Nel corrente anno, Settimo Centenario della morte di Dante Alighieri, desidero anche ricordare Padre Luigi Pietrobono, insigne dantista, amico del Pascoli, ma soprattutto sacerdote dell’Ordine dei Chierici Regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, gli Scolopi, deceduto a Roma il 27 febbraio 1960.
Luigi Pietrobono nacque in Alatri il 26 dicembre 1863, figlio di Francesco, valente artigiano che in gioventù aveva preso parte alla difesa della Repubblica Romana, e di Filippa Merluzzi, tipica donna ciociara, buona, affettuosa e timorata di Dio.
Entrando a far parte dell’ordine degli Scolopi, si indirizzò immediatamente verso il calasanziano ideale di sacerdote e di educatore, maturandolo con sempre più consapevole coscienza vocazionale passando dal collegio all’università e alla scuola.
Si laurea in lettere nel 1887, in filosofia nel 1889, e, nel Nobile Collegio Nazareno di Roma, è docente già dal 1887 al 1905, quindi preside e docente, una prima volta dal 1905 al 1906 ed una seconda volta dal 1906 al 1936, infine anche Rettore, dal 1906 al 1910 e dal 1915 al 1918.
Padre Luigi non sarà un cattivo sacerdote; certo non profumerà di ascetismo ma si metterà al servizio della Chiesa e diverrà un coraggioso combattente della Fede in tempo di acceso anticlericalismo massonico.
Amava ripetere: «[…] sono un cattolico, ma liberale: e questa è la mia colpa, che in certe sfere non trova perdono; il guaio è che non ne sono pentito.».
La carriera che il Nostro iniziò giovanissimo nel Collegio Nazareno non fu assolutamente la conseguenza di promozioni all’interno dell’Ordine in quanto Scolopio, bensì fu dovuta al riconoscimento delle sue capacità, della sua intelligenza, della sua non comune cultura.
Al Nazareno il Pietrobono dedicò i suoi anni migliori e l’unica sua ambizione fu di vedere l’Istituto fiorire in maniera corrispondente alla sua secolare tradizione.
Non sempre, però, codesto suo desiderio poté essere soddisfatto, in quanto conflitti di competenza, ostracismi e soprattutto invidie tra confratelli, interventi dell’autorità ecclesiastica e ritiro di religiosi dal Collegio, costrinsero il Nostro a lasciare il Nazareno per accettare il rettorato del Collegio “Conti Gentili” di Alatri, per poi tornare a Roma (gli Scolopi tennero codesto collegio dal 1729 al 1971).
Hanno inizio qui i suoi studi su Dante, che egli porterà avanti lungo sessanta anni di attività, ossia per tutta una vita, e che risalgono già al tempo della sua tesi di laurea su “La teoria dell’amore in Dante Alighieri”, immediatamente pubblicata (1888) sulla rivista “La filosofia nelle scuole italiane”, fondata dal filosofo ed uomo politico Terenzio Mamiani della Rovere (1799-1885).
L’indagine di Pietrobono viene sostenuta, più che da altre tesi, dalle suggestive letture di Giovanni Pascoli (1855-1912) (ex alunno degli Scolopi nel Collegio di Urbino) e dal vasto riesame dell’opera di Dante che queste avevano avviato, mostrando che il poema doveva essere inteso come il dramma della redenzione umana, cosicché solo comprendendone tutto il profondo ed unitario pensiero che lo sostanzia se ne poteva attingere l’arte.
Pietrobono, superando i residui limiti estetici del Pascoli e ponendosi in alternativa polemica sia con le indagini sul lirismo di Dante portate avanti dall’estetica, sia con quelle, altrettanto disgregatrici dell’unità morale dell’opera, perseguite dalla critica positivista, costruisce sul vaglio dell’intera opera di Dante un’organica visione strutturale del poema.
La “Commedia” è propriamente per il Pietrobono la profezia del Veltro: messaggero di speranza al mondo traviato e disorientato.
Egli infatti interpretò l’unica profezia “ante eventum” della Divina Commedia quasi che il Veltro fosse Gesù.
Il Veltro è necessario perché gli uomini medesimi possano essere felici; essi dalla cosiddetta “Donazione di Costantino” non hanno più potuto godere non solo della pace dello spirito, ma neppure di quella terrena.
