L’argomento che ci proponiamo di affrontare in questo approfondimento è uno di quelli che il mondo moderno ritiene tra i più spinosi e controversi. Anzi, è talmente spinoso che il più delle volte sembra non possa neppure diventare argomento di studio: di fatto non se ne può parlare se non in chiave retorica, allorché sia il momento di diffondere attraverso i mezzi di comunicazione di massa una ciclica ondata di "sdegno antirazzista", con immancabile proclama della "scoperta che le razze non esistono". Siamo in altre parole di fronte al classico "tabù".
Tuttavia, siccome noi ci sentiamo persone libere, e dunque libere anche di affrontare qualunque argomento, cercheremo di comprendere questo concetto ritenuto dal pensiero unico dominante pericoloso e impronunciabile, per scoprire che cosa esso sia oggettivamente e se per forza debba essere pericoloso.
Purtroppo nella storia si è passati da un estremo all’altro: da una passata posizione di superbia ("la propria razza è in assoluto la migliore", ciò che di fatto sottintende il cosiddetto "razzismo") eccoci oggigiorno a una specie di disprezzo di se stessi ("la propria razza è in assoluto la peggiore", ciò che di fatto sottintende il cosiddetto "antirazzismo").
Con questo approfondimento ci proponiamo di dimostrare che per una convivenza pacifica e fruttifera tra tutti i popoli è necessario mantenere una posizione equilibrata.
Nella prima parte illustreremo in modo scientifico e pratico i concetti di razza e di classificazione dei gruppi umani, dimostrando come essi, contrariamente a ciò che vuol far credere il pensiero unico dominante, possano svolgere un ruolo positivo nei rapporti tra le genti.
Nella seconda parte ci dedicheremo ad esemplificare un sistema di classificazione sintetica delle razze umane.
Nella terza parte affronteremo i contenuti teorici e pratici dell’ideologia antirazzista così come si è manifestata negli ultimi decenni, dimostrando come questa si identifichi oggigiorno con il cosiddetto "autorazzismo", esitando contraddittoriamente nel disprezzo di ciò che in origine proclamava di voler tutelare, ossia le differenze tra i vari gruppi umani.
PRIMA PARTE
Le razze, la scienza e i criteri di classificazione dei gruppi umani
1.1 Scienza e razze, un rapporto “proibito”?
Vi sono diverse discipline fondamentali che si occupano dei gruppi umani intesi come insiemi di esseri viventi fisici e spirituali. Anzitutto si ha l’antropologia, che è definita come la “scienza che studia l’uomo come esemplare di una specie zoologica, e i suoi caratteri fisici e psichici”[1]. La scienza che si occupa invece specificamente delle razze è l’etnologia, la quale è la “scienza delle stirpi e delle immigrazioni dei popoli, comprese le origini e il diritto reciproco”; essa è meglio detta etnografia quando diventa “descrizione degli abitanti della Terra, secondo le varie schiatte nei loro caratteri fisici e morali, e nella loro distribuzione su di essa”. Se invece ci si riferisce nel dettaglio agli usi e ai costumi dei popoli si hanno l’etologia e l’etografia.
Tutte queste discipline si devono occupare in qualche modo del concetto di razza, tanto che il Topinard[2] considerava l’antropologia una “branca della storia naturale che tratta delle razze umane”. In questo non c’è nulla di pericoloso o offensivo: si dovrebbe trattare solo di studio, sapere e conoscenza. Ciò che muove a scoprire quali sono le razze umane è infatti un obiettivo fondamentalmente descrittivo, finalizzato a enunciare e catalogare le differenze che si notano osservando i vari popoli, differenze che solo chi è mosso da motivi ideologici può negare. Non si vogliono cioè fare classifiche di merito[3].
