e febbricitanti sono state fatte alzare dal letto per andare a votare; ad un mio insegnante, che si rifiutava di recarsi alle urne, presero in braccio il figlio più piccolo di appena 3 anni sporgendolo fuori dalla finestra e intimando al padre di andare a votare, altrimenti…….e il mio maestro, Adriano Venturini questo era il suo nome, andò a votare.
Il 12 novembre 1951 mons. Giorgio Bruni, parroco di Capodistria viene assalito, percosso e abbandonato in mezzo alla strada credendolo morto. Soccorso e trasferito a Trieste, rimarrà per due mesi in ospedale prima di poter riprendere la vita normale.
Non occorrono colpe, non servono processi, basta una illazione e non esisti più. C’è ancora chi ricorda nei pressi di Rovigno la “corriera della morte” che trasportava le persone destinate alle Foibe.
Seppellire i morti è opera di misericordia ma, per questi morti la misericordia non c’è stata. Sono rimasti a marcire nel pantano, non hanno un fiore, né una croce, sono morti scomodi e tali sono rimasti fino all’approvazione della Legge che ha istituito il “Giorno del Ricordo”
Deportazioni, annegamenti e foibe ci costrinsero, solo perché di lingua e cultura italiana ad abbandonare tutto. La tragedia iniziata nel settembre 1943 finirà appena nel 1954. Siamo stati costretti a lasciare la terra in cui eravamo nati, dove avevamo lavorato onestamente, abbandonandola nelle mani di sloveni e croati che, a loro volta, insediarono nelle nostre case abbandonate, gente proveniente dal Montenegro, dalla Bosnia, dalla Macedonia, dalla Serbia.
Pensate, figlio unico, provengo da una famiglia semplice: mamma casalinga, papà marittimo che ha chiuso la sua carriera come 2° nostromo sul transatlantico “Leonardo da Vinci”, con l’esodo, la nostra casa venne confiscata, così come venne confiscato un pezzo di terra nel Cimitero, siamo a Pirano, dove sono sepolti i miei parenti e dove ho voluto dare degna sepoltura anche ai miei genitori, accanto ai miei nonni. Ebbene per arrivare a questo, fin dal momento dell’esodo io ho pagato, puntualmente, al Comune di Pirano, cui la confisca ha attribuito la proprietà dei miei beni, come quelli di tutti gli altri piranesi in esilio, un affitto annuale: avete capito bene, pago un affitto su una terra che era, o meglio che è, di mia proprietà e, se non lo avessi fatto, i poveri resti dei miei parenti sarebbero stati dissepolti e la tomba sarebbe stata messa in vendita ai nuovi arrivati.
Gli esuli rappresentano un popolo che fugge con tutti i mezzi, attraversando disagi inenarrabili per approdare nei campi profughi inospitali di Trieste, Udine, Venezia, Padova, Gaeta e in Sardegna, guardati con sospetto se non con aperta ostilità.
Desidero ricordare Nadia Cernecca, nata a Gimino d’Istria(Pola) aveva sette anni quando suo padre, reo soltanto di essere italiano, venne prelevato da una banda di comunisti, incarcerato, torturato, gli fu messo sulle spalle un sacco pieno di pietre, portato in collina e qui, con quelle pietre, lapidato ma non si accontentarono, gli tagliarono la testa, estrassero da quello scempio due denti d’oro e quindi con quella testa organizzarono un partita di calcio. Il boia si chiamava Ivan Motika ed a lui, l’INPS ha versato la pensione fino alla sua morte! Avete capito bene. La Repubblica italiana, siamo all’assurdo, ma questa è la verità non detta, ha dato la pensione anche ai nostri aguzzini, ai nostri carnefici.
Il Maresciallo Tito, al ministro degli esteri Kardelj ed a Milovan Gilas, suo braccio destro, che successivamente verrà defenestrato, come succede tuttora nei paesi a regime comunista, ordina di eliminare definitivamente gli italiani dalla loro terra in tutto il territorio dove le mire espansionistiche jugoslave sono decise di arrivare.
Gilas confessa testualmente: “ Nel 1946 io e Edward Kardelj andammo in Istria per organizzare la propaganda anti italiana. Si trattava di dimostrare alla autorità alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero! Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”.
I massacri non si fermano solo all’Istria, come non ricordare i 12 Carabinieri in servizio alla centrale idroelettrica di Bretto, in Friuli, catturati dai partigiani comunisti, ai quali è stata fatta bere la soda caustica, obbligati a camminare tra atroci dolori e portati alla Malga Baia dove il più giovane, un carabiniere ventenne venne evirato ed insieme a tutti gli altri denudati, appesi con un gancio al nervo del calcagno e finiti a picconate e calci. Per 50 lunghi anni nessuna Autorità ha portato un fiore sulla tomba di questi martiri.
Come non ricordare i Carabinieri e gli Agenti di Polizia arrestati a Gorizia dei quali solo pochissimi fecero ritorno alle loro case.
A Zara i fratelli Luxardo torturati e poi affogati in mare con una pietra legata al collo e mani legate dietro la schiena.