La colpa di Costantino [Flavio Valerio Aurelio Claudio (285 ca.-337)] è pari a quella di Adamo. Dante diviene così l’annunciatore di un disegno divino, e la Commedia il poema del dramma umano, meditato nella sua genesi, osservato nel suo storico processo, orientato nella sua finalità di riscatto e di redenzione.
Al riguardo di Costantino mi piace ricordare che il letterato umanista Lorenzo Valla (1405 o 1407-1457) dimostrò (1440) la falsità del documento della cosiddetta “Donazione di Costantino”, il quale fu spesso utilizzato per giustificare la nascita del potere temporale dei Papi. Esso è un documento apocrifo dei secoli VIII e IX in cui si narra la conversione dell’Imperatore Costantino e come questi, per gratitudine verso il Papa San Silvestro I (314-335), avrebbe concesso al pontefice il potere temporale su Roma e l’Italia ed il primato sulle altre chiese.
Luigi Pietrobono si qualifica, in tal modo, come “il migliore e più avveduto seguace del Pascoli” [Michele Barbi (1867-1941)] anche se, così critico ed in totale indipendenza dal Pascoli medesimo, si distacca nella concretizzazione analitica di un’identica linea di interpretazione esegetica.
Tale era appunto una definizione del Barbi. Invero il pascolismo del Pietrobono si riduce alla convergenza più che d’idee, di principî base (come la ricerca di simmetrie, l’affermazione di una architettura unitaria della “Commedia” e della simbologia del Canto I dell’Inferno, la limitata applicazione delle tre disposizioni aristoteliche, il riconoscimento della funzione parallela della Chiesa e dell’Impero alla fine della redenzione). Per tutto codesto il Nostro è un critico del tutto indipendente, ed offre soluzioni lontane dalle pascoliane, come la grande idea che la “Commedia” non rappresenta affatto l’abbandono della vita attiva per quella contemplativa.
Ed ora un inciso, che poi potrebbe essere una curiosità. Padre Luigi Pietrobono, in codesta interpretazione esegetica del capolavoro dantesco fece anche sua la “lectura Dantis”, analizzata essenzialmente dal punto di vista astronomico, ma anche poetico, del suo confratello fiorentino Giovanni Antonelli (1818-1872), fisico, astronomo, ingegnere, creatore di strade ferrate, che ho ampiamente ricordato su questa rivista nel mese di gennaio.
L’Alighieri, infatti, esercitava un grande fascino sull’Antonelli e questi ne intrecciava lo studio con quello del cielo.
Nel corso del 1865, sesto centenario della nascita del Sommo Poeta, venne dato alle stampe uno studio al quale collaborò, e con successo, anche Giovanni Antonelli. Egli pubblicò un’attenta e scrupolosa interpretazione sulla “vexata quaestio” delle prime terzine del Canto IX del Purgatorio, e precisamente: «La concubina di Titone antico/già s’imbiancava al balco d’oriente,/fuor delle braccia del suo dolce amico; […]».
Molte furono le interpretazioni di codesti versi. Padre Antonelli dimostrò che Dante, proponendosi di indicare l’ora nella quale fu preso dal sonno al termine della prima giornata in Purgatorio, intese descrivere l’alba che precede il sorgere della Luna e non l’aurora solare, come molti volevano. E queste interpretazioni antonelliane [anche perché preferì darne altre come quella che Titone è Titano, Titan, quindi il Sole; la sua concubina è Teti, (“Tηθύς”, nella lingua greca, moglie di Oceano, l’onda marina...)] furono appunto riprese dal Nostro nel suo commento alla Divina Commedia, ma anche da Niccolò Tommaseo (1802-1874) e da un altro famoso dantista, lo svizzero Giovanni Andrea Scartazzini (1837-1901).
Con il Pascoli, che Luigi Pietrobono aveva conosciuto al Collegio Nazareno nel 1897 quale Commissario Governativo per gli esami di Licenza Ginnasiale e Liceale, scambia costantemente i risultati della propria indagine ed alla sua poesia, per l’affettuosa amicizia che lo lega all’uomo, dedica una vigile attenzione critica, seguendola, sollecitandola, ed a volte, oltre che sostenendola, con passione nonché coraggio difendendola.