Benché dunque gli studi antropologici debbano in teoria essere alieni da coinvolgimenti più o meno politici, è sin dal XIX secolo che il concetto di razza è talmente ballerino che, a seconda del luogo e dell’ideologia dominante, viene modificato in un senso o nell’altro. Già questo fatto dovrebbe far comprendere che siamo di fronte a un continuo sfruttamento a fini ideologici di un concetto afferente alle scienze naturali. Ecco così che talora lo vediamo assumere un valore esclusivamente scientifico, biologicamente univoco e positivo, talaltra improvvisamente lo vediamo decadere e scoprirsi inesistente, privo di scientificità e negativo. Come tutti possono notare, anche solo accendendo il televisore, tra i due estremismi quello che va di moda oggi è il secondo, a tal punto che gli studi etnologici ed antropologici sono da molto tempo fortemente limitati, ostacolati e come minimo indirizzati aprioristicamente, se non addirittura vietati (basti pensare all’azione svolta in tal senso da potentissimi enti sovranazionali quali ONU ed UNESCO).
Bene, entrambe le posizioni citate sono oggettivamente forzature. Infatti, per evitare giochi semantici, occorre sgombrare il campo dall’uso equivoco che in ambedue i casi si fa sia del termine razza sia del termine scientifico. In altre parole il problema è a monte ed è di tipo strettamente epistemologico.
Definiamo dunque anzitutto che cosa si intende nella nostra lingua per razza umana: la definizione corretta è “gruppi degli abitanti del globo distinti da proprietà tipiche, corporee o spirituali”. Detto ciò, si comprende subito che affermare che le razze sono un concetto esclusivamente scientifico oppure che le razze non esistono sono ambedue sentenze errate, dettate da specifiche posizioni ideologico-politiche. Infatti appare addirittura ovvio che gli abitanti della Terra possono essere tranquillamente distinti sulla base di proprietà stabilite e appare altrettanto ovvio che i criteri utilizzati possono adottare o non adottare il metodo scientifico.
Veniamo perciò ora al significato di scientifico. Nella mentalità moderna di massa spesso questo termine diventa di fatto sinonimo di giusto e corretto: si sente spesso la frase lo dice la scienza, invero pronunciata quasi sempre da chi di scienza non conosce alcunché. Il reale significato moderno del termine è invece in relazione all’utilizzo di un metodo che permetta di trarre conclusioni sulla base dell’osservazione sperimentale, un significato perciò diverso anche dall’antico, che coincide genericamente con sapere umano.
Se in base alla definizione antica è quasi lapalissiano inserire nella scienza un qualunque discorso sulle razze, in base alla definizione moderna è d’altro canto facile dimostrare che possiamo definire la razza a nostro piacimento, sia in modo scientifico sia in modo non scientifico. Se ad esempio stabiliamo un criterio di valutazione oggettivo di un carattere geneticamente trasmissibile, come la conformazione del cranio (classicamente variabile tra dolicocefalia, mesocefalia e brachicefalia) o il grado di pigmentazione della pelle, osserviamo una serie di gruppi umani e li cataloghiamo in base al criterio stabilito, ecco che abbiamo suddiviso gli uomini che avevamo di fronte in razze scientifiche, esattamente come si fa in zoologia. Se invece non stabiliamo un criterio oggettivo, ma ci limitiamo a osservare gli stessi uomini in base al loro linguaggio, comportamento e attitudini, ma senza stabilire confini precisi, ecco che li abbiamo suddivisi in razze non scientifiche.
Ma il punto è un altro: siamo sicuri che sia la scientificità a far diventare utile, giusto e corretto il nostro concetto di razza? In altre parole che cosa si devono attendere l’antropologia e l’etnologia da questo concetto? Forse esso potrebbe essere utile per inquadrare, comprendere a fondo e apprezzare l’umanità nella sua immensa varietà? Potrebbero paradossalmente essere più interessanti aspetti non scientifici piuttosto che aspetti scientifici?
Ecco che se sgombriamo il campo dagli equivoci ideologici e iniziamo a intendere la razza come una caratteristica positiva dell’essere umano, al pari della lingua e della religione, e, come queste ultime, non obbligatoriamente limitata ad asettici aspetti scientifici, abbiamo già fatto un passo avanti. In tal modo, rigettando come inesistente e pretestuosa l’opposizione razzismo/antirazzismo, possiamo iniziare più liberamente il nostro percorso di scoperta antropologica e di apprezzamento dell’umanità nella sua amplissima diversità.
