Contemplando la figura di una persona morta a causa della guerra è opportuno applicare il modo di porsi suggerito da Cesare Pavese nella sua opera La casa in collina: ”Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione”. Studiare la figura della Principessa Mafalda di Savoia significa, in fondo, ascoltare la sua voce graziosa che ci chiede di essere ricordata come “sorella italiana” e come madre e moglie sofferente.
Mafalda, nata il 19 novembre 1902, sposa il Principe tedesco Filippo D’Assia nel 1925 e dalla loro unione nascono quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta. Al contrario di ciò che si legge in alcune biografie, la Principessa non è per nulla malinconica o ingenua, bensì è briosa, allegra, amante della musica e piena di vita; la contraddistinguono una profonda Fede cristiana cattolica ed un grande senso di Carità. Un racconto del marito è esemplare in questo senso, egli recandosi a fare acquisti in un sobborgo malfamato di Kassel, scopre con grande sorpresa la moglie che esce da una casa, lei le spiega che qualche tempo prima aveva assistito all’investimento di una vecchia signora povera che abitava lì,dopo che era stata soccorsa, lei si informò ed andò ad aiutarla all’ospedale e a casa durante la convalescenza. La famiglia risiede in Kassel da quando Filippo è stato nominato Oberprasident (1933). Mafalda non condivide la politica nazista e non si fa problemi a dichiararlo, ma da buona Principessa non si sbilancia rimanendo super partes e non crea opposizione. Tuttavia i nazisti nutrono molti sospetti su di lei e la fanno pedinare durante i suoi spostamenti.
Il suo dramma inizia il 28 agosto 1943, quando muore re Boris III di Bulgaria,marito della sorella Giovanna, Mafalda si mette subito in viaggio verso Sofia dove il 5 settembre vengono celebrate le esequie del sovrano. Sul decesso gravitano ipotesi di avvelenamento il cui mandante sarebbe Hitler al quale Boris aveva annunciato di voler dichiarare l’armistizio con gli Alleati insieme a Vittorio Emanuele III. Il giorno 7 la Principessa riparte ma viene sorpresa in Ungheria dalla notizia dell’Armistizio anticipato al giorno 8, qui,dopo aver comunicato con la Patria, rientra a Pescara su un aereo. La situazione è incerta e in continua evoluzione: i Tedeschi iniziano ad attaccare i nostri soldati che sono totalmente disorientati, mentre si attende un’avanzata alleata da Sud. La famiglia reale ed il governo si rifugiano a Brindisi,libera da truppe tedesche, per evitare che il potere statale italiano venga soppresso nella violenza, ma prima mettono al sicuro in Vaticano (nell’appartamento del cardinal Montini) i tre figli più piccoli di Mafalda (il maggiore,Maurizio, è arruolato nelle batterie contraeree in Germania). La Principessa vuole raggiungere i figli nonostante i pericoli del viaggio e il 21 settembre giunge a Roma. Subito va in Vaticano ad abbracciare i propri pargoli. Tuttavia, i nazisti sono decisi a vendicarsi del tradimento compiuto da casa Savoia e,non avendo trovato nella capitale nessun suo membro fuori che Mafalda, stabiliscono di sfogarsi su di lei. Viene ordito il “Piano Abeba” al cui capo è posto Herbert Kappler, spietato capo delle SS di Roma. Nella sera stessa del 21, l’ambasciata germanica telefona a Villa Polissena, residenza di Mafalda, convocandola per il giorno seguente alle ore 11 per ricevere una telefonata dal marito Filippo. Lei si presenta all’appuntamento e scatta la trappola: davanti all’ambasciata viene arrestata e caricata su un’auto che la conduce all’aeroporto dove un aereo la attende. Atterra a Berlino e viene detenuta in una caserma SS sul Piccolo Wansee, poi dal 18 ottobre 1943 viene internata nel campo di Buchenwald. Dopo essere stata arrestata con l’inganno, viene privata del suo nome e registrata nel lager come “Frau Von Weber”. Viene assegnata alla baracca 15, tra gli internati “speciali”,ossia politici, in compagnia dei coniugi socialisti Breitscheid e della signora Ruhnau. La vita della Principessa diventa triste e monotona, ella è afflitta principalmente dal distacco dalla famiglia di cui non avrà mai più notizie certe. Mafalda, infatti, è prima di tutto una madre che soffre. Anche il marito è stato arrestato ed internato in un altro lager, mentre i figli,dopo il suo arresto, sono stati condotti nel castello d’Assia in Germania dai nonni.
La prigionia è alienante, disumanizzante, Mafalda può comunicare solo con i compagni di baracca seppure abbia incontri sporadici con ecclesiastici e prigionieri italiani. Tuttavia, in un contesto così crudele, la Principessa di Savoia resta umana, è un fiore nel lager, mantiene il proprio senso di carità elargendo doni in denaro e in viveri agli Italiani internati.
Il 24 agosto 1944 gli Alleati bombardarono la fabbrica adiacente al lager di Buchenwald, Mafalda rimane gravemente ferita ad un braccio che le deve essere amputato. Il medico nazista del campo. Dott. Schiedlausky, posticipa l’operazione di quattro giorni. Il 28 Schiedlausky le amputa il braccio con tecnica clinicamente perfetta, ma che richiede il versamento di molto sangue. Dopo l’operazione,Mafalda viene abbandonata a se stessa e muore dissanguata nella notte.
L’inchiesta svolta dopo la liberazione del campo rivelerà il sospetto che la sua morte sia stata voluta dai nazisti,ritardando e rendendo mortale l’intervento. Il corpo della madre infelice viene spogliato e accatastato tra gli altri per essere cremato. Un religioso cecoslovacco, padre Tyl, riconosce i resti della Principessa e richiede di comporli in una bara lignea. Il cadavere viene tumulato tra le SS nel cimitero di Weimar, l’epigrafe recita “262 eine unbekannte Frau”, una donna sconosciuta. La tomba verrà abbellita da sette marinai italiani. Ora la salma riposa nella tomba degli Assia a Kronberg Im Taunus.
Il suo ultimo messaggio all’Italia, affidato a due fratelli italiani internati, è stato:”Italiani,io muoio. Ricordatemi non come una principessa, ma come una vostra sorella italiana”.
Mafalda diviene metafora della Patria prigioniera dei Tedeschi e devastata dai bombardamenti Alleati, nonché simbolo di tutte le madri morte in guerra a cui furono strappati i figli.
Assistiamo,dunque, all’ennesimo delitto commesso da un totalitarismo in nome di una vaga “ideologia del progresso”. Le ghigliottine rivoluzionarie francesi non sono lontane dai lager nazisti e comunisti e neppure dai tanti crimini ancora oggi commessi (per quanto si predichi la pace). Dopo aver eliminato Dio e la religione, ormai si passa alla demolizione di ogni moralità in nome di “uguaglianza e libertà”. Fatti come quello appena narrato debbono farci riflettere e farci reagire a questo Male sempre più in avanzata.
Paolo RICCIARDI