E’ del 1907, infatti la lettera aperta di Padre Luigi al filosofo Benedetto Croce (1866-1952) “Sulla poesia di Giovanni Pascoli” pubblicata da “Il giornale d’Italia”, in cui, dissentendo apertamente con il riduttivo giudizio espresso da questi sul poeta romagnolo, illumina i caratteri specifici di questa nuova poesia, ricevendo dal Croce, pur nel fondamentale dissenso critico, uno spassionato elogio quale «colto e fine ingegno, guida ben informata, esperta e affettuosa».
Esce, nel 1918, presso l’editore Zanichelli in Bologna, un’antologia commentata di cinquantasei poesie di Pascoli che, successivamente accresciuta e riveduta, resta tutt’oggi un riferimento d’obbligo.
Nella poesia di Pascoli Pietrobono sa cogliere, attraverso la sottile elegia del sentimento del mondo, l’angoscia dell’uomo moderno volto umilmente alla conoscenza del mistero che è dietro le cose, per riconquistare, ed in questa ricerca è la tensione che accomuna i due uomini, il trascendente significato dell’esistenza.
Il costante fervore intellettuale orienta lo Scolopio intanto verso un fedele rapporto con la romana Accademia dell’Arcadia di cui, con il nome pastorale di Edelio Echeo, lo troviamo già socio nel 1894.
Nel 1924 fa parte di una ristretta commissione per la riforma dell’Arcadia e, partecipando da quel momento al governo dell’Accademia, ne rafforza l’impegno reinserendola, anche con la propria attività, nella viva dialettica della cultura italiana.
Dal 1926 vi inizia i suoi corsi sulla Divina Commedia, su Pascoli, Leopardi e Manzoni fino a che, nel 1940, nominato dal Ministero dell’Educazione nazionale, ne diviene Custode generale.
Gli anni della sua custodia, durata fino al 1953, anno in cui, ormai stanco (aveva raggiunto i novant’anni), rassegna le proprie dimissioni, sono fervidi di lavoro ed egli vi profonde tutte le sue energie di uomo di cultura e di educatore.
E’ quest’ultima soprattutto, «avendo trascorsa la maggior e miglior parte della vita nella scuola», la missione più intensamente avvertita da Luigi Pietrobono in tutta la sua vita e che egli sostiene, fino alla fine, con lucida fede e mirabile saggezza.
In essa sa cogliere i valori stessi dell’insegnamento evangelico e con il Vangelo medita sul significato ultimo della storia umana esponendo il messaggio, sempre nuovo perché eterno, che si trova racchiuso in quelle pagine, vagliate nell’intimo della coscienza e avvalorato da una risentita intelligenza: «quel che preme si è di entrare nello spirito di Gesù e farlo vivere nelle nostre azioni perché nessuno ha letto più addentro di Lui nei cuori umani e ne ha interpretati i bisogni».
E’ del 1925 “La morale del Vangelo”, del 1943 “Dolore e Amore”, del 1949 “Col nostro maestro Gesù”: è l’autentica parola (precisamente: “verbo”) della carità e della libertà che si coglie in queste pagine, ideali sempre perseguiti dalla sua indomita coscienza di cristiano e nei quali può essere sintetizzato il significato stesso della sua vita e della sua attività: «quel che duole maggiormente si è che i popoli cristiani non abbiano ancora acquistato chiara coscienza della inviolabilità della persona umana e si lascino miseramente tiranneggiare: ignorano che al mondo non vi sono né re, né imperatori, né presidenti, né ministri che abbiano diritto di far violenza ad uno spirito immortale».
Contemporaneamente all’Arcadia ed agli impegni scolastici, padre Luigi era presente (e sin dal 1918) anche alla cosiddetta “Fondazione Besso” del Largo Argentina in Roma [eretta a nome di Marco Besso (1843-1920), il finaziere e filantropo triestino di già presidente delle Assicurazioni Generali] in cui il suo lavoro non consisteva soltanto nel tenere lezioni su Dante e le di lui opere, ma anche nel consigliare e suggerire al Besso medesimo iniziative culturali ed a preparare programmi.
Le lezioni del Pietrobono iniziarono nel gennaio 1923 per concludersi nel giugno 1949. Nel 1936, padre Luigi Pietrobono lascia la presidenza e l’insegnamento, e due anni dopo il Nazareno. Non fu un auspicato arrivederci, e neppure un voluto addio, ma un sofferto e non desiderato abbandono. Dal Nazareno il suo preside uscì in silenzio, non volle assumere posizioni ridicole o esprimere oltraggiosi pronunciamenti.