1.2 Criteri per la classificazione dei gruppi umani
Stabilito che per definire le razze abbiamo bisogno di criteri, iniziamo a scoprirli, comprendendone l’importanza nel caratterizzare i diversi gruppi umani. Naturalmente l’esiguo spazio di un articolo ci consente solo una trattazione superficiale, ma poiché trattasi di argomenti resi inaccessibili ai più, sarà comunque un’opera fruttifera. Ci avvarremo soprattutto degli studi effettuati dagli antropologi e dagli etnografi tra il XIX secolo e la seconda guerra mondiale, prima cioè che l’ideologia liberaldemocratica impedisse di fatto il naturale sviluppo dell’antropologia, con la sua valanga distruttiva intrisa di politicamente corretto, storpiature di parole, obblighi, divieti e travisamenti di concetti. Faremo riferimento in particolare a Nicola Marselli (1832-1899). Questi ebbe infatti il pregio di illustrare a fondo tutti i principali criteri di suddivisione del genere umano e di condensare le importanti intuizioni di tanti studiosi, sicché diventa un eccellente punto di partenza metodologico. E’ d’altronde evidente che debba però essere sfrondato di tutti gli inevitabili eccessi, limiti ed errori anche grossolani, dovuti ovviamente al mero fatto cronologico: nel XIX secolo non si avevano infatti le conoscenze scientifiche attuali. Inoltre, specialmente riguardo alle aree più remote dell’Africa e dell’Oceania, le notizie che si avevano allora erano sovente lacunose se non addirittura leggendarie.
I criteri fondamentali classici per descrivere le razze umane sono essenzialmente tre: il criterio anatomico-fisiologico, il criterio linguistico e il criterio geografico. A questi proponiamo di aggiungere un quarto criterio, che potremmo definire etologico, comprendente tutti gli aspetti relativi ad usi e costumi, legati altresì coi fattori precipuamente spirituali e religiosi. Come ben si vede nella nostra concezione antropologica, accogliamo indistintamente criteri scientifici e criteri non scientifici: per noi questo non è affatto un problema, perché il concetto di razza che vogliamo sviluppare dev’essere utile a conoscere ed apprezzare la copiosa varietà che si ha nell’umano consorzio, passando anzitutto da una presa di coscienza di se stessi e del gruppo umano di cui si fa parte. Infatti solo chi apprezza la propria identità, potrà apprezzare l’altrui: approfondiremo questo concetto nella terza parte, dedicata all’ideologia antirazzista.
Il criterio anatomico-fisiologico vede il suo fondatore nel tedesco Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840). Egli pone come base fondamentale delle razze umane gli elementi fisici e somatici, dando massima importanza al cranio, alla pelle e all’iride. Dall’osservazione egli deduce tre grandi razze (caucasica, mongolica, etiopica) più due intermedie (americana e malese). Il francese Georges Cuvier (1769-1832), grande studioso di anatomia comparata, considera invece solo le prime tre (Europoide, Mongoloide, Negroide).
Johann Friedrich Blumenbach, il padre dell’antropologia anatomico-fisiologica
https://www.europeana.eu/it/item/92062/BibliographicResource_1000126175519
Il criterio linguistico, che ebbe tra i suoi sostenitori il britannico James Cowles Prichard (1786-1848) e il tedesco August Schleicher (1821-1868), basa la catalogazione sulle lingue e in particolare sulla loro filogenesi. Se in generale il Prichard accetta la suddivisione del Blumenbach trovandola corrispondente alla filogenesi dei linguaggi, molti antropologi linguisti riducono le grandi razze a tre: la bianca, caratterizzata da lingue flessive; la gialla, da lingue isolanti; la nera, da lingue agglutinanti.
James Cowles Prichard, sostenitore dell’antropologia linguistica
https://www.britannica.com/biography/James-Cowles-Prichard
Il criterio geografico, la cui importanza fu sottolineata in particolare dal tedesco Hermann Burmeister (1807-1892) e dallo svizzero Louis Agassiz (1807-1873), si basa sulle differenze naturali delle zone geografiche per dedurre i vari gruppi umani presenti, definendo le cosiddette regioni etnografiche. Il Burmeister ne definisce cinque, a cui corrispondono altrettante grandi razze: l’America, con gli Americani (Amerindi); l’Eurasia (cui associa il Nordafrica e toglie le parti meridionali e orientali dell’Asia) con i Caucasici; il resto dell’Africa con gli Etiopici; il resto dell’Asia con i Mongolici; l’Australia, con i cosiddetti Negri della Nuova Olanda.