A Trieste a fine aprile 1945 quando i partigiani comunisti giunsero nella città arrestarono 150 Guardie di Finanza, carabinieri e guardie comunali. Il loro destino è stata la Foiba di Basovizza. Sul luogo, appena nel 1991, si recò per la prima volta un Presidente della Repubblica, era Francesco Cossiga.
La beffa la troviamo all’art.7 del Trattato di Pace, è il caso di ricordare che molti uomini di spicco della politica e della cultura e tra questi Benedetto Croce e Leo Valiani si erano dichiarati contrari alla firma del trattato, il quale articolo prevedeva la non perseguibilità in campo penale per chiunque avesse “lottato contro il comune invasore nazifascista” dal 1940 fino al giorno dell’entrata in vigore del trattato medesimo. Fu così che tutti i reati commessi in quel periodo e con quella giustificazione, perfino gli eccidi, vennero di fatto condonati.
Il Trattato di Pace, firmato dai rappresentanti della Repubblica italiana, non presentava grossi problemi, in quanto la Repubblica non aveva nulla da farsi perdonare. Non aveva ancora nemmeno promulgata la Costituzione,che entrerà in vigore appena nel 1948. Fu, quindi, un passo se vogliamo indolore per la politica e i politici di allora, anche se svendeva un pezzo del territorio nazionale,ma viene spontaneo affermare che se ci fosse stato ancora sul trono il Re Umberto II , mai e poi mai quel trattato sarebbe stato sottoscritto.
A noi Istriani, Fiumani e Dalmati fu negato tutto, anche l’autodeterminazione. Oggi, a causa del “Diktat” del 10 febbraio 1947 e del Trattato di Osimo i pochi rimasti sono, non solo separati dalla Patria, ma si trovano a vivere nella condizione di minoranza.
Il primo ministro britannico Churchill affermava: “ Non approveremo nessuna modifica territoriale che non sia in accordo con il desiderio liberamente espresso dalle popolazioni interessate”.
Questo principio non fu attuato per le nostre genti. Subimmo la tragedia dell’esilio, vedemmo morire i nostri cari nelle foibe per il solo fatto di essere italiani, trucidarono barbaramente giovani donne, sacerdoti, uomini di cultura e semplici cittadini rei di non accettare l’annessione alla Jugoslavia ed al perfido regime comunista e non ci fu concesso, fatto gravissimo, nemmeno di esprimere il nostro voto in occasione del Referendum istituzionale “repubblica/monarchia”del 2 giugno 1946.
Oggi con la legge che ha istituito il “Giorno del Ricordo”, richiamiamo alla memoria collettiva chi non c’è più, rammentiamo la tragedia di un popolo disperso nelle contrade del mondo dall’Italia, alle Americhe, all’Australia, al Canada, all’Argentina, ma siamo anche determinati a non sopportare il negazionismo che alcune realtà politiche di casa nostra cercano di avallare ancora oggi.
Con il “Giorno del Ricordo” vogliamo rendere omaggio riverente a chi mai ha cessato di credere nella Patria, Patria che per troppi, lunghi anni ci è stata matrigna. Chi non ha vissuto nei campi profughi non potrà mai comprendere la disperazione di un popolo che ha lasciato ogni avere per poter continuare a dichiararsi figlio di Roma. L’esodo dei 350.000 è l’esempio di un popolo che rifiuta le barbarie, il terrore, la violenza, l’esodo è un inno alla Patria che noi Istriani, Fiumani e Dalmati abbiamo sempre nei nostri cuori.
Non basta celebrare il “Giorno del Ricordo”, fingere di ricordare, per risvegliare la nostra memoria atrofizzata. Non è sufficiente, anche se tutto si svolge in pompa magna per tranquillizzare talune coscienze e per assolvere tanti, tanti personaggi per tutte le omissioni che per viltà, opportunismo politico e paura, per troppi decenni ci hanno costretto al roboante muro del silenzio. E’ necessario portare questo tragico momento della nostra storia nazionale alla conoscenza nelle scuole, nelle officine, sulla strada per far conoscere, specie alle nuove generazioni, quanto di brutale è stato commesso e per dare a loro la possibilità di essere i veri protagonisti della nostra storia di domani, senza ideologismi, senza falsa retorica, nel rispetto della Verità.
Prima di concludere desidero ricordare il pensiero di un grande patriota il Gen. Riccardo Basile di Trieste, che scrisse: “”Perché ne parliamo: per rinfocolare odi? No! L’odio è una forza distruttiva. E’ l’amore che costruisce. Per promuovere azioni di rivincita? No! Troppo sangue è stato sparso: Redipuglia, Basovizza, Porzus, Vergarolla …… sono lì a ricordarcelo. E allora? Per onorare la memoria di chi si è immolato col nome d’Italia sulle labbra o ha tanto sofferto per puro amore per la nostra Patria””
Nessuno muore sulla terra finchè vive nel cuore di chi resta.
Grazie per la benevolenza con cui avete avuto la pazienza di ascoltarmi.
Forlì, 4 giugno 2019
Giovannni RUZZIER
Foto di copertina da https://www.lavocedelmarinaio.com/2019/02/10-febbraio-foibe-noi-non-dimentichiamo/