Padre Luigi si limitò a scrivere una lettera al presidente della Commissione Amministratrice della Scuola per lamentarsi che «[…] nessuno sia venuto a stringermi la mano o a dirmi arrivederci, ad eccezione dei bidelli che mi guardavano muti con gli occhi pieni di lacrime».
Si ritirò a vivere nella casa della sorella alla via Flaminia in Roma.
Al Nazareno tornò altre volte, in particolare quando il 30 maggio 1939 fu scoperta una lapide dedicata alla prima Regina d’Italia Margherita di Savoia (1851-1926). La lapide venne posta sulla parete di fondo dell’Aula Magna, la quale prese poi il nome della Regina in ricordo dell’augusto contributo ottenuto dal Pietrobono per organizzare le prime “lecturae Dantis” a Roma.
Certamente la scuola fu per Padre Luigi una scelta di vita, speranza e rifugio nei momenti difficili, quando la realtà esterna lo tediava con le sue brutture e con le sue cattiverie; la scuola fu la vocazione e la missione di un’intera esistenza.
Una sua lapidaria frase riassume quale posto avesse occupato l’attività nella quale aveva profuso la bontà del di lui cuore e quella immensa lucidità dell’intelligenza: «[…] cinquantadue anni d’insegnamento senza interruzione è l’opera di cui mi compiaccio sopra ogni cosa. La scuola mi ha confortato e consolato. Se tornassi a vivere, comincerei da capo.».
Il Re Umberto II (1904-1983), tramite il suo Ministro Falcone Lucifero (1898-1997) faceva pervenire il 29 dicembre 1958 i «fervidi auguri per il novantacinquesimo compleanno» dello Scolopio, che così rispose: «Eccellenza, nella mia tarda età, con la vita modesta che meno, quasi sempre raccolto nella solitudine del mio studio, chi avrebbe potuto mai immaginare che avrei ricevuto un attestato di così preziosa benevolenza di Sua Maestà il Re? [....] Non Le so dire di quali e quanti sentimenti mi sia sentito invadere il cuore e quali parole di ammirazione e ringraziamento mi abbia messo sulle labbra.».
Sicuramente una risposta, come sempre, toccante e ricca di umiltà.
Il Pietrobono, ormai stanco, scrisse, già con mano tremolante, la seguente lirica:
“Cantare di su il vecchio campanile/Ho udito il solitario. Primavera/Non più, caro augellin, non più l’aprile/Ride nei campi. Scesa è già la sera/Dell’anno e della vita. Qual gentile/Vision ti tenta a salutar quel ch’era?/Ingiallano le foglie, e una sottile/Nebbia autunnal vela del sol la spera./E poco accadrà che tutti scheletriti/Saranno i rami, scenderà la neve/E freddo sopra noi starà l’inverno./Anche tu, vecchio cor, cantare hai uditi/Gli antichi spirti in voce arguta e lieve/Illusione, preludio a un sogno lieve.”
E’ senza dubbio la visione di un’esistenza che si avvia a concludersi, di un fuoco che si sta lentamente spegnendo. Anche il padre Luigi, come il Leopardi, avrà sentito cantare il “caro augellin” della torre campanaria e la primavera esultare nei campi verdi della sua Alatri.
E’ scesa, però la sera: non quella dell’anno, ma quella della vita. La natura tutta partecipe a codesto lento tramonto con le foglie ingiallite degli alberi e la nebbiolina leggera che vela la “spera del sole”. Tutto annunzia che presto cadrà la neve e l’inverno si poserà sulle vite stanche degli uomini.
Certamente il Pietrobono nel rileggersi avrà benevolmente sorriso per il suo “folle volo” nei cieli della poesia e, in cuor suo, avrà detto che di Calliope è più facile essere ammiratore e critico che alunno.
Quel cuore, ormai “vecchio”, come egli medesimo ha scritto, cessa di battere, a novantasei anni e due mesi, il 27 febbraio 1960.
Gianluigi CHIASEROTTI
Bibliografia
Vannucci P. (1930), Il Collegio Nazareno MDCXXX-MCMXXX, Roma
Santelli T. (1998), Tre Scolopi illustri, Roma