Hermann Burmeister, grande esponente dell’antropologia geografica
http://mantodea.myspecies.info/hermann-burmeister-1807-1892
Il criterio etologico trovò un precursore nel tedesco Friedrich Max Müller (1823-1900) [6], che, sostenitore altresì del criterio linguistico, fu il fondatore dello studio comparato delle religioni. Secondo il Müller la lingua stessa diventa un fattore connaturato all’uomo pensante, sicché i segni fonetici hanno con i concetti una connessione necessaria[7].
Friedrich Max Müller, fondatore dello studio comparato tra le religioni
https://it.wikipedia.org/wiki/Friedrich_Max_M%C3%BCller#/media/File:Friedrich_Max_Müller,_1898.jpg
Ma il vero sostenitore di un criterio etologico generale (che egli chiamava abito psichico) fu l’Italiano Giovanni Marro (1875-1952), che riteneva in particolare il citato criterio anatomico-fisiologico del tutto insufficiente per definire qualsivoglia razza. Secondo il suo pensiero ciò che deve contare di più per definire una singola razza è quel “substrato formativo” che altro non è se non “un passato storico, rappresentante come un patrimonio ininterrottamente trasmesso di generazione in generazione”. Da esso un determinato raggruppamento umano trae quelle doti necessarie a caratterizzarsi come razza. Questo concetto fu tipico dell’antropologia nazionale prima della seconda guerra mondiale.
L’antropologo Italiano Giovanni Marro
Foto d’epoca
Gli esempi fatti presentano tutti pregi e difetti. Nel nostro approccio pertanto, noi non ci rendiamo sostenitori dell’uno o dell’altro criterio, ma li consideriamo tutti rilevanti.
1.3 L’importanza della filogenesi e gli errori del darvinismo e del poligenismo
Nella descrizione delle razze umane ha sicuramente una certa importanza la filogenesi, ossia comprendere le parentele che sussistono tra i vari gruppi umani. Tuttavia relativamente all’attenzione prestata a questo aspetto vogliamo differenziarci dal Marselli. E’ evidente che per addentrarsi nell’albero genealogico dei gruppi umani occorrerebbero ben altri studi. Qui ci limiteremo ad avere come obiettivo precipuo una molto sommaria descrizione attuale delle razze, senza voler rimontare ad Adamo ed Eva. In questo ci avviciniamo di più al Bory de Saint-Vincent [8], che nelle sue suddivisioni dava molto risalto ad usi e costumi. Infatti non è detto che la filogenesi sia l’aspetto più importante: dipende sempre dall’obiettivo che ci si prefigge in una classificazione.
Ciò che comunque rigettiamo senz’altro sono gli influssi darvinista [9] e poligenista, non scevri di velleità antireligiose da cui non è alieno lo stesso Marselli. Tali influssi causarono nel passato tante incomprensioni e incoerenze che contribuirono al sorgere di opposti estremismi.
Oggigiorno è ormai noto, nonostante una consolidatissima e quasi intoccabile vulgata, che l’evoluzionismo interspecifico (cioè tra diverse specie) è una teoria del tutto infondata e mai dimostrata scientificamente: esiste una copiosa letteratura che sfata il mito darvinista ed evoluzionista, e a quella rimandiamo.
Ciò che è invece scientificamente dimostrata è la caratterizzazione intraspecifica (cioè una certa modificazione all’interno della stessa specie, non essendo al contrario dimostrabile la teoria fissista), che appunto origina le razze in cui tutte le specie si dividono.
E’ evidente all’osservazione sperimentale che gli organismi si possono modificare nell’ambito della propria specie, sotto l’influsso dell’ambiente e della selezione. La selezione del resto può essere anche effettuata dall’uomo, come nelle specie allevate. Basti pensare poi ai microorganismi, che, dato il velocissimo scorrere delle generazioni, si modificano velocemente adattandosi alle condizioni in cui si trovano.
Non è invece mai stata dimostrata l’esistenza passata o presente di chimere a mezzo tra una specie e l’altra. Del resto la fondamentale contraddizione darvinista è rintracciabile proprio nella compresenza di due assunti ritenuti entrambi validi: da un lato si afferma che le specie si trasformano gradualmente l’una nell’altra; dall’altro si afferma che si selezionano naturalmente solo
gli esseri più adatti all’ambiente. Poiché però una chimera, presentando caratteristiche al limite dell’assurdo, è per definizione inadatta all’ambiente, come potrebbe essa dare origine a una nuova specie? Come ben si vede i due assunti sono tra loro inconciliabili e dimostrano anche solo in modo speculativo l’inconsistenza pratica della teoria.
All’epoca del Marselli c’era molta confusione tra i termini, tanto che alcuni studiosi suddividevano il genere umano non in razze, ma in specie. Ad esempio il Bory de Saint-Vincent lo suddivideva addirittura in 15 specie! Dacché però si definì il termine specie come gruppo di esseri viventi interfecondabili con prole feconda, è evidente che il termine corretto è razza. Tuttavia è interessante segnalare, tanto per dare un’idea dei “giochi semantici” che caratterizzano le differenti epoche, che il Marselli, essendo sostanzialmente propenso al poligenismo, avrebbe preferito il termine specie, ritenendo il termine razza un edulcorante introdotto per motivi pietistici e religiosi: in altre parole nel XIX secolo lo stesso termine che oggi fa paura ai benpensanti era ritenuto un edulcorante!
Per ciò che concerne il poligenismo, lo rigettiamo anzitutto perché cozza con la Rivelazione Cattolica. Inoltre anche a livello scientifico non si ha alcun vero ostacolo al monogenismo, poiché come abbiamo detto, le varie specie si possono differenziare nel corso del tempo in razze, tanto che attraverso gli incroci se ne formano sempre di nuove (i basters namibiani, originati da unioni tra Boeri e Neri, tra cui Bantù Nama e Ottentotti, ne sono un esempio recentissimo).
1.4 La questione del quarto criterio
Per i nostri obiettivi è essenziale approfondire quello che abbiamo definito quarto criterio di classificazione, il criterio etologico, che possiamo considerare come quello comprendente tutti gli aspetti psichici, morali e spirituali che caratterizzano un gruppo umano. E’ evidente che essi investono una molteplicità di fattori, alcuni dei quali esulano totalmente dall’antropologia, massime quelli inerenti discipline metafisiche. Ciò che però riguarda l’antropologia è comprendere quali tra questi numerosissimi fattori etologici possano contribuire a caratterizzare una razza. Del resto anche ciò che è esclusivamente fenotipico è molto importante nella descrizione delle schiatte. E’ evidente che l’uso di portare un particolare copricapo non si eredita geneticamente: tuttavia esso si eredita in modo culturale e contribuisce al consolidarsi di un senso di appartenenza etnico e non è affatto da trascurare nella definizione del nostro concetto di razza, cui contribuiscono aspetti scientifici e non scientifici. Infatti, anche se una certa usanza viene abbandonata da un gruppo etnico, questa rimarrà sempre come una caratteristica storica di quel gruppo che conserverà sempre una sua importanza.
Circa i caratteri psichici e morali, rigettiamo naturalmente le estremizzazioni, che oggigiorno possiamo tranquillamente definire infondate e talora addirittura assurde (basti pensare agli eccessi della scuola lombrosiana). Non vi è invece nulla di male a notare una certa predisposizione di particolari gruppi etnici a differenti abilità: statisticamente si è visto ad esempio che gli Indiani sono molto portati per la matematica, i neri dell’Africa centrale sono adattissimi alla corsa, molti popoli europei alle scoperte scientifiche e alle arti. Ciò non significa che non ci possa essere un nero che è inetto alla corsa ma è un formidabile inventore e matematico. In altre parole non si parla di classifiche di merito o di differenze di intelligenza tra le razze. Significa soltanto sottolineare una predisposizione storica causata da una molteplicità di fattori, spesso insondabili.
A questo proposito occorre sgombrare il campo da parecchi equivoci. Oggigiorno la gente si scandalizza e si straccia le vesti biasimando i nostri antenati che spesso ritenevano altre razze, in particolare le nere, scarsamente intelligenti e quasi animalesche. Oggigiorno è ampiamente dimostrato che l’intelligenza non è una caratteristica razziale ma è tipica del singolo individuo. Ma proviamo a metterci nei panni di un nostro antenato di molti secoli fa, che, dotato di una certa cultura e esponente di una civiltà già avanzata, si trovava di fronte nei suoi viaggi intorno al mondo a genti esteticamente così diverse da non ricordargli affatto suoi simili, con modi di vita talmente primitivi e barbari da stupirlo in negativo. Vi sono resoconti in cui gli autori dubitavano di essere di fronte ad esseri umani. Ebbene in tutto ciò non c’è alcuna colpa né alcuna cattiveria: probabilmente chiunque di noi trovandosi nelle stesse circostanze avrebbe avuto le medesime sensazioni. E sicuramente anche il selvaggio, posto improvvisamente innanzi a persone per lui così strane, dotate di poteri quasi “magici”, avrà pensato “non sono miei simili”.
Oggi che sono passati molti secoli e ci si è conosciuti bene, non si deve di punto in bianco passare all’antirazzismo autolesionista: si può invece finalmente giungere a quell’equilibrio che abbiamo invocato all’inizio del nostro approfondimento: “io sono orgoglioso della mia razza, perciò rispetto tutte le altre razze”.
Quando si capirà che non c’è nulla di offensivo o di pericoloso in ciò che si è detto, un Italiano potrà finalmente essere orgoglioso di appartenere a un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori, senza per questo disprezzare gli altri, ed anzi apprezzando le capacità di tutti gli altri popoli, anche quelli che apparentemente hanno inciso meno nella storia: basta andare in Australia per apprezzare una razza, quella aborigena, apparentemente priva di grandi azioni storiche, ma dotata tuttavia di molte qualità di tipo riflessivo.
Vittorio VETRANO
[1] Zingarelli N. (1929), Vocabolario della lingua Italiana, Bietti & Reggiani Editori, Milano; così le definizioni seguenti
[2] Paul Topinard (1830-1911), medico e antropologo francese
[3] Coloro che effettuarono classifiche di merito, come ad esempio lo scrittore Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), partivano infatti da presupposti ideologico-filosofici e non antropologici
[4] Lo studio accurato del cranio, con l’introduzione dell’indice cefalico, si deve allo svedese Anders Adolf Retzius (1796-1860)
[5] Tralasciamo per questioni di spazio ciò che fu fatto nelle epoche immediatamente precedenti, quando si posero le basi della futura antropologia: basti citare gli studi sistematici dello svedese Carlo Linneo (1707-1778)
[6] Da non confondersi col quasi omonimo Friedrich Müller (1834-1898), celebre linguista austriaco che fu eziandio un sostenitore del criterio antropologico linguistico
[7] A questa teoria si oppose in particolare il celebre linguista statunitense William Dwight Whitney (1827-1894); altri filologi legarono ancor più la lingua alla metafisica, come lo scrittore tedesco Paul Johann Ludwig Heyse (1830-1914)
[8] Jean Bory de Saint-Vincent (1778-1846), naturalista francese
[9] Tra i grandi sostenitori del darvinismo, oltre naturalmente al suo fondatore, il britannico Charles Robert Darwin (1809-1882), troviamo il biologo britannico Thomas Henry Huxley (1825-1895) e il tedesco Ernst Heinrich Haeckel (1834-1919); in Italia da citare Paolo Mantegazza (1831-1910).
Immagine del titolo iniziale: i cinque grandi gruppi umani in un disegno del 1911
https://rarehistoricalphotos.com/five-races-of-mankind-1911/
Immagine del titolo della Prima Parte: accuratissima illustrazione dei vari incroci razziali in Messico
(Fine prima parte; continua con la seconda parte)